lunedì 16 gennaio 2017

Il libro "Il compito degli ebrei" di Feuchtwanger e Zweig

Due voci ci giungono dal passato — nel piccolo libro Il compito degli ebrei di Lion Feuchtwanger e Arnold Zweig. (Firenze, Giuntina, 2016, pagine 77, euro 10) a cura di Enrico Paventi — a parlarci di nazionalismi, sionismo, antisemitismo, etica, ebrei: tutti temi a tutt’oggi quanto mai attuali, quindi. Sono ambedue del 1933, l’anno terribile in cui Hitler prende il potere. Sono le voci di due celebri scrittori tedeschi, Lion Feuchtwanger e Arnold Zweig, ambedue ebrei. Feutchwanger, scrittore molto apprezzato anche nel mondo anglosassone, che all’avvento di Hitler era impegnato in un giro di conferenze in Inghilterra e negli Stati Uniti, non tornò in patria. Nello stesso 1933 fu privato della cittadinanza tedesca e i suoi libri vennero dati alle fiamme. Si stabilì in Costa Azzurra a Sanary sur-Mer, luogo dove aveva trovato rifugio una folta colonia di scrittori e intellettuali tedeschi. Nel 1936-37 si avvicinò al comunismo e scrisse su un suo viaggio in Urss suscitando reazioni negative da parte dei suoi colleghi scrittori, in particolare di Arnold Zweig. Nel 1939, allo scoppio della guerra, fu internato come straniero di un paese nemico, nel 1940 fu arrestato dai nazisti ma riuscì a fuggire e a riparare con la moglie negli Stati Uniti, dove morì nel 1958. Quanto ad Arnold Zweig, riuscì a lasciare la Germania e attraverso la Cecoslovacchia e la Svizzera giunse anche lui in Costa Azzurra, a Sanary. Il suo obiettivo era però la Palestina, e riuscì a raggiungerla già alla fine del 1933. Era sionista ma l’impatto con la Terra promessa non gli fu facile se già nel gennaio del 1934 scriveva a Freud: «Non mi preoccupo più della “terra dei padri”. Non ho più alcuna illusione sionistica. Senza entusiasmo, senza abbellimenti e persino senza scherno, guardo alla necessità di vivere qui tra gli ebrei». Nel 1948 tornò in Europa e visse in Germania est, a Berlino, onorato e riconosciuto fino alla morte, nel 1968.
Questi scritti, ambedue brevi, in particolare quello di Zweig, e mai tradotti prima in italiano, sono il frutto immediato della catastrofe, il prodotto dell’inizio dell’esilio. È la fine di un mondo, un mondo di cultura, di creatività, di razionalità. Chi scrive ha di fronte un antisemitismo omicida, sospetta che anche il suo rifugio sarà solo temporaneo, si sente interpellato come intellettuale sul compito che la minoranza perseguitata di cui fa parte ha di fronte. Un compito che non riguarda solo gli ebrei ma l’umanità intera. C’è in ambedue, nella loro spinta a cercare una via che riconosca l’identità e il compito degli ebrei, il bisogno netto di sottrarli al loro solo destino di vittime. E se Feuchtwanger scrive analizzando lucidamente i nazionalismi e in particolare quello degli ebrei, il sionismo, Zweig pone al centro della sua analisi quella simbiosi ebraico-tedesca che era stata appena distrutta dalla barbarie nazista, l’apporto straordinario dell’ebraismo alla cultura tedesca, e afferma con forza che il nazismo non riuscirà nel suo intento: «Al di là della violenza e delle sue sanguinose profezie resta la parola, anche quella dell’ebreo, e saranno costretti a lasciarla stare».
Per Feuchtwanger il nazionalismo, nella sua forma regionale, legata al territorio, ha la sua origine nel nazionalismo ebraico degli zeloti, in contrapposizione al cosmopolitismo e alla tolleranza dei romani. Ma dopo la “dolorosa punizione” ricevuta con le guerre giudaiche, i sostenitori di questo tipo di nazionalismo sono rimasti in pochi fra gli ebrei. Il nazionalismo ebraico si distingue dagli altri nazionalismi perché si riconosce in un principio intellettuale, il Dio di Isaia o il Dio di Spinoza, non nella terra, nella razza, e nemmeno nella storia. Questo loro riconoscersi in un principio intellettuale è, per l’autore, all’origine dell’odio che gli antisemiti hanno per gli ebrei. Il principio intellettuale è di per sé immateriale ed esiste solo una forma in cui l’immateriale può esprimersi, la scrittura. Il cuore del sionismo, dice Feuchtwanger, è costituito dall’università di Gerusalemme.
Quell’università, ricordiamolo, fondata nel 1925 da uomini come Chaim Weizman, Gershom Scholem, Judah Magnes, Martin Buber, Sigmund Freud, Albert Einstein. Tutti intellettuali cosmopoliti, aperti al mondo e alla convivenza dei popoli, lontanissimi dall’idea di espansione territoriale o di dominio fondato sulla forza. Perché il nazionalismo ebraico, dice ancora Feuchtwanger, «non mira a consolidarsi ma a dissolversi».
Così, nel momento della scelta, questi due scrittori in esilio, senza rispondersi ma con una sostanziale complementarità di sensi e di ragione, si ponevano di fronte alla barbarie che avanzava e rispondono invitando gli ebrei a distinguersene nel modo più rigoroso possibile, dando loro il compito di farsi portatori di civiltà. Non la potevano vedere allora in tutto il suo orrore, quella barbarie, ma c’è in questi scritti un presagio che ci colpisce e ancora spaventa.
di Anna Foa

martedì 10 gennaio 2017

Deceduto Zygmun Bauman, lo studioso della "società liquida"

Sarebbe un errore imperdonabile racchiudere Zygmunt Bauman
soltanto all’interno della categoria della modernità liquida. Certamente, quell’aggettivo “liquido” sarà associato per sempre all’opera intellettuale del sociologo polacco, scomparso ieri novantunenne, ma altrettanto certamente, da solo, non riesce a esprimere l’itinerario biografico-culturale di un intellettuale che ha attraversato tutto il Novecento venendo a contatto diretto con gli orrori del XX secolo: l’invasione nazista della Polonia nel 1939 che lo obbligò a fuggire in Unione Sovietica; e l’antisemitismo del regime comunista di Gomulka che nel 1968 lo costrinse ad abbandonare il proprio Paese.
Esperienze di vita che saranno ben presenti anche nella sua riflessione intellettuale. «Gli orrori del XX secolo — scrive nel 1998 in un volume collettaneo intitolato Nazismo, fascismo, comunismo — derivano dai tentativi pratici di creare la felicità» e dal potere totale necessario a instaurare quell’ordine. «Se il piano nazista prevedeva che certuni venissero uccisi per ciò che erano e non potevano fare a meno di essere — afferma Bauman — il modello comunista di costruzione del nuovo ordine richiedeva che le persone venissero assassinate per ciò che facevano o pensavano».
Al fallimento epocale di tutte le elaborazioni soteriologiche novecentesche che si prefiggevano di costruire un nuovo ordine politico che avrebbe dovuto liberare l’uomo dal giogo delle proprie catene millenarie, si sostituisce, dopo il 1989, un mondo nuovo. Un mondo complesso e globale, al tempo stesso opulento e fragile, di cui Bauman è stato, senza dubbio, uno dei più acuti e vivaci interpreti.
La genesi e il successo dell’espressione “modernità liquida” si devono soprattutto alla sua collocazione storica: quando alla fine degli anni Novanta la globalizzazione (termine abusato quanto, per ora, insostituibile) sembra essere la caratteristica peculiare di un contesto internazionale segnato da un “nuovo disordine mondiale” e la categoria della “post-modernità biodegradabile” sembra non riuscire più a racchiudere quella lunga e continua trasformazione/transizione delle società occidentali. Una transizione verso quale destinazione? Risiede probabilmente in questa domanda — che evoca un mutamento sociale percepito come veloce, continuo e obnubilante — il successo della categoria della modernità liquida.
Una categoria che, sebbene sia entrata nel senso comune collettivo in modo epidermico e talvolta come sbrigativa chiave interpretativa del mondo contemporaneo, contiene una forza simbolico-evocativa assolutamente non comune. Evoca, ad esempio, l’incertezza e la “solitudine del cittadino globale”, il “destino della libertà” nella società attuale e una nuova tappa antropologica dell’uomo moderno: quella di essere diventato, essenzialmente, un homo consumens. Ma è anche vicino a quella critica al relativismo che ha caratterizzato il pensiero di Joseph Ratzinger.
Siamo entrati, afferma Bauman, in quel periodo storico dove le istituzioni classiche destinate a formare e ad attribuire un’identità e un’idoneità sociale degli individui, come le scuole, gli ospedali, gli eserciti e le famiglie, stanno vivendo una crisi strutturale.
Una crisi che produce il venir meno del principio di responsabilità pubblica. Ogni individuo, liberamente ma in solitudine, diventa soltanto «il sorvegliante e l’insegnante di se stesso». In questa nuova società globale le persone vivono una solitudine conformistica e una forma di disagio esistenziale caratterizzato dall’incertezza, dalla precarietà lavorativa e dall’insicurezza. «L’insicurezza odierna — scrive Bauman — assomiglia alla sensazione che potrebbero provare i passeggeri di un aereo nello scoprire che la cabina di pilotaggio è vuota».
La società dei consumi, evidenzia il sociologo polacco, forgia «le proprie fortune sulla premessa di soddisfare i desideri umani in modo impossibile e inimmaginabile per qualsiasi altra società precedente» e su una sindrome consumistica che si basa sulla velocità, sull’eccesso e sullo scarto. In definitiva, sostiene Bauman, la società individualizzata — liquido-moderna e consumistica — è di fatto un luogo di produzione di “esseri umani di scarto”. Di quegli uomini-zombie, cioè, come i rifugiati e gli esuli, che sono privati di ogni mezzo di sopravvivenza e che vengono scartati, ovvero messi ai margini della società.
Le “vite di scarto” di Bauman rimandano immediatamente alla cultura dello scarto denunciata in più occasioni da Francesco. In più occasioni, infatti, negli ultimi anni, il sociologo polacco ha manifestato apprezzamento per l’azione del Papa. Il dialogo e la solidarietà sono le due parole che più spesso ricorrono in questi interventi. Due parole che, forse, sintetizzano meglio di altre una strada comune da percorrere insieme, anche in futuro, tra credenti e non credenti.
di Andrea Possieri