giovedì 31 dicembre 2015

Porta sull'ignoto

Molto spesso si arriva a Dio dopo notti oscure, dopo averlo negato per tutta una vita ed è come se si aprisse una porta sull’ignoto. «Dio! Dio! Dio! Se lo vedessi! Se lo sentissi! Dov’è questo Dio?», dice l’Innominato al cardinale Federigo. La ragione non lo vede, non riesce a farsene un’immagine. Dio stesso non vuole che sia così, semplicemente perché ci sarebbe una distanza tra sé e la sua creatura. Egli cerca il cuore, sceglie la relazione. «Non lo sentite in cuore — dice il cardinale Borromeo — che v’opprime, che v’agita, che non vi lascia stare, e nello stesso tempo vi attira». Si arriva a Dio con immagini di Dio spesso falsate, di un Dio lontano, indifferente, quando non giudice severo, che non lascia scampo. Se non che questa è ancora una maniera umana. È come ci comporteremmo noi in certe situazioni: spietatamente, senza tollerare o sopportare alcunché. 
L’Innominato e il cardinale  in un’illustrazione del XIX secolo
Così si arriva a Dio ed è veramente come fare un salto nel vuoto. Com’è questo Dio? Il cardinale Borromeo piano piano comincia a mostrarlo al suo interlocutore. A diradare le ombre della notte precedente che ancora si affollavano nella mente dell’uomo, facendogli presentire «una speranza di quiete, di consolazione, d’una consolazione che sarà piena». L’Innominato arriva a Dio e non trova il giudice che, forse sperava, lo attendeva per presentargli il conto delle sue azioni malvagie ma trova il consolatore. Nella stanza buia dove la sua crisi lo aveva precipitato, in quel nero egli non può vedere ma «sente» che qualcuno lo sta cercando e non per giudicarlo. «Se c’è questo Dio, se è quello che dicono, cosa volete che faccia di me?» ribatte l’Innominato.
Come tutti noi, egli non vede Dio eppure comincia a chiedersi cosa può farsene Dio di lui. Egli è ancora nell’oscurità della notte precedente, e fino alla fine non potrà esibire a nessuno alcuna certezza, eppure tenta di dare una risposta a Colui che è venuto a cercarlo, a colui che non avrà mai un volto, nel senso che non potrà mai offrirsi una prova razionale, ma che lo sta cercando non per giudicarlo, oppure per condannarlo, ma per cambiare di segno alla sua vita. È il cardinale Federigo a ispirargli questo nuovo pensiero. Il Dio che non conosce non voleva che i suoi giorni finissero con una pena che sarebbe stata anche giusta, ma voleva concedergli tutta la vita che ancora gli restava da vivere per stringerselo a sé, per abbracciarselo. Non basta un’immagine per questo Dio, sarebbe qualcosa di troppo distante, di troppo freddo. Egli vuole essere relazione, vuole conquistare il cuore e non per vantarsi, lui l’Onnipotente non ne avrebbe bisogno, ma per restituire smalto e brillantezza all’essere, per riconquistare l’uomo che egli ha voluto libero e che solo nella libertà può amare. L’importante — scrive un teologo — non è chiedersi se c’è Dio, ma come è Dio (Adolphe Gesché). Le prove dell’esistenza di Dio possono avere solo il valore della testimonianza di un intelletto che non si chiude nei suoi calcoli e si apre alla fede. Non si tratta quindi tanto di dimostrare Dio quanto di mostrare Dio.
È questo il compito del cardinale Federigo. Egli impegna il suo ospite in un percorso a ritroso che gli fa risalire la corrente vorticosa della sua incredulità e senza dubbio lo confonde svelandogli — «commosso ma sbalordito, l’Innominato stava in silenzio» — delle qualità che gli rivelano un essere misericordioso, premuroso, aperto al perdono, desideroso di salvare l’uomo; è questo il Dio che ha scorto nella notte oscura l’Innominato, il Dio che non può essere visto perché vuole abitare dentro di noi: «Cosa può fare Dio di voi? — domanda il cardinale — E perdonarvi? E farvi salvo? E compire in voi l’opera della redenzione? Non son cose magnifiche e degne di Lui?». Si arriva sulle soglie del tempio di Dio spesso con il pregiudizio, lo si immagina con gli stessi nostri sentimenti, attribuendogli le nostre limitatezze, le nostre cadute, sempre pronto a restituire la pariglia per i nostri disastri. Se esistesse soltanto, come può essere il Dio delle dimostrazioni dei filosofi, questo solo potrebbe pretendere da noi per le nostre colpe: un prezzo da pagare, una pena da scontare in una qualche prigione dell’anima. Ma il Dio che non esiste soltanto (e che a questo punto potrebbe anche non esistere tanto è lontano da noi) ha invece altre qualità, si scopre così che è pronto a perdonarci, che si abbassa fino a noi, che si fa «così vicino al peccatore da spiare il momento della caduta per stendere la mano» (André Louf).
Neppure così tuttavia si arresta il suo movimento. Non è neppure questo che completa la sua azione e il suo intervento. Con la sua grazia egli vuole cambiare di segno anche al resto della vita. Il passato è perdonato e redento ma a questo Dio di misericordia, interessa soprattutto il seguito, quello che viene dopo. Le parole del cardinale ne riassumono così il progetto: «Far volere e operare nel bene cose più grandi di quelle immaginate e fatte nel male». La conversione dell’Innominato non è un punto d’arrivo. La conversione non pacifica, non risolve, non chiude i conti con Dio. Essa piuttosto cambia di segno una vita. Il convertito Innominato non equivale a dire il pacificato Innominato. In tal caso la sua conversione non sarebbe stata completa. Aver chiuso i conti con il passato non significa poi ritirarsi in se stesso ma trasformare in germi e spore di bene questo incontro che gli/ci ha cambiato la vita. Convertirsi non vuol dire tornare indietro, ricoverarsi in una certezza che risulterebbe sgradita non solo a Dio ma agli uomini stessi. Nel termine conversione spesso è prevalente il significato — che pure gli appartiene — di pentimento, di un tornare indietro, di un tornare in sé dopo un lungo errore e lo smarrimento. Ma conversione non è solo un viaggio di ritorno, un re-vertere, alla religione e alla fede; non può esserci niente di nostalgico in essa. Conversione deve avere anche il significato di progressione («Volere e fare nel bene cose più grandi di quelle immaginate e fatte nel male», per usare le parole di Federigo), di un andare verso qualcosa che non si conosce, di una scoperta.

di Lucio Coco

giovedì 17 dicembre 2015

Monumentale biografia di Martin Buber - La vita è incontro

Martin Buber «con Freud e Einstein è uno degli ebrei più conosciuti del xx secolo…come loro è uomo di mondo di vari mondi» afferma Dominique Bourel nella sua monumentale e dettagliatissima biografia Martin Buber, Sentinelle de l’humanité, Albin Michel (Paris, Albin Michel, 2015, pagine 830, euro 26), costata vent’anni di ricerche minuziose.

L’autore, direttore del Centro di ricerche francese di Gerusalemme dal 1996 al 2004, professore di storia ebraica e tedesca alla Sorbonne e direttore di ricerca del Centre national de la recherche scientifique (Cnrs), si è documentato in migliaia di archivi disseminati in Europa (Londra, Vienna, Stoccolma e Berlino) e a Gerusalemme.
Cinque parti — Gli anni della formazione; Dall’hassidismo al suicidio dell’Europa; L’era del dialogo; Dalla distruzione dell’ebraismo tedesco alla nascita dello Stato ebraico; L’ebreo universale — formano la corposa biografia di questo poliedrico testimone dei grandi stravolgimenti del secolo passato. Martin Buber infatti è conosciuto come filosofo, storico delle religioni, sociologo, traduttore della Torah, fondatore dell’università di Gerusalemme.Nato a Vienna nel 1878, a Lemberg, l’odierna Lviv in Ucraina, fu allevato dai nonni dopo il divorzio dei genitori. Sotto la particolare tutela spirituale e culturale del nonno Salomone, grande studioso ed erudito, il giovane Martin Mordekai scopre la Haskala e l’Hassidismo, il movimento di rinnovamento ebraico nato nel xviii secolo. La sua peregrinatio studiorum inizia a Vienna e passa per Berlino, Lipsia e Zurigo, dove conosce Paula Winkler — la scrittrice nota con lo pseudonimo di Georg Munk —con cui convivrà per nove anni e da cui avrà due figli, Raffaele e Eva, e che, alla fine, sposerà.
Personaggio del giudaismo berlinese, a Martin Buber si deve la diffusione della conoscenza dell’ebraico, l’apertura di musei e di biblioteche. Durante la prima guerra mondiale, fu membro della Commissione nazionale ebraica per migliorare le condizioni degli ebrei dell’Europa dell’est. Dal 1916 risiedette a Heppenheim, oggi la sua casa è divenuta un centro di dialogo ebraico-cristiano. Dal 1921 collaborò con la Freies Jüdisches Lehrhaus di Franz Rosenzweig e fino al 1929 con quest’ultimo procedette a quella particolare traduzione della Bibbia, detta Verdeutschung che, a suo modo, è un incontro fra la tradizione ebraica e la cultura germanica, e sarà conclusa dal solo Buber per la morte di Rosenzweig nel 1961.Nel 1923 la sua pubblicazione, Io e Tu, suscitò scalpore fra i teologhi delle diverse religioni: per il filosofo la persona umana si apre alla vita con la relazione, entra nella «alterità dell’altro» con un impegno totale.
Proprio come nell’incontro che Martin Buber ha teorizzato, egli «incontra» i grandi personaggi del suo secolo: Freud, Einstein, Rosenzweig, Scholem, Herzl, Kafka, Simmel, Zweig, Romain Rolland, Claudel, Gandhi, Benjamin, Adorno, Ben Gourion.Dal 1924 Martin Buber insegnò all’università di Francoforte e nel 1925 con Arthur Ruppin fondò la Brith Schalom per uno Stato binazionale. Nel 1933 con i nazisti al potere si dimise e gli venne proibita l’attività di conferenziere, collaborò invece con l’Organismo centrale d’educazione adulta ebraica. Sionista ma non sionista politico, appoggiò sempre la vita comune in Palestina ma attuò la sua alyah (pellegrinaggio) solo nel 1938, si stabilì a Gerusalemme e all’università ricoprì la cattedra di sociologia.
Dal 1942 fu membro del partito Yihoud che promuoveva un’migliore intesa fra israeliani e arabi e voleva uno Stato binazionale e democratico. Nel 1951 fu insignito del prestigioso «Premio Goethe» ad Amburgo e la sua attività intellettuale rimase vitale fino alla sua morte, avvenuta nel 1965.Alcuni aspetti di Martin Buber, pensatore e filosofo dell’alterità ma anche incline alla pietà degli hassidim e intellettuale che attraversò lingue, popoli, discipline e istituzioni, sfuggono e interrogano: quale fu il suo ebraismo nella pratica concreta e nell’educazione impartita ai figli e ai nipoti? Quale la sua conoscenza dell’islam?
Persona pacifista, umanista — «ogni via autentica è incontro», viene giustamente definita sentinella dell’umanità, perché la persona, così com’è pensata da lui, è dialogica e non può completarsi se non comunica, profondamente, con il creatore, la creazione e tutta l’umanità. Il vincolo religioso si stringe fra l’amore dell’umanità che sospinge a quello di Dio che, a sua volta, rimanda a quello dell’umanità: ogni incontro autentico quindi è pervaso dalla presenza di Dio. Ogni esistenza diventa dialogica se basata sulla reciprocità e sulla responsabilità.La Parola di Dio è reale e la Bibbia è testimone sicuro dell’instaurazione di questo dialogo in cui Dio si rivolge alla persona e l’ascolta, mentre la persona supplica per chi deve sfuggire alla collera divina oppure intercede perché Egli, Padre d’Israele, manifesti il suo agire provvido.
La biografia di Dominique Bourel, storico della cultura che si fonda sui fatti, è rigorosissima sul piano storico e politico, ricca di fecondità e densità, con il ductus della scrittura e dell’analisi non psicologico ma tipico della storia intellettuale di una persona di alta levatura e di erudizione eccezionale come Martin Buber ma insieme storia di un’intera epoca che il pensatore ha attraversato.
di Cristiana Dobner

mercoledì 16 dicembre 2015

Agostino di Ippona interprete della Genesi

L'11 dicembre sono iniziati a Fornole, vicino ad Amelia (TR), gli incontri del tanto atteso TE' FILOSOFICO inaugurati con la lectio magistralis dello studioso di filosofia politica Saverio Monitillo intorno alla figura di Agostino di Ippona, a cui hanno preso parte oltre una ventina di persone.
Riportiamo qui di seguito il testo della sua relazione:



Vita

Nace a Tagaste (Numidia/Algeria) il 13 novembre 354. Muore il 28 agosto 430 a Ippona

 Tappe della vita:

1.      Lettura dell’Ortensio di Cicerone (373) segue l’incontro con la filosofia

2.      373-382 incontro con i Manichei. Interpretazione della Sacra Scrittura gnostica: razionalismo che esclude la fede. Il cristianesimo spirituale è solo per pochi eletti

3.      383-384 crisi scettica iniziata a Roma

4.      384 a Milano incontra la filosofia neoplatonica. Lascia la donna con la quale aveva vissuto e il figlio Adeodato

5.      386. La conversione. Conosce il vescovo di Milano Ambrogio. Nel 387 nella notte di Pasqua riceve il battesimo

6.      387-388 rientra a Tagaste dove con alcuni amici si ritira nella casa del padre per meditare sulla Sacra Scrittura. Nel 391 viene ordinato presbytero. 396 Vescovo. Tra il 397 e il 429 scrisse molte sue opere.

Lo stesso Agostino nelle Retractationes recensisce 93 opere divise in 252 libri. Ne ricordiamo solo alcuni: Contra Academicos, Soliloquia, De Libero Arbitrio, De vera religione, De cathechizandis rudibus, Confessiones (397-400), De Trinitate, De Civitate Dei, De doctrina Christiana.



Vediamo solo alcuni aspetti del suo pensiero.



Il pensiero di s. Agostino

La filosofia di sant’Agostino nasce dalla sua stessa esperienza, cioè, da una presa di coscienza dell’esserci, del vivere e dell’esistere e del pensare. Per Agostino filosofare significa elevarsi secondo un preciso itinerario mentis, dall’esteriorità all’interiorità, a Dio, dalla scientia alla Sapientia. E’ un percorso platonico porfiriano: dai corpi all’anima e dall’anima all’Essere. “Nel ricercare infatti la ragione per cui apprezzavo la bellezza dei corpi sia celesti che terresti… scoprii al di sopra della mia mente mutabile l’eternità immutabile e vera della verità. E così ascesi per gradi dai corpi fino all’anima, che sente attraverso il corpo, dall’anima alla sua potenza interiore, cui i sensi del corpo comunicano la realtà esterna, che è la facoltà massima delle bestie. Di qui poi ascesi ulteriormente all’attività razionale, al cui giudizio sono sottoposte le percezioni dei sensi corporei; ma poiché anche quest’ultima mia attività si riconobbe mutevole, si sollevò fino all’intelletto. Allora distolse il pensiero dalle sue consuetudini, sottraendosi alle contraddizioni della fantasia turbinosa,  per scoprire sia il lume da cui era pervasa quando proclamava senza alcuna esitazione che è preferibile ciò che non muta a ciò che muta, sia la fonte da cui derivava il concetto stesso d’immutabilità, concetto che in qualche modo doveva possedere, altrimenti non avrebbe  potuto anteporre con certezza ciò che non muta. Così giunse, in un impeto della visione trepida, all’Essere stesso”.  (Conf 7,17,23). Questo percorso permette all’uomo di raggiungere la felicità.

Dopo aver girato le Varie scuole filosofiche Agostino trova la vera felicità nel cristianesimo. Perché? Lo dice lo stesso Agostino quando afferma che la vita felice viene raggiunta con l’esperienza e conservata dalla conoscenza; la conoscenza è la scienza dell’interiorità che per essere vera e per giungere alla contemplazione e alla felicità deve essere unita all’amore. Dunque la vita felice dell’uomo la si ottiene tramite la contemplazione e l’amore per Essere eterno che è Dio, Verità e Sapienza.  La mens dell’uomo è in grado di conoscere e possedere l’eternità della verità; la conoscenza di questa verità, unita all’amore, sono la causa della vita beata. “Che cos’è la vita beata se non possedere, mediante la conoscenza, qualcosa di eterno? Eterno infatti è solo ciò di cui si è eternamente convinti che non può essere tolto a chi l’ama; l’eterno ppi è lo stesso di possere e conoscere. L’eternità è la più eccellente di tutte le cose, e perciò non possiamo averla se non per mezzo della facoltà che ci rende superiori, cioè la mente. Ora ciò che si possiede con la mente si ha conoscendolo, e nessun bene è conosciuto perfettamente se non si ama perfettamente. Ma come la mente da sola non può conoscere, così da sola non può amare. L’amore infatti è una tensione e noi vediamo che anche nelle altre parti dell’animo c’è un appetito il quale, se è in accordo con la mente e la ragione, permetterà di contemplare con la mente, in questa pace e tranquillità, ciò che è eterno.  L’animo deve quindi amare anche con le altre sue parti questo bene così grande che bisogna conoscere con la mente. E poiché l’oggetto amato configura necessariamente di sé il soggetto che ama, avviene che l’eterno, aato così renda eterna l’anima. Di conseguenza la vita beata è in definitiva la vita eterna. Ma qual è il bene eterno, che rende eterna l’anima, se non Dio?”  (De diversis questionibus otaginta tribus 35,2).

L’orizzonte sapienziale cristiano è quello trinitario. Le rationes aeterne presenti nell’interiorità della mens della creatio sono il legame tra il pensiero e la verità, tra il sapere e la sapienza. Le idee divine, in quanto razionalità dell’eterno, costituiscono con la parola interiore che dalle origini illumina l’uomo; queste idee sono nell’interiorità dell’uomo  e si possono con la ragione. L’illuminazione interiore permette la comprensione della verità. Il Logos è il Principium che fonde la totalità dell’essere e che permette al pensiero di farsi intellegibile a se stesso e di ascendere interiormente e ritornare al proprio fondamento. Dio è intelligibilis lux è la Sapientia illuminatio, è la partecipazione del pensiero del verbo eterno Il Verbo è lux mentis. La Sapientia è Dio.



Visibilità della  Sapienza di Dio. La sacra Scrittura

In Sant’Agostino abbiamo due punti principali del suo pensiero: Dio e l’uomo. L’uomo come ontologia triadica delle persone; Dio come espressione metafisica della Trinità. Il creato riflette l’unità-distinzione che è in Dio. Dio fa si che la creatura partecipi al suo Essere intessendo così una via dialogica cioè una relazione tra il creatore e la creatura. Agostino usa espressioni proprie della metafisica greca per definire Dio: Uno. Immobile ma la novità sta proprio nella realtà unità-distinzione di Dio stesso. Dio è in se autocomunicazione e amore e all’interno di questa dinamica si instaura l’uomo con la conoscenza e l’amore. Ora è proprio la categoria aristotelica di relazione che permette ad Agostino di spiegare il Dio del Nuovo Testamento che è Padre, Figlio e Spirito Santo (unica sostanza) ma si differenziano nelle relazioni personali. Nel De vera religione Agostino stesso ci dice che la nozione di Trinità può essere compresa con la mente filosofica mentre la nozione di Incarnazione richiede la fede. Con la sua filosofia dell’essere Agostino spiega anche i due nomi di Dio che noi troviamo nell’Antico testamento:

1)      “Io sono colui che è”. Nome della Sua eternità. Nome come Essere- Pensiero, nell’eternità del Logos-Verbo

2)      “Io sono il Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe” Nome della sua misericordia. Nome come Essere-Parola, Logos della creazione e della rivelazione.

Gli anni di Dio sono l’eternità e a questa si contrappone la temporalità dell’uomo. All’immutabilità divina si contrappone la mutabilità umana. Eternità di Dio è la permanenza dell’esserci di Dio, sempre.



Essenza e sostanza di Dio

L’essenza è ciò che permette a Dio di essere Dio al di fuori del tempo è l’eternità di Dio; mentre la substantia è ciò che permette all’essere Dio di eliminare ogni altra differenza. Comprendiamo meglio cosa è scritto in Es 3,14 “Dio  disse a Mosè: “Io sono colui che sono”. E aggiunse: “Così dirai agli israeliti Io sono mi ha mandato a voi” Agostino commenta dicendo “Dio è tutto ciò che ha eccetto le relazioni per cui ciascuna persona si riferisce all’altra” (De civitate Dei). Dio ha tutte le perfezioni. Il Padre ha il Figlio ma non è il Figlio e viceversa. Così per lo Spirito Santo. “Crediamo, accettiamo e fedelmente insegniamo che il Padre ha generato il Verbo, cioè la Sapienza per mezzo della quale sono state create tutte le cose, Figlio unigenito, uno da uno, eterno da eterno, sommamente buono da egualmente buono e che lo Spirito Santo è insieme lo Spirito del Padre e del Figlio, anche egli consustanziale e coeterno ad entrambi” (De civitate Dei 11,24).

L’Essere è detto nella rivelazione; Cristo è la sapienza di Dio, il Figlio è l’immagine sapiente di Dio, cioè, il Verbo coeterno del Padre. L’Essere è detto nella Creazione soprattutto nel suo De Genesis. Dio è (Essere); è l’Intelletto Pensiero (Sapienza-Idee) e Parola, nell’unità dell’Amore Trinitario. La creazione avviene nella Parola che esprime le Idee della Sapienza Divina.



Creazione. Tempo. Caino e Abele

Il concetto di creazione è difeso da agostino contro i manichei e i neoplatonici, perché la creazione di Dio avviene “non dalla sua sostanza ma dal nulla”. Creazione dal nulla significa che non pre-esiste  qualcosa perché Dio non precede il tempo con il tempo ma con l’eternità; la creazione è avvenuta quindi con il tempo. Nell’atto eterno della creazione viene costituito il tempo. Il tempo è per Agostino la distensio animi. Da un lato Agostino dissolve la nozione del presente costituito di durata e di estensione; il passato non è più, il futuro non è ancora; il presente “è la mia attenzione per la quale il futuro si traduce in passato”.

Tutti conosciamo il brano di Caino e Abele nella lettura cristiana Caino diventa il prototipo del Malvagio, il secondo rappresenta la figura del giusto. Il sacrificio di Abele sarà portato a compimento da Cristo. Il centro è l’agape, l’Amore. Caino e Abele hanno avuto entrambi un dono da Dio ma la violenza di Caino contro Abele destituisce questa donazione. Ai sacrifici pagani, S. Agostino, oppone il vero sacrificio, quello di Cristo, precisando che questo ha la sua origine non nell’immolazione, ma nella fedeltà al Padre. Il sacrificio di Cristo è verissimo perché è andato sino in fondo. Dunque anche l’Eucarestia è capibile alla luce di questo concetto di sacrificio: ci ricorda la vita donata dal Cristo che produce la vita donata al seguito del Cristo. Agostino dice: “In Caino non vi fu carità e se non ci fosse stata più carità in Abele Dio non avrebbe gradito la sua offerta. Avendo entrambi offerto un sacrificio, l’uno i frutti del suolo, l’altro i primogeniti del gregge, perché secondo voi, fratelli miei, Dio ha rifiutato i frutti del suolo e gradito i primogeniti del gregge? Dio non ha guardato le mani, ma ha visto il cuore: vedendo che l’offerta dell’altro era accompagnata dall’invidia, non gradì il suo sacrificio”: (Comm alla prima lettera di san Giovanni). Senza la carità il sacrificio non ha senso.



Per un Giubileo della Misericordia

DISCORSO 358/A

TRATTATO DI SANT' AGOSTINO SUL VALORE DELLA MISERICORDIA..



La vera misericordia è immedesimazione nelle pene altrui.

1. Desidero darvi, o buoni fedeli, qualche avvertimento sul valore della misericordia. Per quanto abbia sperimentato che voi siete disponibili a ogni opera buona, tuttavia è necessario che su questo argomento tenga con voi un discorso di particolare impegno. Vediamo dunque: che cosa è la misericordia? Non è altro se non un caricarsi il cuore di po' di miseria [altrui]. La parola " misericordia " deriva il suo nome dal dolore per il " misero ". Tutt'e due le parole ci sono in quel termine: miseria e cuore. Quando il tuo cuore è toccato, colpito dalla miseria altrui, ecco, allora quella è misericordia. Fate attenzione pertanto, fratelli miei, come tutte le buone opere che facciamo nella vita riguardano veramente la misericordia. Ad esempio: tu dài del pane a chi ha fame; daglielo con la partecipazione del cuore, non con noncuranza, per non trattare come un cane l'uomo a te simile. Quando dunque compi un atto di misericordia comportati [così]: se porgi un pane, cerca di essere partecipe della pena di chi ha fame; se dài da bere, partecipa alla pena di chi ha sete; se dài un vestito, condividi la pena di chi non ha vestiti; se dài ospitalità condividi la pena di chi è pellegrino; se visiti un infermo quella di chi ha una malattia; se vai a un funerale ti dispiaccia del morto e se metti pace fra i litiganti pensa all'affanno di chi ha una contesa. Se amiamo Dio e il prossimo non possiamo fare queste cose senza una pena nel cuore. Queste sono le opere buone che provano il nostro essere cristiani. il santo Apostolo dice infatti: Mentre ne abbiamo l'occasione, operiamo il bene verso tutti 1. Parimenti lo stesso Apostolo che cosa dice nello stesso passo sempre sul ben operare? Questo vi dico: chi semina scarsamente, scarsamente raccoglierà 2. Chi ha parlato di seminagione, ha promesso il raccolto.

In cielo non vi saranno opere di misericordia. Impegno della seminagione. Esempio del contadino.

2. Quando semini, poiché fai un'opera di misericordia, se sei partecipe del dolore di colui che ne è l'oggetto, semini tra le lacrime 3. Ma un giorno tuttavia, raggiunto il nostro fine, non ci sarà più bisogno di questa seminagione di misericordia; perché in quel regno non ci saranno degli infelici che come qui hanno sofferto angustie a causa di Dio. Nel luogo della ricompensa infatti, a chi porgi il pane se nessuno ha fame? Quale nudità potrai rivestire se tutti sono vestiti d'immortalità? A chi dài ospitalità se tutti vivono nella loro patria? Quali i malati da visitare se c'è eterna salute? Quali morti da seppellire lì dove si vive eternamente? Quali litigiosi puoi mettere d'accordo lì dove ha raggiunto pienezza quella pace che qui viene promessa? Non ci saranno dunque lì opere di misericordia. Perché? Perché non semini più: porti i manipoli di grano. Perciò non stanchiamoci di operare. Seminiamo tra le lacrime, cioè con fatica e dolore. Pertanto non venite meno nelle opere di misericordia perché riceverete la ricompensa della vostra seminagione 4. D'inverno si semina con fatica. Ma l'asprezza dell'inverno non ha mai distolto il contadino dal gettare nella terra il frutto selezionato con tanta fatica. Egli procede e getta in terra il seme che aveva raccolto dalla terra, che dalla terra era stato selezionato. Non si arresta, lo getta in terra, tremando di freddo, ma sollecito. Perché sollecito nonostante il freddo? Scuotono la pigrizia fede e speranza. Non vede certo la messe ma ha fede che spunterà. Non raccoglie già ora i frutti ma spera di raccoglierli; e si rianima con questa fede, con questa speranza, così che sopportando il grande disagio del freddo, butta il seme nella terra ed è sicuro di poter raccogliere con l'aiuto di Dio frutti abbondanti secondo il suo lavoro e la sua fatica.





Conclusione

In conclusione possiamo dire che Agostino se non è riuscito a mettere tutto il mare di Dio nella buca della nostra mente almeno ne ha fatto entrare poche gocce. Queste poche gocce ci permettono di fare un passo in avanti nella comprensione umana di tale mistero. Dio è e rimane sempre un mistero.  Ogni riflessione su Dio è tale nel momento in cui diviene non tanto ricerca della sua esistenza ma quanto comunione con la sua certa presenza.

martedì 8 dicembre 2015

Compassione e fedeltà

Guercino, «Il ritorno del figliol prodigo» (1619, particolare)
Il primo termine ebraico (rahamim) esprime l’attaccamento istintivo di un essere a un altro. Secondo i semiti questo sentimento ha sede nel seno materno (réhem: 1 Libro dei Re 3, 26), nelle viscere (rahamim) — noi diremmo: il cuore — di un padre (Geremia, 31, 20; Salmo, 103, 13), o di un fratello (Genesi, 43, 30): è la tenerezza; esso si traduce subito in atti: in compassione, in occasione di una situazione tragica (Salmo, 106, 45), o in perdono delle offese (Daniele, 9, 9).
Il secondo termine (hesed), tradotto ordinariamente in greco con una parola che significa anch’essa misericordia (dem), designa per sé la pietà, relazione che unisce due esseri e implica fedeltà. Per tale fatto la misericordia riceve una base solida: non è più soltanto l’eco d’un istinto di bontà, che può ingannarsi circa il suo oggetto e la sua natura, ma una bontà cosciente, voluta; è anche risposta a un dovere interiore, fedeltà a se stesso.
Le traduzioni in lingue moderne delle parole ebraiche e greche oscillano dalla misericordia all’amore, passando attraverso la tenerezza, la pietà, la compassione, la clemenza, la bontà e persino la grazia (ebr. hen) che tuttavia ha un’accezione molto più ampia. Nonostante questa varietà, non è impossibile definire la concezione biblica della misericordia. Dall’inizio alla fine Dio manifesta la sua tenerezza in occasione della miseria umana; l’uomo, a sua volta, deve mostrarsi misericordioso verso il prossimo, a imitazione del suo creatore.
(Nel vecchio testamento) quando l’uomo acquista coscienza di essere sventurato o peccatore, allora gli si rivela, più o meno netto, il volto della misericordia infinita.
Incessanti risuonano le grida del salmista: «Pietà di me, o Signore!» (Salmi, 4, 2; 6, 3; 9, 14; 25, 16), oppure le proclamazioni di ringraziamento: «Rendete grazie a Jahve, perché eterno è il suo amore (hesed)» (Salmo, 107, 1), quella misericordia che egli non cessa di dimostrare nei confronti di coloro che gridano a lui nella loro miseria, i naviganti in pericolo, ad esempio (Salmo, 107, 23), nei confronti dei «figli di Adamo», chiunque essi siano. Egli infatti si presenta come il difensore del povero, della vedova e dell’orfano: sono i suoi privilegiati.
Questa convinzione incrollabile degli uomini pii sembra trarre origine dall’esperienza che fece Israele in occasione dell’esodo. Quantunque il termine misericordia non si trovi nel racconto del fatto, la liberazione dall’Egitto è descritta come un atto della misericordia divina. Le prime tradizioni sulla vocazione di Mosè lo suggeriscono nettamente: «Ho visto la miseria del mio popolo. Ho ascoltato le sue grida di aiuto... conosco le sue angosce. Sono deciso a liberarlo» (Esodo, 3, 7 s. 16 s). Più tardi, il redattore sacerdotale spiegherà la decisione di Dio con la sua fedeltà all’alleanza (6, 5). Nella sua misericordia Dio non può sopportare la miseria del suo eletto; è come se, contraendo alleanza con esso, egli ne avesse fatto un essere «della sua stirpe» (dr. Atti, 17, 28 s): un istinto di tenerezza lo unisce a lui per sempre.
Ma che avverrà, se questo eletto si separa da lui col peccato? La misericordia prevarrà ancora, purché egli non si indurisca; infatti, sconvolto dal castigo che il peccato esige, Dio vuol salvare il peccatore. Così, in occasione del peccato, l’uomo entra ancora più profondamente nel mistero della tenerezza divina.
Sul Sinai Mosè sente che Dio rivela il fondo del suo essere. Il popolo eletto ha appena apostatato. Ma Dio, dopo aver affermato che è libero di usare gratuitamente misericordia a chi gli pare (Esodo, 33, 19), proclama che, senza ledere la sua santità, la tenerezza divina può trionfare del peccato: «Jahve è un Dio di tenerezza (rahum) e di grazia (hanun), tardo all’ira e ricco di misericordia (hesed) e fedeltà (’emet), che conserva la sua misericordia (hesed) alla millesima generazione, sopporta mancanza, trasgressione e peccato, ma, senza lasciarli impuniti, castiga la colpa... fino alla terza ed alla quarta generazione» (Esodo, 34, 6 s). Dio lascia che le conseguenze si facciano sentire sul peccatore sino alla quarta generazione, e ciò dimostra la serietà del peccato. Ma la sua misericordia, conservata intatta fino alla millesima generazione, lo fa pazientare all’infinito. Tale è il ritmo che segnerà le relazioni di Dio con il suo popolo fino alla venuta del Figlio suo.
Di fatto, lungo tutta la storia sacra, Dio rivela che, se deve castigare il popolo che ha peccato, è preso da commiserazione non appena esso grida a lui dal fondo della sua miseria. Così il libro dei Giudici è scandito dal ritmo dell’ira che si accende contro l’infedele e della misericordia che gli manda un salvatore (Libro dei Giudici, 2, 18). L’esperienza profetica darà a questa storia accenti stranamente umani. Osea rivela che se Dio ha deciso di non usare più misericordia ad Israele (Osea, 1, 6) e di castigarlo, il suo «cuore si rivolta in (lui), (le sue) viscere fremono» ed egli decide di non dare corso all’ardore della sua ira (11, 8 s); perciò un giorno la sposa infedele sarà nuovamente chiamata: «ha ricevuto misericordia» (ruhamab: 2, 3). Anche quando annunziano le peggiori catastrofi, i profeti conoscono la tenerezza del cuore di Dio: «Efraim è dunque per me un figlio così caro, un fanciullo così prediletto che, dopo ognuna delle mie minacce, io debba sempre pensare a lui, le mie viscere si commuovano per lui, per lui trabocchi la mia tenerezza?» (Geremia, 31, 20; cfr. Isaia, 49, 14 s; 54, 7).
Se Dio è così sconvolto in se stesso dinanzi alla miseria cui il peccato porta, è perché desidera che il peccatore ritorni a lui, si converta. Se conduce il suo popolo nuovamente nel deserto, è perché vuole «parlargli al cuore» (Osea 2, 16); dopo l’esilio si comprenderà che Jahve, mediante il ritorno nella terra, vuole simboleggiare il ritorno a lui, alla vita (Geremia, 12, 15; 33, 26; Ezechiele, 33, 11; 39, 25; Isaia, 14, 1; 49, 13). Sì, Dio «non conserva sdegno eterno» (Geremia, 3, 12 s), ma vuole che il peccatore riconosca la sua malizia; «il malvagio si converta a Jahve che avrà pietà di lui, al nostro Dio, perché egli perdona con abbondanza» (Isaia, 55, 7).
Israele conserva quindi in fondo al cuore la convinzione di una misericordia che non ha nulla di umano: «Egli ha colpito, fascerà le nostre piaghe» (Osea, 6, 1). «Qual è il Dio come te, che tolga la colpa, perdoni il delitto, non persista nella sua ira per sempre, ma si compiaccia nel fare grazia? Possa di nuovo aver pietà di noi, mettere sotto i piedi le nostre colpe, gettare in fondo al mare tutti i nostri peccati» (Matteo, 7, 18s). Risuona così continuamente il grido del salmista, che il Miserere riassume: «Pietà di me, secondo la tua bontà! Secondo la tua grande tenerezza cancella il mio peccato» (Salmo, 51, 3).
Se la misericordia divina non conosce altri limiti che l’indurimento del peccatore (Isaia, 9, 16; Geremia, 16, 5. 13), tuttavia per lungo tempo la si ritenne come riservata al solo popolo eletto. Ma alla fine Dio, con la sua sorprendente larghezza, spazzò via questo resto di grettezza umana (cfr. già Osea 11, 9). Dopo l’esilio la lezione fu compresa. La storia di Giona è la satira dei cuori gretti che non accettano la tenerezza immensa di Dio (Giona, 4, 2). L’Ecclesiastico dice chiaramente: «la pietà dell’uomo è per il suo prossimo, ma la pietà del Signore è per ogni carne» (Ecclesiastico, 18, 13).

di Jules Cambier e Xavier Léon-Dufour
tratto dalla voce Misericordia del Dizionario di teologia biblica
edito dalla Marietti nel 2006

mercoledì 2 dicembre 2015

In ricordo dello studioso delle religioni René Girard

Per millenni le civiltà arcaiche sono sopravvissute affidandosi all’efficacia riparatrice del meurtre fondateur o della vittima divinizzata che risolve le crisi del «tutti contro tutti» quando la rivalità mimetica contagia i componenti di una comunità. Così, secondo la visione dello studioso delle religioni, il francese René Girard, per il quale la tomba della vittima è il primo segno e la prima tomba è la tomba di una vittima, l’altare su cui è stata sacrificata. Scomparso circa un mese fa, René Girard ha lasciato libri celebri come Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo, Il capro espiatorio e La violenza e il sacro, pubblicati in Italia da Adelphi. Senonché con la venuta di Cristo il meccanismo fondatore per cui il sacro è «la violenza che ferma la violenza» non è stato soltanto rivelato, ma è anche stato reso inoperante.

A questo punto si sono aperte due strade: proseguire su quella della violenza fino all’estremo della distruzione oppure scegliere la via della riconciliazione imitando Cristo.
Questo in sintesi il pensiero di René Girard per apprezzare il quale possono essere utili alcuni commenti riguardanti in special modo la violenza e le conseguenze del desiderio (da non confondersi col bisogno). Desiderio che in quanto mimetico è dipendente, relazionale, suggerito, triangolare, contagioso ed endemico, non autonomo, né originale, ma copiato e influenzato. Prospettiva questa che trova applicazione fin nel commercio, là dove per promuovere un prodotto e suscitare il desiderio di acquisto si afferma «che piace alla gente che piace».
Un commento riguarda il tema della difesa della vittima, l’uso politico e demagogico che se ne fa, abuso definito da Girard souci victimaire, la compassione obbligatoria in vigore nella nostra società che autorizza nuove forme di crudeltà. Girard si riferisce a quella particolare arte in grado di creare nuove vittime fingendo di andare in loro soccorso. In questo senso la difesa della vittima come arte è il nostro assoluto globalizzato, planetario e secolarizzato. Quando è messo in moto dalle rivalità mimetiche prende forme aberranti e si trasforma in una sorta di ingiunzione totalitaria e di inquisizione permanente. Detta anche «coscienza vittimaria». Contraddittoria, nel senso che «produce» più solidarietà, più soccorso, più compassione, più diritti umani, più giustizia verso le vittime quante più sono le vittime che vengono fatte. Nella corsa alla pietà per le vittime l’Onu scavalca a sinistra il cristianesimo secolarizzandolo, appropriandosi dei suoi i meriti e dando via libera all’aborto e all’eutanasia.
Preoccupazione vittimaria è stare dalla parte delle vittime spinti dal desiderio, talora contorto, di interpretare Cristo, talmente sollecitati dal risentimento verso l’ingiustizia, talmente accecati da questo bisogno, da non capire che, esagerando, si finisce per creare nuove vittime: posizione questa che dà origine all’emergenza umanitaria e degenera nelle varie forme di falsificazioni e totalitarismi del bene.
Privata del sistema protettivo del meurtre fondateur, la violenza che produceva il sacro non fonda più niente. Perduta la sua fecondità, la violenza non è in grado di produrre giustizia se non quella ottenuta con il rispetto del rito e l’applicazione formale delle regole rituali.
Il fusibile che salvava dalla violenza fuori controllo funzionava perché era segreto, nascosto nel religioso arcaico del mito.
La sopravvenuta mancanza delle stampelle sacrificali e il depotenziamento del vaccino sacrificale liberano la violenza riducendone la capacità di produrre niente altro che se stessa.
Rivelando l’innocenza della vittima e togliendo all’uomo le stampelle sacrificali, la Rivelazione priva l’uomo del sacrificale, del mito e del “religioso”. A questo punto Nietzsche — che aveva capito il potere destrutturante della Rivelazione — sceglie nonostante tutto Dioniso col quale almeno formalmente si ritorna al sacro e al capro espiatorio. Senonché in una società nel frattempo trasformata dalla rivelazione di Cristo e pertanto privata delle forme di contenimento della violenza un tempo strutturante (Satana), la violenza diventa violenza libera, apocalittica e in decomposizione. In altre parole quanto detto sopra stabilisce che la perdita del sacrificio, unico sistema in grado di contenere la violenza riporta la violenza tra noi.
«Se la Passione porta la guerra — scrive Girard nel suo ultimo libro pubblicato in vita, Portando Clausewitz all’estremo — è perché dice la verità sugli uomini, che si trovano privati di ogni meccanismo sacrificale. Il religioso normale, quello che crea gli dei, è lo stesso che ha bisogno dei capri espiatori. Dal momento in cui la Passione insegna agli uomini che le vittime sono innocenti essi combattono, cosa che precisamente le vittime espiatorie impedivano loro di fare. Una volta scomparso il sacrificio rimane solo la rivalità mimetica ed essa tende all’estremo».
Nell’affermare che «l’apocalisse non è altro che l’incarnazione del cristianesimo nella storia» perché la religione cristiana è la vera demistificazione del religioso che denuncia l’errore su cui si fonda la religione arcaica, ne deriva che non rimane altro che l’imitazione di Cristo. Imitare Cristo che imita il Padre per evitare l’imitazione del prossimo e la rivalità.

di Oddone Camerana

martedì 24 novembre 2015

L'infinitamente complesso

Nel 1980, Douglas Hofstadter vinceva il Premio Pulitzer per il best seller Gödel, Escher, Bach: un’eterna ghirlanda brillante. Il figlio del premio Nobel per la fisica Robert Hofstadter (1915-1990) aveva avuto l’intuizione geniale di proporre un approccio squisitamente creativo sulle origini del pensiero umano. 
Maurits Cornelis Escher, «Giorno e notte» (1938)
Attraverso dei paragoni incrociati fra discipline tanto diverse come la matematica,l’architettura e la musica, Hofstadter era riuscito a delucidare alcuni meccanismi basilari della formazione della conoscenza e, persino, della coscienza. Nel libro Micro e macro. Viaggio avventuroso tra atomi e galassie che Il Mulino ha deciso di pubblicare quest’anno, il matematico Werner Kinnebrock non ha sicuramente avuto la presunzione di uguagliare il classico dell’accademico newyorchese, ma ha comunque offerto un’opera scientifica, gradevolmente accessibile che, pagina dopo pagina, conduce il lettore a porsi domande fondamentali sulla percezione che l’uomo ha dell’universo e sul posto che l’uomo stesso occupa nell’universo.
Il matematico tedesco non è sconosciuto al pubblico italiano. Nel 2013, in Dove va il tempo che passa? Fisica, filosofia e vita quotidiana, Kinnebrock partiva dalla domanda rivolta da Albert Einstein (1879-1955) a Kurt Gödel (1906-1978) per analizzare le ultime scoperte della cosmologia moderna attraverso la lente interpretativa di grandi pensatori, come sant’Agostino, e di eminenti artisti come Luís de Góngora.
In dieci accattivanti capitoli il divulgatore tedesco riusciva a dimostrare come teologi, filosofi, artisti e scienziati avevano tutti contribuito a rispondere al dilemma che tormentava proprio il doctor gratiae che nelle Confessioni (XI, 14) scriveva: Quid est ergo tempus? Si nemo ex me quaerat, scio; si quaerenti explicare velim, nescio («Cos’è quindi il tempo? Lo so, quando nessuno me lo chiede; ma, non saprei spiegarlo se qualcuno me lo chiedesse». Il divulgatore tedesco riesce quindi ad illustrare una paradossale verità che il grande esperto di geometria frattale — quella che, contrariamente a quella euclidea, meglio rappresenta le forme che si riscontrano in natura — Benoît Mandelbrot (1924-2010) aveva avvertito, ossia che il creato è una «sorprendente combinazione di estrema semplicità e di impressionante complessità».
di Carlo Maria Polvani

venerdì 20 novembre 2015

La cura

«Tutti possiamo collaborare come strumenti di Dio per la cura della creazione, ognuno con la propria
cultura ed esperienza, le proprie iniziative e capacità», ha spiegato Papa Francesco nella sua enciclica Laudato si’ sulla cura della casa comune, rimandando anche al mistero dell’universo: «Per la tradizione giudeo-cristiana, dire “creazione” è più che dire natura, perché ha a che vedere con un progetto dell’amore di Dio, dove ogni creatura ha un valore e un significato». In particolare il Papa ha evidenziato la «responsabilità dell’essere umano, che è parte del mondo con il compito di coltivare le proprie capacità per proteggerlo e svilupparne le potenzialità». Lo scrive Herbert Schambeck aggiungendo che nell’uomo si coniugano la responsabilità individuale e quella sociale. Poiché avere una responsabilità esige che si diano delle risposte, in questa responsabilità verso il creato l’uomo ha l’obbligo di agire e di fare.

domenica 15 novembre 2015

Parigi: la fine dei miti?



Quello che è avvenuto a Parigi in questi giorni non è altro che il frutto dell’ateismo e di una società che pur di dirsi laica, o meglio laicista, si è voluta rendere priva di ogni riferimento e legame con l’Assoluto, con Dio. Ormai in più campi stiamo assistendo alle derive di un primato dell’essere umano vissuto come dominio e non come servizio o custodia, un primato imposto con la forza e l’esercizio della potenza su di un ambiente inerme ed indifeso come gli esseri viventi che lo popolano. Ma la storia ci insegna che il vivere come se Dio non ci fosse, significa, in realtà, porre al suo posto un idolo fatto da mani di uomo. È stato così per il popolo di Israele con il vitello d’oro, durante i grandi totalitarismi del Novecento ed anche ora. Si vuole aver fede in un “paradiso terrestre” che non ha Dio come salvatore, bensì l’essere umano con la sua tecnica e la sua scienza.

Così l’Europa, per porre il primato della sola ragione, ha ritenuto “ragionevole” rinchiudere la religione dentro la sfera mitologica, oppio dei popoli o proiezione dei bisogni inconsci ed irraggiungibili degli esseri umani, soprattutto dei più deboli e poco intelligenti. Ma, facendo ciò, la nostra vecchia Europa si è fatta essa stessa promotrice di ben altri  miti, ai cui dogmi ha manifestato e testimoniato fedeltà incondizionata. Primo fra tutti, oltre al mito gnostico e scientista, che ha riempito le menti ma svuotato i cuori, vi è il mito economico. Si è cercato in questi anni di conquistare il mondo attraverso la logica della finanza, producendo così uno sfrenato arricchimento e benessere di pochi a scapito di molti. In nome del guadagno e del profitto si sono abbattute le frontiere, subito rialzate dinanzi alla sfida dell’accoglienza dell’altro, di quell’impoverito accusato delle peggiori nefandezze ed avente l’unica colpa di essere nato nel posto sbagliato. L’Europa ha così perseguito e proclamato il mito del guadagno e del successo, liberandosi come una mongolfiera, da quelle zavorre che le impedivano di spiccare il volo, tra esse la più pesante è quella che ritenevano essere l’opprimente giogo della fede in un Dio che costringeva l’uomo a vivere in uno stato buio di non maggiore età.

Ma il mito della ricchezza, ci insegna la storia, ha una sorella gemella. Essa è il mito della potenza, il quale però sta ora tradendo i suoi genitori, invertendo i ruoli di vittime e carnefici. Si è sempre voluti essere i padroni della vita altrui, anzi i detentori di quella sapienza che dice ciò che può essere ritenuta vita e ciò che non è tale. Lo si è fatto con la tratta degli schiavi, lo si fa in medicina con convegni, ricerche e studi, non finalizzati alla guarigione delle persone, bensì alla veloce eliminazione di quelle ingombranti da sopportare, zavorre che non permettono di far volare in alto la mongolfiera della nostra falsa libertà. Ma la potenza è un personaggio strano. Essa non possiede occhi, è cieca, e, addirittura, priva di un volto. Essa, per affermare se stessa, corre sulle strade della vendetta, della violenza, della sofferenza e della morte e si vende al miglior offerente.

Parigi così grida il bisogno e la necessità di porre fino a queste mitologie, e sembra dire, con voce sprezzante, all’essere umano del XI secolo di imparare nuovamente a rileggere la grammatica con cui è scritto il senso ed il significato della sua esistenza. È il grande racconto della creazione che oggi si fa vivo in mezzo a noi, quel mito tanto disprezzato dalla civiltà contemporanea, nel quale la dignità della persona come essere creato consisteva nel mettersi a servizio di quella “ecologia integrale”, tanto cara a papa Francesco, apportatrice di rispetto, uguaglianza, solidarietà. In essa e attraverso essa non pochi ma tutti possono trovare risposta ai loro bisogni.

Nella vicenda terribile di Parigi, infatti, vi è un altro grido che rimane inascoltato e soffocato dalle logiche del mondo, disprezzanti del sacro come del profano. È il grido di papa Francesco innalzato durante l’incontro con i membri dell’Assemblea Generale dell’Organizzazione delle Nazioni Unite lo scorso 25 settembre. Basta con la guerra, con il proliferare delle armi e, in special modo, di quelle nucleari!!! Un grido non soffocato dagli applausi ma dal silenzio gelido di un’Assemblea che non condivideva quanto si andava affermando.
Ed allora quanto accaduto a Parigi non è altro che il figlio di questo silenzio, una “Terza Guerra Mondiale” generata dal perseguimento di un mito contrassegnato dalla volontà di ricchezza e di potenza e che non tiene affatto conto di un Dio che richiama l’essere umano alla responsabilità di riconciliarsi con la sua dimensione di creatura, custode del mondo e di coloro che vi abitano.