Un penny. Era questo il prezzo del
biglietto al wooden o (“o di legno”), come era stato ribattezzato il
Globe Theatre ai tempi di Shakespeare. Una cifra contenuta che tuttavia
garantiva l’accesso solo nell’area prospiciente il palco. Qui il
pubblico meno abbiente — quelli che potevano pagare due penny accedevano
alle tribune sopraelevate — non aveva a disposizione sedie o panche e
semplicemente assisteva in piedi agli spettacoli che spesso iniziavano
nel pomeriggio e si protraevano fino a sera.
E
oltre a godersi la rappresentazione, si concedeva qualche sostanzioso
spuntino, senz’altro necessario vista la durata delle messe in scena.
Alcuni recenti studi archeologici hanno infatti dimostrato che i
groundlings (cosi venivano chiamati, non senza una certa vena di
disprezzo, gli spettatori da un penny) amavano sgranocchiare noci e
noccioline di vario tipo, un po’ gli antenati degli attuali popcorn. Il
pubblico seduto nelle gallerie placava invece il suo appetito consumando
costosi frutti di mare e frutta secca di importazione. In tutti i
teatri era inoltre consentito fumare la pipa, appena giunta dalle
Americhe insieme al tabacco, nonostante l’evidente rischio di incendi.
Ma quello che più conta è che il pubblico, e soprattutto i groundlings,
partecipava allo spettacolo in un modo per noi del tutto sconosciuto,
cioè commentando a voce alta l’azione sul palco e anche interagendo
direttamente con gli attori in una sorta di botta e risposta.
Un
genere molto popolare, quindi il teatro elisabettiano. Dal Globe la
noia era bandita e il pubblico non cedeva al sonno. Ma non perché fosse
costretto in piedi, bensì perché sperimentava un autentico
coinvolgimento emotivo, distante secoli dal tedio di molti teatri
italiani punteggiati di teste reclinate.
Era
questo l’habitat naturale di William Shakespeare. In questo ambiente,
chiassoso, fumoso e pieno di odori, ha raffinato la sua impareggiabile
arte, che ancora oggi, a quattrocento anni dalla morte, lo rende in
assoluto il più noto scrittore in lingua inglese e uno degli autori più
geniali nella storia della letteratura mondiale.
William
era figlio autentico del suo tempo, un’epoca in cui, come detto, il
teatro era un genere molto popolare anche grazie alla produzione di una
schiera di autori. Ma se nessuno può certo negare l’abilità, e in alcuni
casi anche la genialità, di playwrights come Ben Jonson o Christopher
Marlowe, nessuno può paragonare lo loro produzione a quella
shakespeariana, sia per qualità che per durata in prospettiva. E furono
proprio gli autori contemporanei a Shakespeare, primo tra tutti Jonson, a
riconoscergli una superiore grandezza.
Bisogna
quindi interrogarsi su cosa in realtà renda Shakespeare così unico.
Perché solo uno dei tanti scrittori teatrali della Londra a cavallo tra
cinque e seicento è veramente riuscito a sopravvivere, attraverso la sua
opera, all’inesorabile passaggio del tempo? E come mai ogni piccolo
particolare della sua vita, vero o presunto che sia, viene studiato in
una quantità di testi che ogni anno supera di migliaia di volte la
produzione shakespeariana?
Fiumi di
inchiostro sono in effetti stati versati per investigare sull’identità
dello scrittore, sulla sua appartenenza politica, sul suo credo
religioso. Molto meno si è scritto sulla sua capacità, davvero unica, di
usare il teatro — inteso come spazio fisico — come luogo privilegiato
per indagare sulle forze interiori che agitano e muovono l’essere umano.
Una sorta di laboratorio in cui far confluire, per poi analizzarle, le
passioni umane. I dubbi di Amleto, la crudeltà di Riccardo iii, le
ambizioni di Macbeth, la sensazione di perdita di Lear, l’invidia di
Jago e la gelosia di Otello, l’amore incondizionato di Romeo e
Giulietta, il desiderio di vendetta di Calibano, ma anche la gioiosa
leggerezza di Ariel, sono stati d’animo che accomunano tutti e nei quali
tutti possono riconoscersi. Shakespeare, semplicemente, lo aveva
compreso e nelle sue opere non fa null’altro che mettere lo spettatore
davanti a se stesso. In una sorta di gioco di specchi amplificato dalla
potenza dello strumento teatrale, che come un catalizzatore — per
citare Thomas Stearns Eliot — addensa la materia e lascia davanti agli
occhi del pubblico solo il necessario: la verità sull’uomo.
L’autore
era quindi consapevole e aveva grande fiducia nella capacità di
indagine del teatro. Lo dimostra ad esempio nell’Amleto, quando il
principe di Danimarca, per fare luce sull’assassinio del padre, fa
mettere in scena la morte di questi, smascherando il colpevole.
Qui
risiede la vera grandezza dello scrittore inglese: a renderlo unico è
in definitiva la sua capacità di fare del teatro un impareggiabile
strumento per scrutare l’animo umano e per coglierne la realtà. Perché ,
come recitava il motto del Globe Theatre, Totus mundus agit histrionem
(“Tutto il mondo recita”).
di Giuseppe Fiorentino