sabato 23 aprile 2016

William Shakespeare: a quattrocento anni dalla morte

Un penny. Era questo il prezzo del biglietto al wooden o (“o di legno”), come era stato ribattezzato il Globe Theatre ai tempi di Shakespeare. Una cifra contenuta che tuttavia garantiva l’accesso solo nell’area prospiciente il palco. Qui il pubblico meno abbiente — quelli che potevano pagare due penny accedevano alle tribune sopraelevate — non aveva a disposizione sedie o panche e semplicemente assisteva in piedi agli spettacoli che spesso iniziavano nel pomeriggio e si protraevano fino a sera. 

E oltre a godersi la rappresentazione, si concedeva qualche sostanzioso spuntino, senz’altro necessario vista la durata delle messe in scena. Alcuni recenti studi archeologici hanno infatti dimostrato che i groundlings (cosi venivano chiamati, non senza una certa vena di disprezzo, gli spettatori da un penny) amavano sgranocchiare noci e noccioline di vario tipo, un po’ gli antenati degli attuali popcorn. Il pubblico seduto nelle gallerie placava invece il suo appetito consumando costosi frutti di mare e frutta secca di importazione. In tutti i teatri era inoltre consentito fumare la pipa, appena giunta dalle Americhe insieme al tabacco, nonostante l’evidente rischio di incendi. Ma quello che più conta è che il pubblico, e soprattutto i groundlings, partecipava allo spettacolo in un modo per noi del tutto sconosciuto, cioè commentando a voce alta l’azione sul palco e anche interagendo direttamente con gli attori in una sorta di botta e risposta.
Un genere molto popolare, quindi il teatro elisabettiano. Dal Globe la noia era bandita e il pubblico non cedeva al sonno. Ma non perché fosse costretto in piedi, bensì perché sperimentava un autentico coinvolgimento emotivo, distante secoli dal tedio di molti teatri italiani punteggiati di teste reclinate.
Era questo l’habitat naturale di William Shakespeare. In questo ambiente, chiassoso, fumoso e pieno di odori, ha raffinato la sua impareggiabile arte, che ancora oggi, a quattrocento anni dalla morte, lo rende in assoluto il più noto scrittore in lingua inglese e uno degli autori più geniali nella storia della letteratura mondiale.
William era figlio autentico del suo tempo, un’epoca in cui, come detto, il teatro era un genere molto popolare anche grazie alla produzione di una schiera di autori. Ma se nessuno può certo negare l’abilità, e in alcuni casi anche la genialità, di playwrights come Ben Jonson o Christopher Marlowe, nessuno può paragonare lo loro produzione a quella shakespeariana, sia per qualità che per durata in prospettiva. E furono proprio gli autori contemporanei a Shakespeare, primo tra tutti Jonson, a riconoscergli una superiore grandezza.
Bisogna quindi interrogarsi su cosa in realtà renda Shakespeare così unico. Perché solo uno dei tanti scrittori teatrali della Londra a cavallo tra cinque e seicento è veramente riuscito a sopravvivere, attraverso la sua opera, all’inesorabile passaggio del tempo? E come mai ogni piccolo particolare della sua vita, vero o presunto che sia, viene studiato in una quantità di testi che ogni anno supera di migliaia di volte la produzione shakespeariana?
Fiumi di inchiostro sono in effetti stati versati per investigare sull’identità dello scrittore, sulla sua appartenenza politica, sul suo credo religioso. Molto meno si è scritto sulla sua capacità, davvero unica, di usare il teatro — inteso come spazio fisico — come luogo privilegiato per indagare sulle forze interiori che agitano e muovono l’essere umano. Una sorta di laboratorio in cui far confluire, per poi analizzarle, le passioni umane. I dubbi di Amleto, la crudeltà di Riccardo iii, le ambizioni di Macbeth, la sensazione di perdita di Lear, l’invidia di Jago e la gelosia di Otello, l’amore incondizionato di Romeo e Giulietta, il desiderio di vendetta di Calibano, ma anche la gioiosa leggerezza di Ariel, sono stati d’animo che accomunano tutti e nei quali tutti possono riconoscersi. Shakespeare, semplicemente, lo aveva compreso e nelle sue opere non fa null’altro che mettere lo spettatore davanti a se stesso. In una sorta di gioco di specchi amplificato dalla potenza dello strumento teatrale, che come un catalizzatore — per citare Thomas Stearns Eliot — addensa la materia e lascia davanti agli occhi del pubblico solo il necessario: la verità sull’uomo.
L’autore era quindi consapevole e aveva grande fiducia nella capacità di indagine del teatro. Lo dimostra ad esempio nell’Amleto, quando il principe di Danimarca, per fare luce sull’assassinio del padre, fa mettere in scena la morte di questi, smascherando il colpevole.
Qui risiede la vera grandezza dello scrittore inglese: a renderlo unico è in definitiva la sua capacità di fare del teatro un impareggiabile strumento per scrutare l’animo umano e per coglierne la realtà. Perché , come recitava il motto del Globe Theatre, Totus mundus agit histrionem (“Tutto il mondo recita”).
di Giuseppe Fiorentino

venerdì 1 aprile 2016

Il tesoro nascosto in Nubia

Il servizio archeologico sudanese l’ha descritta come la scoperta archeologica più importante del decennio. È quella fatta da un team di archeologi italiani e russi che hanno riportato alla luce un antichissimo basamento in basalto costruito per una barca sacra con sopra un’iscrizione geroglifica. Il reperto è stato rivenuto nella città di Abu Erteila, a circa 200 chilometri a nord di Khartoum, lungo la sponda orientale del Nilo, a una distanza approssimativa di quattro chilometri dal fiume. «Stiamo ancora studiando il testo delle iscrizioni geroglifiche, ma abbiamo già individuato i cartigli con i nomi della coppia reale — il re Natakamani e la regina Amanitore — che regnò nel periodo d’oro della civiltà meroitica, tra i secoli i prima dell’era cristiana e i dell’era cristiana», ci dice Eugenio Fantusati, condirettore, insieme a Eleonora Kormysheva, della missione di scavo italo-russa patrocinata dall’Istituto italiano per il Medio ed Estremo Oriente (Ismeo) e dall’Istituto di Studi Orientali dell’Accademia delle Scienze russa.
Gli scavi di Abu Erteila
Le scoperte più rilevanti effettuate tra novembre e dicembre dello scorso anno — di cui verrà data comunicazione ufficiale lunedì 11 aprile a palazzo Baleani a Roma con una conferenza dal titolo «La missione archeologica dell’Ismeo ad Abu Erteila (Sudan)» — si concentrano in corrispondenza del naos di un tempio che era dedicato a una divinità che non è stata ancora individuata. È qui che sono stati ritrovati un altare rituale in basalto e il basamento che probabilmente sorreggeva una barca sacra con figure divine e i cartigli con i nomi del re Natakamani e della regina Amanitore.
La missione italo-russa lavora dal 2008 al sito nubiano di Abu Erteila sviluppatosi in piena età Meroitica classica (iii-i secolo prima dell’era cristiana) nella cosiddetta “isola di Meroe”, all’incrocio tra Nilo, Nilo Azzurro e Atbara. Abu Erteila è molto vicina all’antica capitale, Meroe, che dista infatti soltanto nove chilometri. «Questo significa, ma l’avevamo sospettato fin dall’inizio, che Abu Erteila durante il periodo meroitico potesse essere parte di un vasto insediamento che si sviluppava a Sud della vecchia capitale».
Non solo. Abu Erteila sorge in corrispondenza dello sbocco dello Wadi el Hawad, una pista molto importante che, dopo 40 chilometri, conduce alla località di Soba. «Qui c’era un santuario ed è verosimile che da Meroe partissero delle processioni e questa strada era presidiata da due centri gemelli: Abu Erteila da una parte e Awlib dall’altra. Abu Erteila e Awlib distano l’uno dall’altro appena cinque, seicentometri — per questo sono stati definiti dagli egittologi come i siti gemelli — e controllavano di fatto la strada che si spingeva lungo il deserto orientale per arrivare a Soba».
Quando il team ha iniziato gli scavi ad Abu Erteila nel 2015, il sito era completamente sconosciuto. Oggi la missione è all’ottava campagna di scavo e, oltre ad avere ottenuto come riconoscimento del suo lavoro l’inserimento del nome della località sulle mappe geografiche archeologiche, è arrivata al momento più interessante della ricerca lavorando sui resti di quello che era un antico tempio.
di Rossella Fabiani