martedì 30 maggio 2017

Meister Heckhart e la spiritualità del distacco

«Quando predico, sono solito parlare del distacco e dire che l’uomo deve essere distaccato da se stesso e da tutte le cose. In secondo luogo, che deve essere reintrodotto nel Bene semplice, che è Dio. In terzo luogo, che si ricordi della grande nobiltà che Dio ha messo nell’anima, in modo che l’uomo giunga, così meravigliosamente, fino a Dio». 
Così, all’inizio del sermone Misit dominus manum suam, il maestro domenicano descrive la sua predicazione. In effetti, egli ripete sempre, anche se in modo sempre nuovo, con quella che Giuseppe Faggin, pioniere degli studi eckhartiani in Italia, definiva «sublime monotonia», il suo insegnamento: il distacco, appunto. Non v’è niente di nuovo in ciò, ed Eckhart lo sa benissimo. 

Questo è l’insegnamento che proviene da tutta la filosofia antica, e, insieme, il nucleo dell’evangelo, quale, nei secoli, la mistica ha conservato. La mistica, unica vera erede della filosofia antica, che era non solo e non tanto una professione intellettuale, ma un genere di vita, la vita vissuta come melète thanàtou, esercizio di morte, come Platone scrive nel Fedone.
Questa “morte” non è, infatti, altro che il distacco, l’esercizio continuo della liberazione dell’anima dai legami che la tengono prigioniera, non solo al corpo, ma soprattutto agli inganni, alle menzogne, che l’anima fa a se stessa, e che sono le più terribili, dal momento che in questo caso, come dice ancora Platone, «l’ingannatore è in noi stessi». Quasi a mo’ di riassunto, di conclusione della grande storia della filosofia antica, alla domanda su cosa sia necessario perché l’anima giunga a contatto con la “grande luce”, Plotino risponde infatti: «àfele pànta, — distàccati da tutto».
Con un’immagine che proprio da Plotino giunge al Rinascimento, il distacco è paragonato al lavoro dello scultore che toglie via il marmo che ricopre la statua, perché essa possa apparire, finalmente libera da ciò che era superficiale, inessenziale. La statua che ciascuno di noi deve scolpire, togliendo via l’inessenziale, è il nostro vero essere, ricoperto dalle incrostazioni costituite da tutto ciò che è accidentale, soggetto al tempo e allo spazio: carattere, abitudini, cultura, sentimenti, ecc.
Il distacco, l’evangelica rinuncia a se stessi, significa la fine di quella che nel suo volgare tedesco Eckhart chiama Eigenschaft, appropriazione, ovvero l’amore di se stessi, «radice di ogni male e peccato». Ma attenzione: il punto è che quel “noi stessi” da cui ci distacchiamo non è affatto il nostro vero essere, il nostro vero “io”. Proprio in quanto operazione di verità, discesa nel profondo dell’anima, svelando le radici egoistiche del nostro pensare, del nostro volere, del nostro sentire, il distacco mette a nudo l’anima nostra, mostrando che quell’“ego” cui siamo tanto affezionati è in effetti un mero agglomerato di volizioni, contenuti, pensieri, che rimandano l’uno all’altro senza fine, davvero senza capo né coda. Solo Dio può a buon diritto dire “io”, scrive perciò Eckhart, giacché un “ego” come sostanza è inattingibile.
E, sotto questo aspetto, il distacco è un’operazione di indagine, di ricerca su stessi, che sorpassa di gran lunga le moderne psico-analisi e che trova un eventuale parallelismo solo nelle filosofie dell’India, tanto induista quanto buddhista (non a caso il maestro domenicano è la principale figura cristiana di riferimento nell’attuale dialogo-confronto tra mistica d’oriente e mistica d’occidente).
«Per quanto tu percorra l’anima, mai non troverai i confini, tanto profondo è il suo Logos», recita un detto del primo filosofo del Logos, Eraclito — uno di quei «maestri pagani che conobbero la verità prima della fede cristiana» — e questo assioma potrebbe valere anche per Eckhart.
Dio non è un ente, afferma perciò Eckhart: lo si pensa come ente solo per il nostro peccato, l’amore di noi stessi, che ci costringe a pensare in modo oggettivante, con tutte le contraddizioni che ciò comporta nell’ambito del divino. Dio è Spirito, come Gesù dice alla samaritana, e non v’è, quindi, una conoscenza “teologica” di Dio come di un ente; v’è invece un vivere dello Spirito nello Spirito già qui e ora, nel presente, con tutta la beatitudine che alla vita dello Spirito è connessa, una beatitudine incondizionata, che, verrebbe da dire con Dante, «intender non la può chi non la prova».
Questa, della “nascita” del Logos, del Figlio, nell’anima, con la quale il cristiano è reso uguale al Figlio, figlio come il Figlio, è la caratteristica specificamente cristiana del maestro domenicano, che non può perciò — nonostante ogni somiglianza — essere accomunato a guru o maestri di altre religioni o tendenze, tanto meno alla contemporanea new-age.
Resta però vero che il suo insegnamento può essere facilmente equivocato: difendendolo dalle accuse che gli erano state mosse, e che avevano fatto censurare come eretiche alcune sue proposizioni, Giovanni Taulero, domenicano suo discepolo, ricorda infatti che il suo “amabile maestro” non è stato compreso da chi intendeva solo il linguaggio della temporalità, perché egli «parlava invece dal punto di vista dell’eternità».
di Marco Vannini

giovedì 2 marzo 2017

David Maria Turoldo: l'uomo, il profeta, il testimone



«Attingere alla figura dei testimoni per dare alla vita cristiana stimolo, slancio e coerenza. La fede è chiamata a superare il rischio delle cose futili per alimentare una vita capace di andare oltre alle preoccupazioni legate al quotidiano per costruire il Regno di Dio». Con queste parole il parroco di Fara San Marino, don Emiliano Straccini, ha,
attraverso l’omelia tenuta nella celebrazione dell’VIII domenica del Tempo Ordinario, introdotto le molte persone convenute nella Chiesa di San Remigio alla partecipazione all’incontro con la ricercatrice e professoressa Mariangela Maraviglia, autrice del poderoso volume “David Maria Turoldo. La vita, la testimonianza (1916-1992)”, edito dalla Morcelliana. Un incontro, quello con la professoressa toscana Maraviglia, assai atteso in quanto inserito all’interno dei “Dialoghi della Badia” ma soprattutto tappa profetica e significativa dell’Anno Giubilare di S. Martino di Tour, che la comunità farese sta celebrando in questo anno di grazia.

Un incontro profetico, dicevamo, in quanto, sottolineava nella Messa don Emiliano, «la grande povertà del tempo attuale sta nel voler disincarnare il culto dall’impegno, la fede dalle scelte operate nella vita personale e quotidiana. Ogni giorno il Signore è con noi nelle nostre fatiche. Adorare Dio vuol dire riconoscere che Lui è Signore della nostra esistenza, sostegno delle nostre ginocchia vacillanti, affinché si possa passare dalla “paura per il domani ai giorni del rischio”, come padre Turoldo amava dire».

Ad animare la celebrazione eucaristica e successivamente l’incontro nel quale è stato presentato lo studio di dottorato della ricercatrice Mariangela Maraviglia è stato il coro guidato dal maestro Natale Sabrina, il quale ha saputo attraverso la musica creare il clima necessario di ascolto e riflessione sia della Parola di Dio sia delle parole di Turoldo, le quali hanno riecheggiato nello splendido sfondo dell’affresco absidale della Chiesa di San Remigio.

Ad introdurre alla folla interessata dei presenti la figura di quella “coscienza inquieta della Chiesa” che ha attraversato da protagonista il Novecento, interessandosi di ogni ambito del sapere e delle arti umani, è stato il professor Riccardo Beltrami, docente di religione cattolica presso la Scuola Secondaria Inferiore di Casoli e di Sant’Eusanio. Il professore, ripercorrendo la vita di padre Turoldo, ha evidenziato come egli abbia avuto una personalità davvero poliedrica, capace di intrecciare, in maniera tutt’altro che superficiale, molteplici relazioni con vari esponenti dell’ambiente culturale, politico, religioso e sociale della sua epoca, da Bontadini ad Apollonio, da don Zeno a monsignor Loris Capovilla fino al regista Pier Paolo Pasolini. Un grande comunicatore, Turoldo, loquace ed onnipresente, con la sua instancabile voglia di esserci per porsi al servizio dell’essere umano senza risparmiarsi mai. Il voler penetrare il mistero della persona umana, soprattutto in difesa dei poveri e degli ultimi, ha portato Turoldo a cavalcare in pochi decenni l’onda della ricerca filosofica, della stampa, dell’arte, della poesia e persino della regia cinematografica. Il suo obiettivo, quello di ridare al mondo del dopoguerra quella “misura umana” che purtroppo si era perduta a causa di umane atrocità. In tutto ciò centrale per lui diveniva il ruolo della fede, sempre da proporre e mai da imporre, e della Chiesa, chiamata ad accogliere l’essere umano peccatore e a farsi portavoce di una autentica “religione dell’amicizia”, che nessuno esclude ma tutti coinvolge riportando ognuno all’essenziale.

Il professore ha ringraziato, alla fine del suo intervento, Mariangela Maraviglia per aver avuto la bontà di studiare la persona di David Maria Turoldo, senza risparmiarsi la fatica di ricercare le fonti storiche e di tessere le fila delle molteplici relazioni allacciate dal religioso, al fine di ridare dignità alla sua figura, ripulendola da ogni ingiusto pregiudizio. L’Autrice, infatti, ha mostrato ai presenti con appassionate parole come Turoldo sia stato un uomo di Dio di grande generosità e come abbia partecipato alle speranze del dopoguerra credendo in una società giusta ed avviando lui stesso processi di giustizia aprendo strade chiamate a divenire “storia”. Un’avventura, quella di Turoldo, che la dottoressa Maraviglia ha detto esser divenuta anche la sua avventura e che, pagina dopo pagina, spera che diventi anche l’avventura di ogni lettore del suo studio, in special modo in un’epoca da molti chiamata delle “passioni tristi”, come quella che stiamo vivendo ora, nella quale veramente Turoldo può divenire «una risorsa di persuasione, di coraggio, di perseguimento del bene».

giovedì 23 febbraio 2017

Carlo Maria Martini. Il silenzio della Parola



L’occasione che ci ha riunito tutti insieme attorno all’Arcivescovo Bruno Forte è stata la presentazione del libro del sacerdote veronese don Damiano Modena, “Carlo Maria Martini. Il silenzio della Parola”, edito dalla San Paolo e riguardante in particolar modo l’ultima stagione di vita del Cardinale. Don Damiano è stato, infatti, scelto da Martini per accompagnarlo nei suoi ultimi istanti di vita.
Dopo le parole del moderatore della tavola rotonda, don Emiliano Straccini, ha preso la parola padre Arcivescovo in quanto amico e confidente del cardinal Martini fin da quando era arcivescovo di Milano. Padre Bruno ha evidenziato come monsignor Martini fosse un uomo di grande umiltà e di attento ascolto. Di lui il porporato ha messo in risalto tre aspetti che lo hanno caratterizzato, ossia quello di biblista, di sacerdote e di pastore.

Martini era un biblista, professore di critica testuale. Un amore alla Parola che lo ha portato ad esprimersi sempre attraverso un denso immaginario biblico. Aveva consuetudine con il testo biblico, sapeva porre domande ad esso, scavava nel testo traendo nel pozzo della Parola cose antiche e nuove. Egli aveva ben chiaro di come la Parola di Dio fosse Dio stesso e non un testo morto e di come fosse essenziale porre ad essa domande vere e forti, che interpellano nel profondo la vita del cristiano.

Ma egli non era stato, secondo padre Bruno, solamente uno studioso, ma anche un modello di gesuita, capace di ascolto radicale della Parola. Cosa questa che aveva ereditato dal suo direttore spirituale il gesuita padre Georg Sporschill, un uomo di pochissime parole e pubblicazioni. Egli gli aveva insegnato ad accostare in maniera autentica la Parola di Dio, con scavo paziente e ritorno perseverante.

Biblista, gesuita ed anche pastore di una grande metropoli, Milano. Pastore di questa città, Milano, si ritira in una città, Gerusalemme, la città della straordinaria bellezza, sapienza e dolore. Tre elementi che Martini aveva ritrovato anche a Milano, nella quale seppe mettere in luce i valori e la bellezza dello spirito e della liturgia ambrosiana. Ma non solo. In quella che poteva essere una autentica palestra culturale il pastore Martini seppe porsi in dialogo con i non credenti inventandosi la “cattedra dei non credenti”. Ma Milano fu anche la città del dolore durante gli anni di piombo del terrorismo. Il cardinale Martini seppe abitare il dolore degli uomini con rispetto e con la sua pronta e premurosa presenza.

Densa e ricca di contenuti è stata anche la relazione del professore Enrico Galavotti, docente di Storia del Cristianesimo presso l’Università “D’Annunzio” di Chieti, ha sottolineato dal canto suo come il cardinale Martini sia divenuto un punto di riferimento per molti, anche al di fuori della sua diocesi. Egli è stato un custode del Concilio Vaticano II in un momento in cui il Concilio veniva contestato. Ha anche messo nelle mano dei cristiani la Bibbia, credendo nella sinodalità e prendendo sul serio la crisi della Chiesa dinanzi alla modernità. Lui capiva che era necessario annunciare in modo nuovo il Vangelo. Meriti di Martini questi, per i quali egli è stato anche vilipeso e attaccato dalla stampa cattolica, come “campione del progressismo cattolico”.

Martini è stato, secondo l’illustre docente, un vescovo italiano “anomalo”, perché sempre pronto a parlare e a sollevare questioni dinanzi ad un episcopato italiano un po’ afono e malato di “pappagallismo”  e compiacente nei confronti del Santo Padre.

Il libro di Modena permette al lettore di entrare con umiltà ed in punta di piedi all’interno della fase finale della sua vita. Esso però non è solo un “diario della fine” ma un testo di grande attualità, dato che affronta il tema della morte e del “fine vita”. Tutti ne facciamo esperienza. Ogni morte è una storia a sé, ci svela qualcosa di chi muore e di noi stessi. Martini chiede a don Damiano di accompagnarlo verso la morte. Un libro particolare ed istruttivo, visto che tratta lo spinoso tema del “fine vita”. Tratta della malattia che condusse Martini alla fine…un tremolio alla mano che non riuscì a controllare, spogliandolo e denudandolo del desiderio di trascorrere gli ultimi anni della sua vita a Gerusalemme. Gli tolse la voce, proprio a lui che era stato una voce importante all’interno della Chiesa italiana.

Nella malattia subentra anche il dubbio, il quale però non riuscì ad offuscare la fede del cardinale Martini, tanto che in una delle sue ultime celebrazioni della messa ebbe a dire: «Se anche dall’altra parte non vi fosse nulla sono felice di aver vissuto questa vita e di averla condivisa con  voi». Da anziano malato ha più tempo per guardare la televisione e visitare i cimiteri.  Non si intristiva al vedere delle tombe abbandonate, ma quelle sfarzose, che non rimandano alla loro verità di essere semplici luoghi di passaggio. Poco prima di morire dirà: «Io ho rinunciato a tutto e sto molto bene», frase che testimonia come egli non abbia mai rinunciato ad essere un maestro ed un testimone autentico di quella Sacra Parola che ha nella sua vita creduto, studiato e amato, tanto da poter divenire a pieno titolo il traghettatore dell’umanità nel Nuovo Millennio.

mercoledì 8 febbraio 2017

Tzvetan Todorov: la letteratura mi aiuta a vivere

«Ho sempre amato la letteratura perché mi aiuta a vivere» soleva dire Tzvetan Todorov, uno dei massimi intellettuali contemporanei, morto martedì 7 all’età di 77 anni. Allievo del celebre semiologo Roland Barthes, il pensatore bulgaro naturalizzato francese si distinse infatti sin da giovane, a Parigi, nell’ambito accademico e saggistico, ma ben presto la sua attività di studioso finì per investire altri ambiti, dalla storia alla filosofia, dalla critica strutturalista alla sociologia.
I suoi interessi storici, in particolare, si sono concentrati su temi cruciali, come i campi di concentramento stalinisti e nazisti: emblematica, al riguardo, è l’opera Di fronte all’estremo (1992), incisiva riflessione sugli orrori dei gulag e dei lager, in cui mette in guardia dall’illusione che simili atrocità — lette come il prodotto perverso della società di massa — non si ripeteranno più. Appassionato lettore di Montaigne, Rousseau, Constant, maturò nel tempo un crescente interesse sulla complessa questione del rapporto dell’uomo con l’altro. Una problematica analizzata nel libro La conquista dell’America. Il problema dell’altro (1984) dove prevale una concezione austera e pessimista: Todorov denuncia infatti l’effetto distruttivo della colonizzazione europea sulla cultura indigena, nel segno di un processo di assimilazione forzata che va necessariamente a ledere l’identità e la dignità dei nativi. Al tema del rapporto interpersonale, concepito come basilare per la costruzione di una civiltà armonica ed egualitaria, è dedicata anche l’opera Noi e gli altri. La riflessione francese sulla diversità umana (1989). È del 2009 uno dei suoi libri più noti, La paura dei barbari. Oltre lo scontro delle civiltà, in cui teorizza il rischio della «deriva violenta» dell’Europa. E subito dopo l’attentato di Nizza del 14 luglio 2016, in un’intervista ammonì: «Dobbiamo evitare di diventare anche noi dei “barbari”, di diventare torturatori come quelli che ci odiano». Affermazione sostenuta dalla consapevolezza che non c’è attentato, anche il più sanguinoso, che «possa mettere in pericolo la sopravvivenza della democrazia».

lunedì 16 gennaio 2017

Il libro "Il compito degli ebrei" di Feuchtwanger e Zweig

Due voci ci giungono dal passato — nel piccolo libro Il compito degli ebrei di Lion Feuchtwanger e Arnold Zweig. (Firenze, Giuntina, 2016, pagine 77, euro 10) a cura di Enrico Paventi — a parlarci di nazionalismi, sionismo, antisemitismo, etica, ebrei: tutti temi a tutt’oggi quanto mai attuali, quindi. Sono ambedue del 1933, l’anno terribile in cui Hitler prende il potere. Sono le voci di due celebri scrittori tedeschi, Lion Feuchtwanger e Arnold Zweig, ambedue ebrei. Feutchwanger, scrittore molto apprezzato anche nel mondo anglosassone, che all’avvento di Hitler era impegnato in un giro di conferenze in Inghilterra e negli Stati Uniti, non tornò in patria. Nello stesso 1933 fu privato della cittadinanza tedesca e i suoi libri vennero dati alle fiamme. Si stabilì in Costa Azzurra a Sanary sur-Mer, luogo dove aveva trovato rifugio una folta colonia di scrittori e intellettuali tedeschi. Nel 1936-37 si avvicinò al comunismo e scrisse su un suo viaggio in Urss suscitando reazioni negative da parte dei suoi colleghi scrittori, in particolare di Arnold Zweig. Nel 1939, allo scoppio della guerra, fu internato come straniero di un paese nemico, nel 1940 fu arrestato dai nazisti ma riuscì a fuggire e a riparare con la moglie negli Stati Uniti, dove morì nel 1958. Quanto ad Arnold Zweig, riuscì a lasciare la Germania e attraverso la Cecoslovacchia e la Svizzera giunse anche lui in Costa Azzurra, a Sanary. Il suo obiettivo era però la Palestina, e riuscì a raggiungerla già alla fine del 1933. Era sionista ma l’impatto con la Terra promessa non gli fu facile se già nel gennaio del 1934 scriveva a Freud: «Non mi preoccupo più della “terra dei padri”. Non ho più alcuna illusione sionistica. Senza entusiasmo, senza abbellimenti e persino senza scherno, guardo alla necessità di vivere qui tra gli ebrei». Nel 1948 tornò in Europa e visse in Germania est, a Berlino, onorato e riconosciuto fino alla morte, nel 1968.
Questi scritti, ambedue brevi, in particolare quello di Zweig, e mai tradotti prima in italiano, sono il frutto immediato della catastrofe, il prodotto dell’inizio dell’esilio. È la fine di un mondo, un mondo di cultura, di creatività, di razionalità. Chi scrive ha di fronte un antisemitismo omicida, sospetta che anche il suo rifugio sarà solo temporaneo, si sente interpellato come intellettuale sul compito che la minoranza perseguitata di cui fa parte ha di fronte. Un compito che non riguarda solo gli ebrei ma l’umanità intera. C’è in ambedue, nella loro spinta a cercare una via che riconosca l’identità e il compito degli ebrei, il bisogno netto di sottrarli al loro solo destino di vittime. E se Feuchtwanger scrive analizzando lucidamente i nazionalismi e in particolare quello degli ebrei, il sionismo, Zweig pone al centro della sua analisi quella simbiosi ebraico-tedesca che era stata appena distrutta dalla barbarie nazista, l’apporto straordinario dell’ebraismo alla cultura tedesca, e afferma con forza che il nazismo non riuscirà nel suo intento: «Al di là della violenza e delle sue sanguinose profezie resta la parola, anche quella dell’ebreo, e saranno costretti a lasciarla stare».
Per Feuchtwanger il nazionalismo, nella sua forma regionale, legata al territorio, ha la sua origine nel nazionalismo ebraico degli zeloti, in contrapposizione al cosmopolitismo e alla tolleranza dei romani. Ma dopo la “dolorosa punizione” ricevuta con le guerre giudaiche, i sostenitori di questo tipo di nazionalismo sono rimasti in pochi fra gli ebrei. Il nazionalismo ebraico si distingue dagli altri nazionalismi perché si riconosce in un principio intellettuale, il Dio di Isaia o il Dio di Spinoza, non nella terra, nella razza, e nemmeno nella storia. Questo loro riconoscersi in un principio intellettuale è, per l’autore, all’origine dell’odio che gli antisemiti hanno per gli ebrei. Il principio intellettuale è di per sé immateriale ed esiste solo una forma in cui l’immateriale può esprimersi, la scrittura. Il cuore del sionismo, dice Feuchtwanger, è costituito dall’università di Gerusalemme.
Quell’università, ricordiamolo, fondata nel 1925 da uomini come Chaim Weizman, Gershom Scholem, Judah Magnes, Martin Buber, Sigmund Freud, Albert Einstein. Tutti intellettuali cosmopoliti, aperti al mondo e alla convivenza dei popoli, lontanissimi dall’idea di espansione territoriale o di dominio fondato sulla forza. Perché il nazionalismo ebraico, dice ancora Feuchtwanger, «non mira a consolidarsi ma a dissolversi».
Così, nel momento della scelta, questi due scrittori in esilio, senza rispondersi ma con una sostanziale complementarità di sensi e di ragione, si ponevano di fronte alla barbarie che avanzava e rispondono invitando gli ebrei a distinguersene nel modo più rigoroso possibile, dando loro il compito di farsi portatori di civiltà. Non la potevano vedere allora in tutto il suo orrore, quella barbarie, ma c’è in questi scritti un presagio che ci colpisce e ancora spaventa.
di Anna Foa

martedì 10 gennaio 2017

Deceduto Zygmun Bauman, lo studioso della "società liquida"

Sarebbe un errore imperdonabile racchiudere Zygmunt Bauman
soltanto all’interno della categoria della modernità liquida. Certamente, quell’aggettivo “liquido” sarà associato per sempre all’opera intellettuale del sociologo polacco, scomparso ieri novantunenne, ma altrettanto certamente, da solo, non riesce a esprimere l’itinerario biografico-culturale di un intellettuale che ha attraversato tutto il Novecento venendo a contatto diretto con gli orrori del XX secolo: l’invasione nazista della Polonia nel 1939 che lo obbligò a fuggire in Unione Sovietica; e l’antisemitismo del regime comunista di Gomulka che nel 1968 lo costrinse ad abbandonare il proprio Paese.
Esperienze di vita che saranno ben presenti anche nella sua riflessione intellettuale. «Gli orrori del XX secolo — scrive nel 1998 in un volume collettaneo intitolato Nazismo, fascismo, comunismo — derivano dai tentativi pratici di creare la felicità» e dal potere totale necessario a instaurare quell’ordine. «Se il piano nazista prevedeva che certuni venissero uccisi per ciò che erano e non potevano fare a meno di essere — afferma Bauman — il modello comunista di costruzione del nuovo ordine richiedeva che le persone venissero assassinate per ciò che facevano o pensavano».
Al fallimento epocale di tutte le elaborazioni soteriologiche novecentesche che si prefiggevano di costruire un nuovo ordine politico che avrebbe dovuto liberare l’uomo dal giogo delle proprie catene millenarie, si sostituisce, dopo il 1989, un mondo nuovo. Un mondo complesso e globale, al tempo stesso opulento e fragile, di cui Bauman è stato, senza dubbio, uno dei più acuti e vivaci interpreti.
La genesi e il successo dell’espressione “modernità liquida” si devono soprattutto alla sua collocazione storica: quando alla fine degli anni Novanta la globalizzazione (termine abusato quanto, per ora, insostituibile) sembra essere la caratteristica peculiare di un contesto internazionale segnato da un “nuovo disordine mondiale” e la categoria della “post-modernità biodegradabile” sembra non riuscire più a racchiudere quella lunga e continua trasformazione/transizione delle società occidentali. Una transizione verso quale destinazione? Risiede probabilmente in questa domanda — che evoca un mutamento sociale percepito come veloce, continuo e obnubilante — il successo della categoria della modernità liquida.
Una categoria che, sebbene sia entrata nel senso comune collettivo in modo epidermico e talvolta come sbrigativa chiave interpretativa del mondo contemporaneo, contiene una forza simbolico-evocativa assolutamente non comune. Evoca, ad esempio, l’incertezza e la “solitudine del cittadino globale”, il “destino della libertà” nella società attuale e una nuova tappa antropologica dell’uomo moderno: quella di essere diventato, essenzialmente, un homo consumens. Ma è anche vicino a quella critica al relativismo che ha caratterizzato il pensiero di Joseph Ratzinger.
Siamo entrati, afferma Bauman, in quel periodo storico dove le istituzioni classiche destinate a formare e ad attribuire un’identità e un’idoneità sociale degli individui, come le scuole, gli ospedali, gli eserciti e le famiglie, stanno vivendo una crisi strutturale.
Una crisi che produce il venir meno del principio di responsabilità pubblica. Ogni individuo, liberamente ma in solitudine, diventa soltanto «il sorvegliante e l’insegnante di se stesso». In questa nuova società globale le persone vivono una solitudine conformistica e una forma di disagio esistenziale caratterizzato dall’incertezza, dalla precarietà lavorativa e dall’insicurezza. «L’insicurezza odierna — scrive Bauman — assomiglia alla sensazione che potrebbero provare i passeggeri di un aereo nello scoprire che la cabina di pilotaggio è vuota».
La società dei consumi, evidenzia il sociologo polacco, forgia «le proprie fortune sulla premessa di soddisfare i desideri umani in modo impossibile e inimmaginabile per qualsiasi altra società precedente» e su una sindrome consumistica che si basa sulla velocità, sull’eccesso e sullo scarto. In definitiva, sostiene Bauman, la società individualizzata — liquido-moderna e consumistica — è di fatto un luogo di produzione di “esseri umani di scarto”. Di quegli uomini-zombie, cioè, come i rifugiati e gli esuli, che sono privati di ogni mezzo di sopravvivenza e che vengono scartati, ovvero messi ai margini della società.
Le “vite di scarto” di Bauman rimandano immediatamente alla cultura dello scarto denunciata in più occasioni da Francesco. In più occasioni, infatti, negli ultimi anni, il sociologo polacco ha manifestato apprezzamento per l’azione del Papa. Il dialogo e la solidarietà sono le due parole che più spesso ricorrono in questi interventi. Due parole che, forse, sintetizzano meglio di altre una strada comune da percorrere insieme, anche in futuro, tra credenti e non credenti.
di Andrea Possieri