martedì 30 maggio 2017

Meister Heckhart e la spiritualità del distacco

«Quando predico, sono solito parlare del distacco e dire che l’uomo deve essere distaccato da se stesso e da tutte le cose. In secondo luogo, che deve essere reintrodotto nel Bene semplice, che è Dio. In terzo luogo, che si ricordi della grande nobiltà che Dio ha messo nell’anima, in modo che l’uomo giunga, così meravigliosamente, fino a Dio». 
Così, all’inizio del sermone Misit dominus manum suam, il maestro domenicano descrive la sua predicazione. In effetti, egli ripete sempre, anche se in modo sempre nuovo, con quella che Giuseppe Faggin, pioniere degli studi eckhartiani in Italia, definiva «sublime monotonia», il suo insegnamento: il distacco, appunto. Non v’è niente di nuovo in ciò, ed Eckhart lo sa benissimo. 

Questo è l’insegnamento che proviene da tutta la filosofia antica, e, insieme, il nucleo dell’evangelo, quale, nei secoli, la mistica ha conservato. La mistica, unica vera erede della filosofia antica, che era non solo e non tanto una professione intellettuale, ma un genere di vita, la vita vissuta come melète thanàtou, esercizio di morte, come Platone scrive nel Fedone.
Questa “morte” non è, infatti, altro che il distacco, l’esercizio continuo della liberazione dell’anima dai legami che la tengono prigioniera, non solo al corpo, ma soprattutto agli inganni, alle menzogne, che l’anima fa a se stessa, e che sono le più terribili, dal momento che in questo caso, come dice ancora Platone, «l’ingannatore è in noi stessi». Quasi a mo’ di riassunto, di conclusione della grande storia della filosofia antica, alla domanda su cosa sia necessario perché l’anima giunga a contatto con la “grande luce”, Plotino risponde infatti: «àfele pànta, — distàccati da tutto».
Con un’immagine che proprio da Plotino giunge al Rinascimento, il distacco è paragonato al lavoro dello scultore che toglie via il marmo che ricopre la statua, perché essa possa apparire, finalmente libera da ciò che era superficiale, inessenziale. La statua che ciascuno di noi deve scolpire, togliendo via l’inessenziale, è il nostro vero essere, ricoperto dalle incrostazioni costituite da tutto ciò che è accidentale, soggetto al tempo e allo spazio: carattere, abitudini, cultura, sentimenti, ecc.
Il distacco, l’evangelica rinuncia a se stessi, significa la fine di quella che nel suo volgare tedesco Eckhart chiama Eigenschaft, appropriazione, ovvero l’amore di se stessi, «radice di ogni male e peccato». Ma attenzione: il punto è che quel “noi stessi” da cui ci distacchiamo non è affatto il nostro vero essere, il nostro vero “io”. Proprio in quanto operazione di verità, discesa nel profondo dell’anima, svelando le radici egoistiche del nostro pensare, del nostro volere, del nostro sentire, il distacco mette a nudo l’anima nostra, mostrando che quell’“ego” cui siamo tanto affezionati è in effetti un mero agglomerato di volizioni, contenuti, pensieri, che rimandano l’uno all’altro senza fine, davvero senza capo né coda. Solo Dio può a buon diritto dire “io”, scrive perciò Eckhart, giacché un “ego” come sostanza è inattingibile.
E, sotto questo aspetto, il distacco è un’operazione di indagine, di ricerca su stessi, che sorpassa di gran lunga le moderne psico-analisi e che trova un eventuale parallelismo solo nelle filosofie dell’India, tanto induista quanto buddhista (non a caso il maestro domenicano è la principale figura cristiana di riferimento nell’attuale dialogo-confronto tra mistica d’oriente e mistica d’occidente).
«Per quanto tu percorra l’anima, mai non troverai i confini, tanto profondo è il suo Logos», recita un detto del primo filosofo del Logos, Eraclito — uno di quei «maestri pagani che conobbero la verità prima della fede cristiana» — e questo assioma potrebbe valere anche per Eckhart.
Dio non è un ente, afferma perciò Eckhart: lo si pensa come ente solo per il nostro peccato, l’amore di noi stessi, che ci costringe a pensare in modo oggettivante, con tutte le contraddizioni che ciò comporta nell’ambito del divino. Dio è Spirito, come Gesù dice alla samaritana, e non v’è, quindi, una conoscenza “teologica” di Dio come di un ente; v’è invece un vivere dello Spirito nello Spirito già qui e ora, nel presente, con tutta la beatitudine che alla vita dello Spirito è connessa, una beatitudine incondizionata, che, verrebbe da dire con Dante, «intender non la può chi non la prova».
Questa, della “nascita” del Logos, del Figlio, nell’anima, con la quale il cristiano è reso uguale al Figlio, figlio come il Figlio, è la caratteristica specificamente cristiana del maestro domenicano, che non può perciò — nonostante ogni somiglianza — essere accomunato a guru o maestri di altre religioni o tendenze, tanto meno alla contemporanea new-age.
Resta però vero che il suo insegnamento può essere facilmente equivocato: difendendolo dalle accuse che gli erano state mosse, e che avevano fatto censurare come eretiche alcune sue proposizioni, Giovanni Taulero, domenicano suo discepolo, ricorda infatti che il suo “amabile maestro” non è stato compreso da chi intendeva solo il linguaggio della temporalità, perché egli «parlava invece dal punto di vista dell’eternità».
di Marco Vannini