Due voci ci giungono dal
passato — nel piccolo libro Il compito degli ebrei di Lion Feuchtwanger e
Arnold Zweig. (Firenze, Giuntina, 2016, pagine 77, euro 10) a cura di Enrico
Paventi — a parlarci di nazionalismi, sionismo, antisemitismo, etica, ebrei:
tutti temi a tutt’oggi quanto mai attuali, quindi. Sono ambedue del 1933, l’anno
terribile in cui Hitler prende il potere. Sono le voci di due celebri scrittori
tedeschi, Lion Feuchtwanger e Arnold Zweig, ambedue ebrei. Feutchwanger,
scrittore molto apprezzato anche nel mondo anglosassone, che all’avvento di
Hitler era impegnato in un giro di conferenze in Inghilterra e negli Stati
Uniti, non tornò in patria. Nello stesso 1933 fu privato della cittadinanza
tedesca e i suoi libri vennero dati alle fiamme. Si stabilì in Costa Azzurra a
Sanary sur-Mer, luogo dove aveva trovato rifugio una folta colonia di scrittori
e intellettuali tedeschi. Nel 1936-37 si avvicinò al comunismo e scrisse su un
suo viaggio in Urss suscitando reazioni negative da parte dei suoi colleghi
scrittori, in particolare di Arnold Zweig. Nel 1939, allo scoppio della guerra,
fu internato come straniero di un paese nemico, nel 1940 fu arrestato dai
nazisti ma riuscì a fuggire e a riparare con la moglie negli Stati Uniti, dove
morì nel 1958. Quanto ad Arnold Zweig, riuscì a lasciare la Germania e
attraverso la Cecoslovacchia e la Svizzera giunse anche lui in Costa Azzurra, a
Sanary. Il suo obiettivo era però la Palestina, e riuscì a raggiungerla già alla
fine del 1933. Era sionista ma l’impatto con la Terra promessa non gli fu facile
se già nel gennaio del 1934 scriveva a Freud: «Non mi preoccupo più della “terra
dei padri”. Non ho più alcuna illusione sionistica. Senza entusiasmo, senza
abbellimenti e persino senza scherno, guardo alla necessità di vivere qui tra
gli ebrei». Nel 1948 tornò in Europa e visse in Germania est, a Berlino, onorato
e riconosciuto fino alla morte, nel 1968.
Questi scritti, ambedue brevi, in
particolare quello di Zweig, e mai tradotti prima in italiano, sono il frutto
immediato della catastrofe, il prodotto dell’inizio dell’esilio. È la fine di
un mondo, un mondo di cultura, di creatività, di razionalità. Chi scrive ha di
fronte un antisemitismo omicida, sospetta che anche il suo rifugio sarà solo
temporaneo, si sente interpellato come intellettuale sul compito che la
minoranza perseguitata di cui fa parte ha di fronte. Un compito che non riguarda
solo gli ebrei ma l’umanità intera. C’è in ambedue, nella loro spinta a cercare
una via che riconosca l’identità e il compito degli ebrei, il bisogno netto di
sottrarli al loro solo destino di vittime. E se Feuchtwanger scrive analizzando
lucidamente i nazionalismi e in particolare quello degli ebrei, il sionismo,
Zweig pone al centro della sua analisi quella simbiosi ebraico-tedesca che era
stata appena distrutta dalla barbarie nazista, l’apporto straordinario
dell’ebraismo alla cultura tedesca, e afferma con forza che il nazismo non
riuscirà nel suo intento: «Al di là della violenza e delle sue sanguinose
profezie resta la parola, anche quella dell’ebreo, e saranno costretti a
lasciarla stare».
Per Feuchtwanger il nazionalismo, nella sua forma regionale, legata al territorio, ha la sua origine nel nazionalismo ebraico degli zeloti, in contrapposizione al cosmopolitismo e alla tolleranza dei romani. Ma dopo la “dolorosa punizione” ricevuta con le guerre giudaiche, i sostenitori di questo tipo di nazionalismo sono rimasti in pochi fra gli ebrei. Il nazionalismo ebraico si distingue dagli altri nazionalismi perché si riconosce in un principio intellettuale, il Dio di Isaia o il Dio di Spinoza, non nella terra, nella razza, e nemmeno nella storia. Questo loro riconoscersi in un principio intellettuale è, per l’autore, all’origine dell’odio che gli antisemiti hanno per gli ebrei. Il principio intellettuale è di per sé immateriale ed esiste solo una forma in cui l’immateriale può esprimersi, la scrittura. Il cuore del sionismo, dice Feuchtwanger, è costituito dall’università di Gerusalemme.
Quell’università, ricordiamolo, fondata nel 1925 da uomini come Chaim Weizman, Gershom Scholem, Judah Magnes, Martin Buber, Sigmund Freud, Albert Einstein. Tutti intellettuali cosmopoliti, aperti al mondo e alla convivenza dei popoli, lontanissimi dall’idea di espansione territoriale o di dominio fondato sulla forza. Perché il nazionalismo ebraico, dice ancora Feuchtwanger, «non mira a consolidarsi ma a dissolversi».
Così, nel momento della scelta, questi due scrittori in esilio, senza rispondersi ma con una sostanziale complementarità di sensi e di ragione, si ponevano di fronte alla barbarie che avanzava e rispondono invitando gli ebrei a distinguersene nel modo più rigoroso possibile, dando loro il compito di farsi portatori di civiltà. Non la potevano vedere allora in tutto il suo orrore, quella barbarie, ma c’è in questi scritti un presagio che ci colpisce e ancora spaventa.
Per Feuchtwanger il nazionalismo, nella sua forma regionale, legata al territorio, ha la sua origine nel nazionalismo ebraico degli zeloti, in contrapposizione al cosmopolitismo e alla tolleranza dei romani. Ma dopo la “dolorosa punizione” ricevuta con le guerre giudaiche, i sostenitori di questo tipo di nazionalismo sono rimasti in pochi fra gli ebrei. Il nazionalismo ebraico si distingue dagli altri nazionalismi perché si riconosce in un principio intellettuale, il Dio di Isaia o il Dio di Spinoza, non nella terra, nella razza, e nemmeno nella storia. Questo loro riconoscersi in un principio intellettuale è, per l’autore, all’origine dell’odio che gli antisemiti hanno per gli ebrei. Il principio intellettuale è di per sé immateriale ed esiste solo una forma in cui l’immateriale può esprimersi, la scrittura. Il cuore del sionismo, dice Feuchtwanger, è costituito dall’università di Gerusalemme.
Quell’università, ricordiamolo, fondata nel 1925 da uomini come Chaim Weizman, Gershom Scholem, Judah Magnes, Martin Buber, Sigmund Freud, Albert Einstein. Tutti intellettuali cosmopoliti, aperti al mondo e alla convivenza dei popoli, lontanissimi dall’idea di espansione territoriale o di dominio fondato sulla forza. Perché il nazionalismo ebraico, dice ancora Feuchtwanger, «non mira a consolidarsi ma a dissolversi».
Così, nel momento della scelta, questi due scrittori in esilio, senza rispondersi ma con una sostanziale complementarità di sensi e di ragione, si ponevano di fronte alla barbarie che avanzava e rispondono invitando gli ebrei a distinguersene nel modo più rigoroso possibile, dando loro il compito di farsi portatori di civiltà. Non la potevano vedere allora in tutto il suo orrore, quella barbarie, ma c’è in questi scritti un presagio che ci colpisce e ancora spaventa.
di Anna Foa