giovedì 9 giugno 2016

Le opportunità offerte dal fenomeno migratorio

La questione dei migranti sta assumendo nel mondo una dimensione di vero dramma collettivo. Non si tratta più solo di persone in cerca di lavoro ma di decine di migliaia uomini e donne che fuggono dalle tragedie delle guerre, di profughi, di richiedenti asilo per ragioni sociali e politiche.

Il fenomeno non è solo europeo o mediterraneo, ma investe tutti continenti del pianeta. Dall’America centrale e meridionale si cerca in ogni modo di valicare muri e barriere di filo spinato creati per sbarrare la strada ai latinos che vogliono entrare nell’America del nord. Dall’Africa subsahariana un’intera generazione di ragazzi e ragazze guarda attraverso i media le immagini del mondo occidentale e vuole in ogni modo, anche solo per fare il lavapiatti o il lavavetri, partecipare a quello che appare il “banchetto” di una società comunque più ricca e organizzata. Tale è il desiderio che si rischia la vita per questo.
Dall’oriente poi (specie dall’Iraq e dalla Siria, ma anche dall’Afghanistan) sono in fuga milioni di persone per scampare dagli orrori di un fanatismo che strumentalizza la religione islamica. Chi si muove via terra si scontra con Paesi balcanici, come l’ex Repubblica Jugoslava di Macedonia o la Serbia, che soffrono per trovarsi ancora al di fuori dell’Unione europea. Oppure sbatte anche contro le barriere erette da altri Paesi membri come l’Ungheria, la Croazia o l’Austria. Dare giudizi sommari su queste vicende, senza lo sforzo di comprenderne le ragioni, spesso espone al rischio di non capire bene i fenomeni e, soprattutto, di non saper quindi individuare le possibili soluzioni. Anche il recente vertice g7 dei Paesi più potenti del mondo ha dovuto porre in agenda la questione delle migrazioni, senza tuttavia delineare ancora una valida strategia di azione. La portata di questo immenso movimento di persone e di genti trova un paragone solo con quello che è successo nel mondo negli anni del secondo conflitto mondiale. Per la sola Europa si parla oggi di 2 milioni di persone da accogliere in questi anni. Ma il fenomeno della mobilità non sembra destinato a fermarsi. Piuttosto si può ritenere che su questi grandi flussi in movimento si caratterizzerà la prospettiva del mondo.
Enormi problemi sociali, culturali e politici ancora impediscono una lucida comprensione di quello che accade e quindi anche di definire strategie all’altezza delle nuove sfide. Sul piano sociale il fenomeno migratorio impatta oggi con le conseguenze della crisi finanziaria ed economica che, nell’Occidente, ristagna dal 2007. Manca il lavoro in molti Paesi, i diritti sociali si restringono, è a rischio l’inclusione dei più deboli e la stessa coesione sociale. Accogliere stabilmente masse di profughi in questa situazione sembra ai più un compito arduo, al di là di tante buone volontà e generosità.
Sul piano culturale poi le distanze sono spesso percepite come incolmabili: diverse etnie, lingue e credo religiosi, stili di vita, usi familiari. Molti europei e occidentali manifestano disagio nell’accettare uomini e donne che provengono da mondi sconosciuti e che desiderano potersi trattenere nei nostri Paesi. Magari vi è anche disponibilità a un po’ di assistenza, ma non di più, perché l’idea di un vicinato permanente, di una prossimità esistenziale, di una integrazione quindi, suscita apprensione se non indisponibilità.
Per tutte queste e per altre ragioni gli aspetti politici del problema sono ancora più complessi. Negli ultimi vent’anni la debole crescita europea e occidentale, dopo il lunghissimo ciclo di benessere di massa successivo al secondo conflitto mondiale, ha smesso di ridurre le disuguaglianze sociali. Anzi le ha allargate e ne ha poi prodotte di nuove. La progressiva apertura globale dei mercati internazionali ha accresciuto le difficoltà espansive di molte economie, ha aumentato la competizione, mettendo fuori gioco molti settori tradizionali dell’industria manifatturiera occidentale a vantaggio di quella di Paesi emergenti con un più basso costo del lavoro e norme di controllo meno stringenti.
I sistemi politici in Europa, e in occidente in genere, sono divenuti così più instabili, minati da crescenti correnti nazionaliste, da movimenti xenofobi. I governi si sono progressivamente ridotti a dover cercare solo consensi nel breve termine, non potendo mai prendere decisioni strategiche per il lungo periodo, perché spesso queste avrebbero comportato sacrifici immediati poi ricompensati da vantaggi solo nel futuro lontano. Leadership progressivamente deboli, o anche apparentemente forti e decisioniste, si succedono nei diversi Paesi e anche nei sistemi istituzionali sovranazionali.
L’odierna questione delle migrazioni, ove non adeguatamente compresa e affrontata, potrebbe così divenire una forma nuova di conflitto mondiale, nel quale non si mietono migliaia vittime con le armi convenzionali, ma con le armi più sofisticate dell’indifferenza, del sospetto, dell’ignoranza, delle barriere immaginarie e di quelle realmente edificate per proteggere (rinchiudere) le comunità più sviluppate.
Se la crescita dell’Europa e del mondo occidentale segna una fase di perdurante difficoltà bisogna comprendere come una nuova stagione di sviluppo passi solo nella capacità di affrontare positivamente queste nuove straordinarie sfide poste dalle migrazioni, da nuove fasi di co-sviluppo tra Paesi forti e Paesi più deboli, di nuove e più intense integrazioni. Il nuovo progresso economico delle aree più forti potrà dunque avvenire solo con lo sviluppo e l’integrazione sociale delle aree più arretrate. Occorrono piani e programmi all’altezza di queste sfide, visioni culturali e politiche acute e lungimiranti. Occorre rovesciare la stessa prospettiva che ha sostenuto la crescita degli ultimi due secoli. L’impulso capitalista e imprenditoriale è ancora decisivo, ma è di per se stesso insufficiente. Bisogna costruire un contesto di più densa e consapevole socialità, di maggiore giustizia sociale. La persona e le sue libere formazioni essenziali — a partire dalle famiglie e dalle comunità locali — dovrebbero essere al centro della prospettiva economica. Le persone attraverso un lavoro onesto e dignitoso dovrebbero poter così evolvere, emanciparsi, integrarsi, riducendo ogni risposta meramente assistenzialistica della questione. L’impiego delle risorse dovrebbe improntarsi a una visione di sostenibilità nel lungo termine: non possiamo consumarle tutte, ma dobbiamo pensare alle generazioni future e individuare nuove sorgenti di risorse senza distruggere il pianeta. Una ecologia integrale che abbia, dunque, al centro l’uomo e le sue relazioni umane con gli altri uomini, i suoi bisogni individuali e, ancor di più, i suoi bisogni sociali.
di Michele Dau

mercoledì 8 giugno 2016

Galileo Galilei e la riflessione epistemologica

Se è noto ormai l’impegno profuso da Giovanni Paolo II durante il suo pontificato alla riapertura del ‘caso Galilei’ e alla sostanziale riabilitazione dello scienziato pisano, meno noto è il percorso che lo ha condotto a questa scelta ritenuta strategica non solo per la Chiesa ma per il mondo intero, percorso caratterizzato in un primo momento dal ruolo trainante affidato all’Accademia Pontificia delle Scienze con l’obiettivo di far dialogare fra di loro scienziati di ogni nazionalità credenti o meno e dopo dall’interesse sempre crescente verso la riflessione epistemologica. È da tenere presente che tale interesse si sviluppa e arriva a determinate prese di posizione da un lato man mano che le ricerche sulle complesse vicende del ‘caso Galilei’ si intensificavano in quanto gli hanno permesso di prendere atto del ruolo non secondario avuto dai dibattiti dell’epoca sulla natura della nuova scienza e sulle sue ‘verità’; e dall’altra la stessa attiva partecipazione alle plenarie dell’Accademia con gli incontri con scienziati di ogni tendenza gli ha consentito di verificare direttamente che la maggior parte dei dibattiti avvenivano proprio su questioni relative alla ‘verità’ delle diverse teorie scientifiche all’interno delle varie discipline. Basta, infatti, scorrere i suoi interventi a partire dai primi mesi del 1979 sino agli ultimi anni che culmineranno nella ‘Fides e ratio’ del 1998, per verificare il suo crescente interesse verso l’epistemologia sempre più ritenuta una disciplina necessaria e strategica fino a fare entrare nella stessa Accademia alcune figure di filosofi e di storici della scienza; questi interventi[1] se all’inizio erano d’occasione e di benvenuto ai partecipanti man mano arrivano a proporre dei punti di vista elaborati in funzione di un determinato obiettivo, quello di trovare una soluzione che aiuti a superare i secolari conflitti fra le verità della scienza e le verità della fede o quanto meno a fornire nuovi strumenti di dialogo critico e costruttivo fra il mondo della scienza e il mondo della Chiesa e dei credenti in genere.
A tale riguardo il pontefice polacco ritiene il ‘caso Galilei’ istruttivo per tutta una serie di fattori, da cui ritiene di dover partire per non incorrere negli stessi errori e per evitare quei dolorosi fraintendimenti che hanno costellato i non lineari rapporti della Chiesa col pensiero filosofico-scientifico moderno; come dice in una lettera del 1992 inviata all’allora Rettore dell’Università di Padova in occasione di un convegno su Galilei, «una delle conseguenze benefiche derivanti dalla ‘Questione Galileiana’ è stata quella di stimolare la riflessione epistemologica». In seguito, «il moltiplicarsi delle ricerche epistemologiche da parte degli uomini di scienza è, al riguardo, molto incoraggiante […] Quanto ai teologi, occorre riconoscere che, sotto la spinta delle scoperte scientifiche via via attuate, essi sono stati progressivamente condotti a una riflessione più approfondita circa l’ermeneutica biblica […] Nel secolo XVII gli avversari di Galilei, disorientati dalla teoria copernicana […] non seppero veder chiaro nella controversa materia»[2]. Ma ciò che mise ulteriormente in difficoltà gli ‘avversari’ di Galilei fu un fatto inedito nella storia del pensiero umano, cioè la comparsa sulla scena dei dibattiti della riflessione epistemologica da parte dello scienziato pisano come momento costitutivo e strutturale della stessa attività scientifica, come vera e propria filosofica militia nel senso propugnato da Federico Cesi quando fondò a Roma nei primi anni del ‘600 l’Accademia dei Lincei; quando si osserva il «gran theatro della natura« grazie alla «penetrazione dell’occhio della mente» come «l’oculatissima lince» è necessario «rimuovere tutti li ostacoli»[3], spazzare via pregiudizi e false verità anche se secolari e messe a base di vari saperi.
Galilei ha spiazzato i suoi ‘avversari’ già molto ‘disorientati’ con le sue penetranti analisi sul valore delle ipotesi, delle teorie e sul ruolo costitutivo della matematica; ma non si è limitato a fornirci nuovi strumenti di investigazione critica del ‘continente’ scienza col dare alla cesiana ‘filosofica militia’ una più organica valenza teoretica, ma ne ha esteso i risultati ad altri saperi ed in primis alla stessa teologia spiazzandola ed obbligandola a rivedere il proprio statuto. Questo è stato il primo ‘miracolo’ ottenuto dalla ‘filosofica militia’, dalla riflessione epistemologica; la riflessione critica, condotta da parte di Galilei, sulla struttura concettuale della nuova scienza e soprattutto sulle modalità con cui nuove ‘verità’ sono venute a galla, è stata coscientemente utilizzata per rivedere altre ‘verità’, quelle bibliche, liberandole definitivamente da quella che Giovanni Paolo II ha chiamato ‘la tirannia del letteralismo bibllico’, su cui si attardavano ancora i teologi del ‘600, grazie a quel «piccolo trattato di ermeneutica biblica»[4] costituito dalle Lettere copernicane. Per questo motivo il pontefice polacco ritiene la riflessione epistemologica sempre più necessaria per le varie discipline, proprio per le ulteriori conoscenze che esse continuano incessantemente a produrre sempre più bisognose di essere chiarite nei loro aspetti storico-concettuali; i benefici, poi, ottenuti dalla filosofia e dalla storia della scienza si ripercuotono sugli altri saperi costringendoli ad essere più critici, ad allargare i propri orizzonti conoscitivi e ad aprirsi a diverse prospettive, a ridefinire i rispettivi ambiti ed ad evitare riduzionismi sempre in agguato.
L’altro ‘miracolo’ della riflessione epistemologica è stato quello di ridare a Galilei il suo giusto ruolo, di ammettere gli errori compiuti nei suoi confronti e di riaprire il mondo della Chiesa al mondo della scienza[5]; tutti i suoi interventi all’Accademia Pontificia delle Scienze sono un invito costante a non sottovalutare la riflessione filosofica in generale e quella epistemologica in particolare, ritenute in grado di affrontare su nuove basi il dialogo fra verità della scienza e verità bibliche, e soprattutto di dare strumenti in grado di individuare i travisamenti ideologici che a volte subiscono le teorie scientifiche, soprattutto alcune interpretazioni della teoria dell’evoluzione. Uno degli insegnamenti di natura più generale che il pontefice polacco trae dalle contraddittorie vicende storiche dei rapporti fra scienza e fede è di finirla una volta per tutte con quelle che egli chiama nella lettera a Padre Coyne ‘insidie epistemologiche’, posizioni di cui sono vittime credenti ed non credenti: concordismo da parte dei credenti e contrapposizione netta da parte dei non credenti. Il concordismo, cioè quella posizione venuta prima a maturazione fra ‘700 e ‘800 da parte di alcuni scienziati e poi divenuta quasi ovvia per il credente, è quella di cercare delle conferme delle verità di fede in alcune teorie; la contrapposizione netta è quella opposta portata avanti da scienziati atei e da non credenti in genere che in nome di alcune teorie scientifiche ritengono infondate e se senza senso per l’uomo le verità dell’esperienza di fede. Per Giovanni Paolo II, la comprensione storico-critica del ‘Caso Galilei’ rende arretrate e ingenue, per non dire infantili queste due posizioni contrapposte, sino a diventare vere e proprie ‘insidie’ nel senso che portano entrambe al conflitto fra le verità della scienza e quelle della fede; per questo motivo egli si ritiene su questi argomenti un galileiano, certamente sui generis, nel senso che accetta l’autonomia di questi ambiti, ma nello stesso tempo essi vengono ritenuti interdipendenti perché soprattutto possono arricchirsi a vicenda senza sovrapporsi, come nel caso di Galilei. Questo ‘miracolo’, inoltre, porta dall’epistemologia all’ermeneutica e potremmo dire, sulla scia di Dario Antiseri, che «epistemologia ed ermeneutica ‘unum et idem sunt’»[6]. La lezione storico-epistemologica del ‘Caso Galilei’ ha innescato quindi queste riflessioni da parte di Giovanni Paolo II, che certamente non si vuole far passare per un epistemologo, ma solo far vedere come l’interesse costante per la filosofia della scienza abbia avuto un ruolo non secondario nelle scelte strategiche di un pontificato.
Mario Castellana

[1] Cfr. Giovanni Paolo II, Scienza e verità, a cura di M. Castellana, Lecce-Brescia, Pensa Multimedia, 2010; è da notare che molti incontri su sua espressa volontà sono stati volutamente dedicati a grandi scienziati del passato e del ‘900 come Galilei, Newton, Darwin, Mendel, Einstein, Grossman, ecc. Altri incontri vertevano su problemi dell’astrofisica, della biologia, delle neuroscienze, delle scienze della complessità, delle scienze applicate come anche delle scienze sociali ed economiche.
[2] Tale lettera di Giovanni Paolo II si trova nel ns. «Epistemologia ed ermeneutica. Le benefiche conseguenze del ‘Caso Galilei’ per Giovanni Paolo II», in Foedus, 39, 2014, pp. 58-69.
[3] F. Cesi, Il natural desiderio di sapere. The Natural Desir for Knowledge, a cura di C. Vinti, Vatican City, Pontificia Academia Scientiarum, 2003, p. 126.
[4] Cfr. Giovanni Paolo II, «Lettera al Rettore dell’Università di Padova» e «Lettera a Padre Coyne» (1998), in Scienza e verità, op. cit., pp. 107-118.
[5] Significativa a tale riguardo il fatto che nei primi anni del nuovo secolo l’introduzione contestuale nei seminari degli insegnamenti di ‘Epistemologia’ e di ‘Ermeneutica’, come è significativo il fatto che col successivo pontificato tali insegnamenti sono scomparsi sostituiti da insegnamenti più tradizionali.
[6] D. Antiseri, «Quando, come e perché epistemologia ed ermeneutica ‘unum et ideem sunt’», in H. Albert-D. Antiseri, Epistemologia, ermeneutica e scienze sociali, Roma, Ed. LUISS, 2002, pp. 51-109.