La questione dei migranti sta
assumendo nel mondo una dimensione di vero dramma collettivo. Non si tratta più
solo di persone in cerca di lavoro ma di decine di migliaia uomini e donne che
fuggono dalle tragedie delle guerre, di profughi, di richiedenti asilo per
ragioni sociali e politiche.
Il fenomeno non è solo europeo o mediterraneo,
ma investe tutti continenti del pianeta. Dall’America centrale e meridionale si
cerca in ogni modo di valicare muri e barriere di filo spinato creati per
sbarrare la strada ai latinos che vogliono entrare nell’America del nord.
Dall’Africa subsahariana un’intera generazione di ragazzi e ragazze guarda
attraverso i media le immagini del mondo occidentale e vuole in ogni modo, anche
solo per fare il lavapiatti o il lavavetri, partecipare a quello che appare il
“banchetto” di una società comunque più ricca e organizzata. Tale è il desiderio
che si rischia la vita per questo.
Dall’oriente poi (specie dall’Iraq e dalla Siria, ma anche dall’Afghanistan) sono in fuga milioni di persone per scampare dagli orrori di un fanatismo che strumentalizza la religione islamica. Chi si muove via terra si scontra con Paesi balcanici, come l’ex Repubblica Jugoslava di Macedonia o la Serbia, che soffrono per trovarsi ancora al di fuori dell’Unione europea. Oppure sbatte anche contro le barriere erette da altri Paesi membri come l’Ungheria, la Croazia o l’Austria. Dare giudizi sommari su queste vicende, senza lo sforzo di comprenderne le ragioni, spesso espone al rischio di non capire bene i fenomeni e, soprattutto, di non saper quindi individuare le possibili soluzioni. Anche il recente vertice g7 dei Paesi più potenti del mondo ha dovuto porre in agenda la questione delle migrazioni, senza tuttavia delineare ancora una valida strategia di azione. La portata di questo immenso movimento di persone e di genti trova un paragone solo con quello che è successo nel mondo negli anni del secondo conflitto mondiale. Per la sola Europa si parla oggi di 2 milioni di persone da accogliere in questi anni. Ma il fenomeno della mobilità non sembra destinato a fermarsi. Piuttosto si può ritenere che su questi grandi flussi in movimento si caratterizzerà la prospettiva del mondo.
Enormi problemi sociali, culturali e politici ancora impediscono una lucida comprensione di quello che accade e quindi anche di definire strategie all’altezza delle nuove sfide. Sul piano sociale il fenomeno migratorio impatta oggi con le conseguenze della crisi finanziaria ed economica che, nell’Occidente, ristagna dal 2007. Manca il lavoro in molti Paesi, i diritti sociali si restringono, è a rischio l’inclusione dei più deboli e la stessa coesione sociale. Accogliere stabilmente masse di profughi in questa situazione sembra ai più un compito arduo, al di là di tante buone volontà e generosità.
Sul piano culturale poi le distanze sono spesso percepite come incolmabili: diverse etnie, lingue e credo religiosi, stili di vita, usi familiari. Molti europei e occidentali manifestano disagio nell’accettare uomini e donne che provengono da mondi sconosciuti e che desiderano potersi trattenere nei nostri Paesi. Magari vi è anche disponibilità a un po’ di assistenza, ma non di più, perché l’idea di un vicinato permanente, di una prossimità esistenziale, di una integrazione quindi, suscita apprensione se non indisponibilità.
Per tutte queste e per altre ragioni gli aspetti politici del problema sono ancora più complessi. Negli ultimi vent’anni la debole crescita europea e occidentale, dopo il lunghissimo ciclo di benessere di massa successivo al secondo conflitto mondiale, ha smesso di ridurre le disuguaglianze sociali. Anzi le ha allargate e ne ha poi prodotte di nuove. La progressiva apertura globale dei mercati internazionali ha accresciuto le difficoltà espansive di molte economie, ha aumentato la competizione, mettendo fuori gioco molti settori tradizionali dell’industria manifatturiera occidentale a vantaggio di quella di Paesi emergenti con un più basso costo del lavoro e norme di controllo meno stringenti.
I sistemi politici in Europa, e in occidente in genere, sono divenuti così più instabili, minati da crescenti correnti nazionaliste, da movimenti xenofobi. I governi si sono progressivamente ridotti a dover cercare solo consensi nel breve termine, non potendo mai prendere decisioni strategiche per il lungo periodo, perché spesso queste avrebbero comportato sacrifici immediati poi ricompensati da vantaggi solo nel futuro lontano. Leadership progressivamente deboli, o anche apparentemente forti e decisioniste, si succedono nei diversi Paesi e anche nei sistemi istituzionali sovranazionali.
L’odierna questione delle migrazioni, ove non adeguatamente compresa e affrontata, potrebbe così divenire una forma nuova di conflitto mondiale, nel quale non si mietono migliaia vittime con le armi convenzionali, ma con le armi più sofisticate dell’indifferenza, del sospetto, dell’ignoranza, delle barriere immaginarie e di quelle realmente edificate per proteggere (rinchiudere) le comunità più sviluppate.
Se la crescita dell’Europa e del mondo occidentale segna una fase di perdurante difficoltà bisogna comprendere come una nuova stagione di sviluppo passi solo nella capacità di affrontare positivamente queste nuove straordinarie sfide poste dalle migrazioni, da nuove fasi di co-sviluppo tra Paesi forti e Paesi più deboli, di nuove e più intense integrazioni. Il nuovo progresso economico delle aree più forti potrà dunque avvenire solo con lo sviluppo e l’integrazione sociale delle aree più arretrate. Occorrono piani e programmi all’altezza di queste sfide, visioni culturali e politiche acute e lungimiranti. Occorre rovesciare la stessa prospettiva che ha sostenuto la crescita degli ultimi due secoli. L’impulso capitalista e imprenditoriale è ancora decisivo, ma è di per se stesso insufficiente. Bisogna costruire un contesto di più densa e consapevole socialità, di maggiore giustizia sociale. La persona e le sue libere formazioni essenziali — a partire dalle famiglie e dalle comunità locali — dovrebbero essere al centro della prospettiva economica. Le persone attraverso un lavoro onesto e dignitoso dovrebbero poter così evolvere, emanciparsi, integrarsi, riducendo ogni risposta meramente assistenzialistica della questione. L’impiego delle risorse dovrebbe improntarsi a una visione di sostenibilità nel lungo termine: non possiamo consumarle tutte, ma dobbiamo pensare alle generazioni future e individuare nuove sorgenti di risorse senza distruggere il pianeta. Una ecologia integrale che abbia, dunque, al centro l’uomo e le sue relazioni umane con gli altri uomini, i suoi bisogni individuali e, ancor di più, i suoi bisogni sociali.
Dall’oriente poi (specie dall’Iraq e dalla Siria, ma anche dall’Afghanistan) sono in fuga milioni di persone per scampare dagli orrori di un fanatismo che strumentalizza la religione islamica. Chi si muove via terra si scontra con Paesi balcanici, come l’ex Repubblica Jugoslava di Macedonia o la Serbia, che soffrono per trovarsi ancora al di fuori dell’Unione europea. Oppure sbatte anche contro le barriere erette da altri Paesi membri come l’Ungheria, la Croazia o l’Austria. Dare giudizi sommari su queste vicende, senza lo sforzo di comprenderne le ragioni, spesso espone al rischio di non capire bene i fenomeni e, soprattutto, di non saper quindi individuare le possibili soluzioni. Anche il recente vertice g7 dei Paesi più potenti del mondo ha dovuto porre in agenda la questione delle migrazioni, senza tuttavia delineare ancora una valida strategia di azione. La portata di questo immenso movimento di persone e di genti trova un paragone solo con quello che è successo nel mondo negli anni del secondo conflitto mondiale. Per la sola Europa si parla oggi di 2 milioni di persone da accogliere in questi anni. Ma il fenomeno della mobilità non sembra destinato a fermarsi. Piuttosto si può ritenere che su questi grandi flussi in movimento si caratterizzerà la prospettiva del mondo.
Enormi problemi sociali, culturali e politici ancora impediscono una lucida comprensione di quello che accade e quindi anche di definire strategie all’altezza delle nuove sfide. Sul piano sociale il fenomeno migratorio impatta oggi con le conseguenze della crisi finanziaria ed economica che, nell’Occidente, ristagna dal 2007. Manca il lavoro in molti Paesi, i diritti sociali si restringono, è a rischio l’inclusione dei più deboli e la stessa coesione sociale. Accogliere stabilmente masse di profughi in questa situazione sembra ai più un compito arduo, al di là di tante buone volontà e generosità.
Sul piano culturale poi le distanze sono spesso percepite come incolmabili: diverse etnie, lingue e credo religiosi, stili di vita, usi familiari. Molti europei e occidentali manifestano disagio nell’accettare uomini e donne che provengono da mondi sconosciuti e che desiderano potersi trattenere nei nostri Paesi. Magari vi è anche disponibilità a un po’ di assistenza, ma non di più, perché l’idea di un vicinato permanente, di una prossimità esistenziale, di una integrazione quindi, suscita apprensione se non indisponibilità.
Per tutte queste e per altre ragioni gli aspetti politici del problema sono ancora più complessi. Negli ultimi vent’anni la debole crescita europea e occidentale, dopo il lunghissimo ciclo di benessere di massa successivo al secondo conflitto mondiale, ha smesso di ridurre le disuguaglianze sociali. Anzi le ha allargate e ne ha poi prodotte di nuove. La progressiva apertura globale dei mercati internazionali ha accresciuto le difficoltà espansive di molte economie, ha aumentato la competizione, mettendo fuori gioco molti settori tradizionali dell’industria manifatturiera occidentale a vantaggio di quella di Paesi emergenti con un più basso costo del lavoro e norme di controllo meno stringenti.
I sistemi politici in Europa, e in occidente in genere, sono divenuti così più instabili, minati da crescenti correnti nazionaliste, da movimenti xenofobi. I governi si sono progressivamente ridotti a dover cercare solo consensi nel breve termine, non potendo mai prendere decisioni strategiche per il lungo periodo, perché spesso queste avrebbero comportato sacrifici immediati poi ricompensati da vantaggi solo nel futuro lontano. Leadership progressivamente deboli, o anche apparentemente forti e decisioniste, si succedono nei diversi Paesi e anche nei sistemi istituzionali sovranazionali.
L’odierna questione delle migrazioni, ove non adeguatamente compresa e affrontata, potrebbe così divenire una forma nuova di conflitto mondiale, nel quale non si mietono migliaia vittime con le armi convenzionali, ma con le armi più sofisticate dell’indifferenza, del sospetto, dell’ignoranza, delle barriere immaginarie e di quelle realmente edificate per proteggere (rinchiudere) le comunità più sviluppate.
Se la crescita dell’Europa e del mondo occidentale segna una fase di perdurante difficoltà bisogna comprendere come una nuova stagione di sviluppo passi solo nella capacità di affrontare positivamente queste nuove straordinarie sfide poste dalle migrazioni, da nuove fasi di co-sviluppo tra Paesi forti e Paesi più deboli, di nuove e più intense integrazioni. Il nuovo progresso economico delle aree più forti potrà dunque avvenire solo con lo sviluppo e l’integrazione sociale delle aree più arretrate. Occorrono piani e programmi all’altezza di queste sfide, visioni culturali e politiche acute e lungimiranti. Occorre rovesciare la stessa prospettiva che ha sostenuto la crescita degli ultimi due secoli. L’impulso capitalista e imprenditoriale è ancora decisivo, ma è di per se stesso insufficiente. Bisogna costruire un contesto di più densa e consapevole socialità, di maggiore giustizia sociale. La persona e le sue libere formazioni essenziali — a partire dalle famiglie e dalle comunità locali — dovrebbero essere al centro della prospettiva economica. Le persone attraverso un lavoro onesto e dignitoso dovrebbero poter così evolvere, emanciparsi, integrarsi, riducendo ogni risposta meramente assistenzialistica della questione. L’impiego delle risorse dovrebbe improntarsi a una visione di sostenibilità nel lungo termine: non possiamo consumarle tutte, ma dobbiamo pensare alle generazioni future e individuare nuove sorgenti di risorse senza distruggere il pianeta. Una ecologia integrale che abbia, dunque, al centro l’uomo e le sue relazioni umane con gli altri uomini, i suoi bisogni individuali e, ancor di più, i suoi bisogni sociali.
di Michele Dau