Molto spesso si arriva a Dio dopo notti oscure, dopo averlo
negato per tutta una vita ed è come se si aprisse una porta sull’ignoto. «Dio!
Dio! Dio! Se lo vedessi! Se lo sentissi! Dov’è questo Dio?», dice l’Innominato
al cardinale Federigo. La ragione non lo vede, non riesce a farsene un’immagine.
Dio stesso non vuole che sia così, semplicemente perché ci sarebbe una distanza
tra sé e la sua creatura. Egli cerca il cuore, sceglie la relazione. «Non lo
sentite in cuore — dice il cardinale Borromeo — che v’opprime, che v’agita, che
non vi lascia stare, e nello stesso tempo vi attira». Si arriva a Dio con
immagini di Dio spesso falsate, di un Dio lontano, indifferente, quando non
giudice severo, che non lascia scampo. Se non che questa è ancora una maniera
umana. È come ci comporteremmo noi in certe situazioni: spietatamente, senza
tollerare o sopportare alcunché.
Così si arriva a Dio ed è veramente come
fare un salto nel vuoto. Com’è questo Dio? Il cardinale Borromeo piano piano
comincia a mostrarlo al suo interlocutore. A diradare le ombre della notte
precedente che ancora si affollavano nella mente dell’uomo, facendogli
presentire «una speranza di quiete, di consolazione, d’una consolazione che sarà
piena». L’Innominato arriva a Dio e non trova il giudice che, forse sperava, lo
attendeva per presentargli il conto delle sue azioni malvagie ma trova il
consolatore. Nella stanza buia dove la sua crisi lo aveva precipitato, in quel
nero egli non può vedere ma «sente» che qualcuno lo sta cercando e non per
giudicarlo. «Se c’è questo Dio, se è quello che dicono, cosa volete che faccia
di me?» ribatte l’Innominato.
Come tutti noi, egli non vede Dio eppure comincia a chiedersi cosa può farsene Dio di lui. Egli è ancora nell’oscurità della notte precedente, e fino alla fine non potrà esibire a nessuno alcuna certezza, eppure tenta di dare una risposta a Colui che è venuto a cercarlo, a colui che non avrà mai un volto, nel senso che non potrà mai offrirsi una prova razionale, ma che lo sta cercando non per giudicarlo, oppure per condannarlo, ma per cambiare di segno alla sua vita. È il cardinale Federigo a ispirargli questo nuovo pensiero. Il Dio che non conosce non voleva che i suoi giorni finissero con una pena che sarebbe stata anche giusta, ma voleva concedergli tutta la vita che ancora gli restava da vivere per stringerselo a sé, per abbracciarselo. Non basta un’immagine per questo Dio, sarebbe qualcosa di troppo distante, di troppo freddo. Egli vuole essere relazione, vuole conquistare il cuore e non per vantarsi, lui l’Onnipotente non ne avrebbe bisogno, ma per restituire smalto e brillantezza all’essere, per riconquistare l’uomo che egli ha voluto libero e che solo nella libertà può amare. L’importante — scrive un teologo — non è chiedersi se c’è Dio, ma come è Dio (Adolphe Gesché). Le prove dell’esistenza di Dio possono avere solo il valore della testimonianza di un intelletto che non si chiude nei suoi calcoli e si apre alla fede. Non si tratta quindi tanto di dimostrare Dio quanto di mostrare Dio.
È questo il compito del cardinale Federigo. Egli impegna il suo ospite in un percorso a ritroso che gli fa risalire la corrente vorticosa della sua incredulità e senza dubbio lo confonde svelandogli — «commosso ma sbalordito, l’Innominato stava in silenzio» — delle qualità che gli rivelano un essere misericordioso, premuroso, aperto al perdono, desideroso di salvare l’uomo; è questo il Dio che ha scorto nella notte oscura l’Innominato, il Dio che non può essere visto perché vuole abitare dentro di noi: «Cosa può fare Dio di voi? — domanda il cardinale — E perdonarvi? E farvi salvo? E compire in voi l’opera della redenzione? Non son cose magnifiche e degne di Lui?». Si arriva sulle soglie del tempio di Dio spesso con il pregiudizio, lo si immagina con gli stessi nostri sentimenti, attribuendogli le nostre limitatezze, le nostre cadute, sempre pronto a restituire la pariglia per i nostri disastri. Se esistesse soltanto, come può essere il Dio delle dimostrazioni dei filosofi, questo solo potrebbe pretendere da noi per le nostre colpe: un prezzo da pagare, una pena da scontare in una qualche prigione dell’anima. Ma il Dio che non esiste soltanto (e che a questo punto potrebbe anche non esistere tanto è lontano da noi) ha invece altre qualità, si scopre così che è pronto a perdonarci, che si abbassa fino a noi, che si fa «così vicino al peccatore da spiare il momento della caduta per stendere la mano» (André Louf).
Neppure così tuttavia si arresta il suo movimento. Non è neppure questo che completa la sua azione e il suo intervento. Con la sua grazia egli vuole cambiare di segno anche al resto della vita. Il passato è perdonato e redento ma a questo Dio di misericordia, interessa soprattutto il seguito, quello che viene dopo. Le parole del cardinale ne riassumono così il progetto: «Far volere e operare nel bene cose più grandi di quelle immaginate e fatte nel male». La conversione dell’Innominato non è un punto d’arrivo. La conversione non pacifica, non risolve, non chiude i conti con Dio. Essa piuttosto cambia di segno una vita. Il convertito Innominato non equivale a dire il pacificato Innominato. In tal caso la sua conversione non sarebbe stata completa. Aver chiuso i conti con il passato non significa poi ritirarsi in se stesso ma trasformare in germi e spore di bene questo incontro che gli/ci ha cambiato la vita. Convertirsi non vuol dire tornare indietro, ricoverarsi in una certezza che risulterebbe sgradita non solo a Dio ma agli uomini stessi. Nel termine conversione spesso è prevalente il significato — che pure gli appartiene — di pentimento, di un tornare indietro, di un tornare in sé dopo un lungo errore e lo smarrimento. Ma conversione non è solo un viaggio di ritorno, un re-vertere, alla religione e alla fede; non può esserci niente di nostalgico in essa. Conversione deve avere anche il significato di progressione («Volere e fare nel bene cose più grandi di quelle immaginate e fatte nel male», per usare le parole di Federigo), di un andare verso qualcosa che non si conosce, di una scoperta.
Come tutti noi, egli non vede Dio eppure comincia a chiedersi cosa può farsene Dio di lui. Egli è ancora nell’oscurità della notte precedente, e fino alla fine non potrà esibire a nessuno alcuna certezza, eppure tenta di dare una risposta a Colui che è venuto a cercarlo, a colui che non avrà mai un volto, nel senso che non potrà mai offrirsi una prova razionale, ma che lo sta cercando non per giudicarlo, oppure per condannarlo, ma per cambiare di segno alla sua vita. È il cardinale Federigo a ispirargli questo nuovo pensiero. Il Dio che non conosce non voleva che i suoi giorni finissero con una pena che sarebbe stata anche giusta, ma voleva concedergli tutta la vita che ancora gli restava da vivere per stringerselo a sé, per abbracciarselo. Non basta un’immagine per questo Dio, sarebbe qualcosa di troppo distante, di troppo freddo. Egli vuole essere relazione, vuole conquistare il cuore e non per vantarsi, lui l’Onnipotente non ne avrebbe bisogno, ma per restituire smalto e brillantezza all’essere, per riconquistare l’uomo che egli ha voluto libero e che solo nella libertà può amare. L’importante — scrive un teologo — non è chiedersi se c’è Dio, ma come è Dio (Adolphe Gesché). Le prove dell’esistenza di Dio possono avere solo il valore della testimonianza di un intelletto che non si chiude nei suoi calcoli e si apre alla fede. Non si tratta quindi tanto di dimostrare Dio quanto di mostrare Dio.
È questo il compito del cardinale Federigo. Egli impegna il suo ospite in un percorso a ritroso che gli fa risalire la corrente vorticosa della sua incredulità e senza dubbio lo confonde svelandogli — «commosso ma sbalordito, l’Innominato stava in silenzio» — delle qualità che gli rivelano un essere misericordioso, premuroso, aperto al perdono, desideroso di salvare l’uomo; è questo il Dio che ha scorto nella notte oscura l’Innominato, il Dio che non può essere visto perché vuole abitare dentro di noi: «Cosa può fare Dio di voi? — domanda il cardinale — E perdonarvi? E farvi salvo? E compire in voi l’opera della redenzione? Non son cose magnifiche e degne di Lui?». Si arriva sulle soglie del tempio di Dio spesso con il pregiudizio, lo si immagina con gli stessi nostri sentimenti, attribuendogli le nostre limitatezze, le nostre cadute, sempre pronto a restituire la pariglia per i nostri disastri. Se esistesse soltanto, come può essere il Dio delle dimostrazioni dei filosofi, questo solo potrebbe pretendere da noi per le nostre colpe: un prezzo da pagare, una pena da scontare in una qualche prigione dell’anima. Ma il Dio che non esiste soltanto (e che a questo punto potrebbe anche non esistere tanto è lontano da noi) ha invece altre qualità, si scopre così che è pronto a perdonarci, che si abbassa fino a noi, che si fa «così vicino al peccatore da spiare il momento della caduta per stendere la mano» (André Louf).
Neppure così tuttavia si arresta il suo movimento. Non è neppure questo che completa la sua azione e il suo intervento. Con la sua grazia egli vuole cambiare di segno anche al resto della vita. Il passato è perdonato e redento ma a questo Dio di misericordia, interessa soprattutto il seguito, quello che viene dopo. Le parole del cardinale ne riassumono così il progetto: «Far volere e operare nel bene cose più grandi di quelle immaginate e fatte nel male». La conversione dell’Innominato non è un punto d’arrivo. La conversione non pacifica, non risolve, non chiude i conti con Dio. Essa piuttosto cambia di segno una vita. Il convertito Innominato non equivale a dire il pacificato Innominato. In tal caso la sua conversione non sarebbe stata completa. Aver chiuso i conti con il passato non significa poi ritirarsi in se stesso ma trasformare in germi e spore di bene questo incontro che gli/ci ha cambiato la vita. Convertirsi non vuol dire tornare indietro, ricoverarsi in una certezza che risulterebbe sgradita non solo a Dio ma agli uomini stessi. Nel termine conversione spesso è prevalente il significato — che pure gli appartiene — di pentimento, di un tornare indietro, di un tornare in sé dopo un lungo errore e lo smarrimento. Ma conversione non è solo un viaggio di ritorno, un re-vertere, alla religione e alla fede; non può esserci niente di nostalgico in essa. Conversione deve avere anche il significato di progressione («Volere e fare nel bene cose più grandi di quelle immaginate e fatte nel male», per usare le parole di Federigo), di un andare verso qualcosa che non si conosce, di una scoperta.
di Lucio Coco