“[…] solo chi crede ubbidisce, e solo chi ubbidisce crede […].
In vista della
giustificazione in effetti
fede e ubbidienza vanno
separate,
ma questa separazione
non deve mai eliminare la loro unità,
per cui la fede esiste
solo nell’ubbidienza,
mai senza,
ed è fede solo nell’azione di ubbidienza”
Introduzione
Perché ho scelto di analizzare proprio Bonhoeffer in questo seminario di
studio? Molti altri erano gli autori cattolici verso i quali potevo convergere
le mie attenzioni di approfondimento teologico, ma ritengo, e cercherò anche di
mostrarlo, che in questo teologo la teologia e la vita personale abbiano fatto
un tutt’uno. Presentando recentemente il pensiero di questo teologo alla
Pontificia Accademia Alfonsiana, il professor Ciola si chiedeva il perché
dell’enorme interesse che i cristiani e non solo rivolgevano alle opere di
Bonhoeffer, e si rispondeva annotando come “l’approccio non direttamente
accademico, il linguaggio immediato, le intuizioni folgoranti, la coerenza di
un’esperienza umana e cristiana portata avanti fino al sacrificio della vita ha
fatto sì che il contributo di Bonhoeffer incidesse significativamente”
. Come
il professore sottolinea fu proprio la centralità di Cristo ad essere la chiave
di volta del suo pensiero e della sua vita, soprattutto in opere come
Sequela,
Vita comune e
Resistenza e
resa.
Nel mio studio mi soffermerò soprattutto su
Sequela, un’opera scritta nel 1937 e nella quale confluivano sia la
centralità data al discorso della montagna fin dal 1934, anno in cui si trovava
a Londra, e le lezioni sul Nuovo Testamento tenute a Finkenwalde. L’opera è
stata giudicata come “di gran lunga il meglio di quanto su ciò è stato scritto”
ed
ebbe una rapida diffusione anche oltre la cerchia dei cosiddetti esperti del
settore. Il suo amico biografo Bethge riferisce che mentre Bonhoeffer stava
ultimando la stesura dell’opera
Etica,
nel 1940 presso il monastero benedettino di Ettal, scoprì con meraviglia che i
monaci usavano il suo precedente libro
Sequela
come meditazioni per la preparazione al Natale
.
Nella
Prefazione alla sua opera
Bonhoeffer ci introduce anche nella lettura della medesima, dandoci in forma di
domanda la sua chiave di lettura: la sequela incondizionata a Cristo non può
scaturire da una predicazione troppo dogmatica e non inerente con la vita del
singolo, ma solamente concentrandoci sulla rivelazione biblica del Cristo.
Soltanto una predicazione che prende le sue mosse dalle idee di Gesù e non
dalle nostre potrà essere efficace per liberare l’uomo da tutte quelle
prescrizioni umane che lo opprimono, provocando tormento e preoccupazione alla
coscienza
.
Quindi, dalla lettura di questa Opera si percepisce chiaramente che la
liberazione delle coscienze delle persone avviene solamente là dove si prende
sul serio la chiamata incondizionata di Gesù alla sequela.
Legittime sono a questo punto le domande che Bonhoeffer si pone
terminando la sua
Prefazione “Dove la
chiamata alla sequela condurrà coloro che la accolgono? Che decisioni e
divisioni ne conseguiranno?”
. La
chiamata di Cristo è frutto della grazia e portatrice di misericordia e per
questo lui la rivolge anche al malfattore crocefisso nell’ultima ora della sua
vita. Da ciò si comprende che il sentimento che ci accompagnerà nel duro
cammino della
sequela Christi può
essere solo quello della gioia, quella gioia che ci permette di pronunciare il
nostro ‘no’ al peccato e il nostro ‘si’ al peccatore, quella stessa gioia che
ci consente di poter vincere i nostri nemici con la parola del vangelo
.
Capitolo Primo
Il Kirchenkampf
Si
parte da qui, o meglio, troviamo qui a Finkenwalde la cornice che racchiude il
periodo più pieno della vita del nostro Bonhoeffer. In questi anni, tra il 1935
e il 1937, il nostro teologo sperimentò e visse il passaggio da un ambiente
prettamente accademico, nel quale nacquero lavori di intenso studio come
Sanctorum Communio ed
Atto
ed essere, ad uno più pastorale,
dando vita ai vari capolavori di
Sequela
e
Vita comune.
Bethge, parlandoci del suo amico e compagno nel campo di sterminio nazista, a
questo proposito sottolinea come nella sua biografia siano rintracciabili due
svolte molto importanti: quella dall’accademico al cristiano, avvenuta nel 1931
e di cui noi in particolar modo ci interessiamo, e quella dal cristiano al contemporaneo,
databile intorno al 1939
.
Ma come Bonhoeffer arriva a
Finkenwalde? Inizialmente di malavoglia. Questo luogo rappresentava la fase
finale di preparazione dei candidati all’ordinazione e il nostro teologo lo
considerava peggiore di una facoltà universitaria
. Ci
racconta Bethge, nella sua breve biografia, che Bonhoeffer fece del tutto per
non andare all’interno di un seminario di predicazione, poiché riteneva che gli
anni che avrebbe trascorso lì dentro sarebbero stati solamente una pura perdita
di tempo. Lo studio per l’abilitazione all’insegnamento universitario lo aiutò
negli anni 1928 –
1929 a
scamparsela, ma ora non poteva più fuggire. Nella primavera del 1935
la Chiesa confessante pensa a
Bonhoeffer come direttore di uno dei cinque seminari pastorali per la
formazione dei suoi pastori e, così, divenne la guida di Finkenwalde, vicino
Stettino.
Da questa breve esperienza di circa
due soli anni Bonhoeffer non ne uscì illeso. Innanzitutto questo avvenne a
livello teologico, dato che i testi Sequela
e Vita comune furono ampiamente
divulgati e divennero un mezzo prezioso grazie ai quali i laici potevano
comprendere cosa fosse ‘grazia’ e cosa non lo fosse; e poi anche a livello
cristiano, dato che riuscì a frantumare l’antica identificazione tra predicatore
e pastore, immettendo invece una priorità del primo sul secondo, dato che i
giovani uditori rimasero folgorati dall’incontro con la Scrittura. Non
ne restò illeso nemmeno a livello politico. In quegli anni infatti la Gestapo iniziò a tenerlo
d’occhio, dato che lui avrebbe vociferato sull’importanza dell’appartenere alla
Chiesa confessante in ordine alla salvezza. Nel 1936 il Ministero del culto gli
proibì l’insegnamento universitario, nel 1937 venne chiusa la casa di
Finkenwalde; nel 1938 la Gestapo
impose a lui e a tutti gli affiliati della Chiesa confessante non residenti a
Berlino il divieto di soggiorno nella capitale tedesca.
Il termine
tedesco Bruderhaus indica,
letteralmente, ‘casa fraterna’ o ‘casa di fratelli’ e fu il volto che
Bonhoeffer riuscì ad imprimere al seminario di predicazione di Finkenwalde. In
questa casa, infatti, il nostro teologo cercò con forza di creare una scuola di
stampo ecclesiastico – conventuale, che si ispirava ad un certo tipo di
monachesimo anglicano, conosciuto durante i molteplici viaggi di studi.
Come avveniva la vita in questa ‘casa di fratelli’? Molta importanza era
data al
convivium, ossia ad una vita
comunitaria caratterizzata soprattutto dalla preghiera, organizzata sia da un
ampio spazio di silenzio che da un prolungato tempo per la meditazione
. In
una appassionata lettera del 19 settembre
1936 a Karl Barth così
scrisse il nostro teologo:
“(La necessità della preghiera) non è tolta nemmeno
dalla Chiesa confessante […]. L’accusa che questo (cioè il tempo di meditazione
e di preghiera, n. d. A) sia
legalistico in realtà non mi colpisce. Che cosa c’è di veramente legalistico
nel fatto che un cristiano si disponga ad imparare cosa è la preghiera e
dedichi una buona parte del suo tempo a questo studio? Quando ultimamente un
dirigente della Chiesa confessante mi ha detto: ‘Per la meditazione non abbiamo
tempo ora, i seminaristi debbono imparare a predicare e a catechizzare’ o
questo è totalmente ignoranza di che cos’è oggi un giovane teologo, o è
criminosa inconsapevolezza di come nascere una predica e una catechesi. Le
domande che oggi ci vengono poste con serietà dai giovani teologi sono: come
imparo a pregare? Come imparo a leggere la Scrittura? O possiamo aiutarli in questo o non li
aiutiamo affatto. Di evidente qui non c’è davvero proprio nulla”.
È interessante sottolineare come per Bonhoeffer fosse centrale questo
rapporto con Cristo vissuto tramite la mediazione della Scrittura. Così anche
il discorso della montagna, oggetto della nostra analisi nel capitolo seguente,
viene riletto non nella prospettiva esegetica ma come mezzo per intraprendere
degli esercizi spirituali. Come annota Bethge, “i primi tentativi di scrivere
Sequela […] egli li chiamava in maniera
caratteristica non esegesi, ma «esercizi»
.
Nella lettera datata 14 gennaio 1935 ed
indirizzata al fratello Karl – Friedrich, tutto quello che siamo andati fin qui
affermando appare in maniera molto evidente:
“Credo di sapere che potrei essere interiormente a
posto e nel giusto se solo cominciassi veramente a fare sul serio con il
discorso della montagna. Qui sta l’unica fonte di forza che può buttare
all’aria incantesimi e fantasmi, finché dalla prova del fuoco non rimangano
altro che pochi resti bruciacchiati. La restaurazione della Chiesa viene
certamente da un genere nuovo di monachesimo, che con il vecchio ha in comune
soltanto la non compromissione di una vita condotta secondo il discorso della
montagna nella sequela di Cristo”.
Non si facevano voti in senso stretto, ma si condividevano le finanze,
che provenivano o dalle tasche dello stesso Bonhoeffer o assumendosi incarichi
di insegnamento internamente od esternamente al seminario
.
Insomma si sceglieva di rinunciare a certi privilegi e di fare della vita
insieme e comune meditazione dei comandamenti di Cristo il fondamento della
sequela individuale indirizzata alla realizzazione dell’annuncio evangelico.
L’obiettivo che si andava prefiggendo era quello di trovare nella comunità con
i fratelli la concentrazione per il servizio da svolgere nel mondo e nella
Chiesa
. Ed
è per questo che lui affermava con forza che “
primo, la fraternità cristiana non è un ideale, ma una realtà divina;
secondo, la fraternità cristiana è una realtà pneumatica, non della psiche”
. In
questa contrapposizione tra la realtà pneumatica e quella psichica, Bonhoeffer
rilegge l’antagonismo tra la realtà pneumatica e quella carnale di stampo
paolino. L’origine della fraternità cristiana non risale ad un ideale umano
ma in Gesù Cristo
: in
costui dobbiamo riporre il fondamento, la forza e la promessa della nostra
comunione. Facendosi aiutare dallo studio della psicologia Bonhoeffer voleva
sottolineare con forza che la logica della sequela è lontana dalla logica del
mondo, per la quale spesso la relazione con l’altro diventa occasione di
possesso e di attaccamento, ma non sicuramente di comunione. Per questo motivo
diventava fondamentale la preghiera fatta con
la Parola di Dio, in quanto
nella comunità e nella vita sociale è importante saper avere uno sguardo interiore
capace di offrire sempre una vita nuova, per ritrovare anche la propria
umanità.
Ma vi è di più,
la
Scrittura non poteva esser letta con l’intento di piegarla
alle esigenze della propria realtà e convinzione, ma portando queste di fronte
alla Parola di Dio perché vengano da esse rigenerate. Il perdono serale
richiesto per il torto fatto ai fratelli o a Dio durante il giorno sommato
all’esercizio paziente del mettersi alla sequela di Cristo potevano essere
occasioni utili per generare conversione e pace. Ma non basta. La comunità che
Bonhoeffer voleva costruire doveva fondarsi anche sulla preghiera di
intercessione reciproca da parte dei suoi membri
. L’
intercessione consiste nello specifico nel presentare il fratello davanti a
Dio, nel vederlo nella prospettiva della croce di Gesù come un uomo povero e
peccatore, bisognoso comunque della grazia. Addirittura il peccato e la miseria
del fratello assumono lo stesso peso dei peccati e miserie di colui che
intercede e cade ogni motivo che lui possedeva per allontanarlo da sé
.
Nella logica del vangelo, “l’intercessione è un servizio dovuto a Dio e al
nostro fratello, da compiersi quotidianamente. Chi nega l’intercessione al
prossimo, gli nega il suo servizio di cristiano”
.
Capitolo
Secondo
Il Discorso della Montagna
In questo paragrafo voglio
concentrare la mia attenzione sull’analisi dell’opera
Sequela, che ha soprattutto per oggetto il discorso della montagna
di Gesù e alcuni passi dedicati alla chiamata alla sequela. Questi due
argomenti accompagnarono il nostro Teologo fin dal 1928, lo contrassegnarono
come uomo nella sua ricerca sulla Chiesa, che fu la nota che lo trascinò più di
ogni altra nell’intraprendere la sua carriera accademica. Ricerca che non
finirà mai, possiamo dire, e che troverà il culmine nelle sue lettere dal
carcere
.
L’accoglienza della Parola e la sua
meditazione, che caratterizzarono soprattutto il periodo breve vissuto a Finkenwalde,
non rappresentarono mai per lui l’occasione per poter realizzare una
fuga mundi. Interpretando Mt 7,
Bonhoeffer si pone dinanzi alla via stretta del Vangelo, consistente nel
“testimoniare e confessare la verità di Gesù, pur amando al tempo stesso il
nemico di questa verità, nemico di Gesù e nostro, con l’amore incondizionato di
Gesù Cristo”
. Ma bisogna fare molta
attenzione, dato che “i discepoli non devono pensare di poter semplicemente
sottrarsi al mondo e di restare ormai senza pericoli nella piccola schiera che
avanza per la via stretta”
.
Nella prima parte dell’opera, infatti, il nostro Teologo, si dilunga in una
critica del monachesimo, che portava ad una concezione della sequela a Cristo
come un impegno meritorio ma riservato ad alcuni che si isolano. Anche Lutero
fece parte di questi monaci. Così avvenne, però, che
“il mondo aveva fatto irruzione proprio nel cuore
della vita monastica, e faceva valere la propria logica nel modo più
pericoloso. La fuga del monaco dal mondo si svelava come il più sottile amore
del mondo […]. Lutero dovette lasciare il chiostro e rientrare nel mondo […]. Ora
la sequela doveva essere vissuta restando nel mondo […]. La completa ubbidienza
al comandamento di Gesù doveva essere prestata nella vita quotidiana del lavoro
e della professione. Il conflitto tra la vita del cristiano e la vita del mondo
si approfondiva così in modo imprevedibile. Il cristiano ora metteva alle
strette il mondo, in un conflitto a corpo a corpo”.
La sequela che nasce, quindi, come
risposta ad una chiamata non ci conduce ad abitare in un’oasi felice, ma, al
contrario, ci porta ad attraversare una ‘giungla minacciosa’
in
cui è necessario non rassegnarsi ma lottare aspramente. Si comprende allora la
scelta compiuta da Bonhoeffer di voler abbandonare la ricerca accademica,
accusata di aver posto Cristo in un letto di morte, per dedicarsi alla sequela,
vista come espressione della fede in Lui e l’unica in grado di mostrarne la
resurrezione. Con uno sguardo retrospettivo da Finkenwalde indietro, il Teologo
non solo guarderà con antipatia la sua dissertazione per l’insegnamento
accademico
Atto ed essere, ma in uno
scritto datato 27 gennaio 1936 confesserà:
“Mi buttai a lavorare in modo molto poco cristiano
[…]. Poi sopraggiunse qualcos’altro, qualcosa che non ha cessato di cambiare la
mia vita fino ad oggi. Mi accostavo alla Bibbia per la prima volta […]. Avevo
già predicato spesso, avevo già visto molto della Chiesa, ne avevo parlato e
predicato – e non ero ancora diventato cristiano […]. Mi ha liberato la Bibbia, e specialmente il
discorso della montagna. Da allora in poi tutto è cambiato. L’ho avvertito
chiaramente e anche altri intorno a me. Fu una grande liberazione. Allora mi
divenne chiaro che la vita di un servitore di Cristo deve appartenere alla
Chiesa”.
2.1 Sequela e giustificazione
Il tema della giustificazione
racchiude in questa opera scritta da Bonhoeffer quella riflessione sulla grazia
a caro prezzo e su quella a buon mercato. La sequela segue in fin dei conti la
stessa logica dell’Incarnazione e per questo non può cadere nella
giustificazione di un mondo debole nel modo di concepire la fede. La grazia a
buon mercato è, allora, la “giustificazione del peccato e non del peccatore.
[…] è predicazione della remissione senza penitenza, è battesimo senza
disciplina comunitaria, è Cena senza confessione dei peccati, è assoluzione senza
confessione personale” – in fin dei conti – “è grazia senza sequela, grazia
senza croce, grazia senza Gesù Cristo vivo, incarnato”
. Il
nostro Teologo scartò dalla sua vita personale questo tipo di grazia mentre si
pose sulla strada tracciata da una grazia a caro prezzo, una grazia che chiama
alla sequela di Gesù Cristo e che costa all’uomo il prezzo della vita; condanna
il peccato e giustifica il peccatore
. La
grazia a caro prezzo diviene allora la stessa incarnazione di Dio, che ha
dovuto pagare il prezzo della consegna del Figlio ad una morte ignominiosa per
noi. Di sicuro, però, questa grazia a caro prezzo si mostra tale anche perché
esige la sequela da parte dell’uomo verso cui il Cristo rivolge la sua
chiamata. La vita dell’apostolo Pietro, che Bonhoeffer introduce a questo punto
a mo’ di esempio, è veramente esemplificativa di quanto andiamo dicendo.
Pietro, infatti, vive la dimensione dell’apostolo a partir da una doppia
chiamata del Maestro (Mc 1, 17 e Gv 21, 22), che esige da lui il lasciar il suo
proprio lavoro di pescatore per seguire Gesù nella nuova missione che vuole
affidargli. Nello spazio di tempo in cui intercorrono le due chiamate,
logicamente ritroviamo scorrere tutta la vita di sequela dell’apostolo. Duplice
chiamata, ma un’unica grazia, quella di Cristo, che ovviamente non lo ha mai
abbandonato, fino al punto da vincere le ultime seduzioni del mondo materiale e
della vita e che lo separavano da quella autentica sequela consistente nel dono
di sé e della propria vita. L’amore alla sequela ha vinto anche queste ultime
tentazioni.
Ovviamente questo rinnovo alla
sequela di Pietro lo condurrà a riscoprire la sua fede verso il Cristo e a
viverla in un modo nuovo: la professione di fede viene nutrita e rinvigorita da
una rinnovata effusione della grazia divina. Se da un lato allora si può
supporre che non vi sia giustificazione senza sequela, è doveroso però d’altro
lato ritener per vero che la chiamata alla sequela è rivolta a tutti, è
universale, e avviene molteplici volte lungo l’arco della esistenza, senza però
mutare il ‘caro prezzo’ che essa comporta e richiede. Tenendo come sfondo la
triplice chiamata all’amore di Pietro da
parte del suo Maestro, Bonhoeffer potrà scrivere che
“essa fu così la grazia di Cristo stesso, non certo
una grazia che il discepolo abbia accordato a se stesso. È stata sempre l’unica
grazia di Cristo, che ha vinto il discepolo inducendolo ad abbandonare tutto
per amore della sequela, che ha operato in lui una confessione di fede che al
mondo non poteva sembrare che blasfema, che ha chiamato l’infedele Pietro alla
comunione estrema del martirio, rimettendo così ogni suo peccato. Per la vita
di Pietro, grazia e sequela sono inscindibili. Egli aveva ricevuto la grazia a
caro prezzo”.
La grazia a caro prezzo ci porta a
confrontarci con un Gesù vivo, che interpella in maniera esigente la nostra
vita di ogni giorno nel mondo, richiamandoci fortemente a quelle immagini
evangeliche che ci fanno comprendere come
“grazia a caro prezzo è il tesoro nascosto nel campo,
per amore del quale l’uomo va a vendere con gioia tutto ciò che aveva; la
pietra preziosa, per il cui valore il mercante dà tutti i suoi beni; la
signoria regale di Cristo, per amore del quale l’uomo strappa da sé l’occhio
che lo scandalizza; la chiamata di Gesù Cristo, per cui il discepolo abbandona
le reti e si pone alla sua sequela. Grazia a caro prezzo è il vangelo, che si
deve sempre di nuovo cercare, il dono per cui si deve sempre di nuovo pregare,
la porta a cui si deve sempre di nuovo bussare”.
Sono proprio queste pagine ad aprire il libro Sequela, che ora stiamo prendendo in esame, e che ci permettono di
cogliere il la del piano della sua Opera,
incentrata a rimarcare il legame tra fede ed obbedienza, non svendendo il
significato della Parola di Dio.
2.2 Sequela e responsabilità
Nel contesto sopra accennato si
mostra chiaramente come la sequela implichi una grande responsabilità da parte
del credente, che mette in gioco anche la sua visione del mondo. Quest’ultimo
non denota una realtà meramente negativa, dalla quale star il più lontano
possibile, ma “è il vivere la fede autenticamente nella sequela del Cristo a
determinare il nostro giusto rapporto con il mondo”
. La
grazia ci chiama fortemente alla sequela e a mettere impegno in essa, un
impegno che si fa logicamente responsabilità. Sarebbe infatti ridicolo ritenere
che la grazia che ci spinge possa ammettere, o meglio tollerare, il peccato
divenendo una specie di tappabuchi delle malefatte del discepolo di Cristo. Non
è questa la meta a cui il nostro Bonhoeffer vuole portarci e che sarebbe
solamente una mera mondanizzazione del nostro cristianesimo.
Siamo ovviamente chiamati a vivere nel mondo, senza appartarci da esso,
ma a viverci da cristiani posti alla sequela di Cristo, per cui siamo anche chiamati
in certi momenti a lasciare “lo spazio del mondo per trasferirsi in quello
della chiesa e ricevere lì l’assicurazione che i peccati saranno rimessi”
. Bonhoeffer,
però, denuncia che troppo spesso sia questo impegno che questa responsabilità
sono venuti a mancare
in
nome di una vaga e vana giustificazione, non avente a che fare con il Vangelo. In
altre parole, “la grazia a buon mercato […] ci ha chiuso la via a Cristo. Non
ci ha chiamato alla sequela, ma ci ha indurito nella disobbedienza”
e si
è mostrata come “l’acerrima nemica della sequela”
.
Non vi è grazia che non esiga un impegno nella sequela, o meglio, non vi
è grazia che giustifichi un disimpegno nella sequela. Di fronte alla grazia e
misericordia divina siamo sempre dei peccatori, sottolinea Bonhoeffer, ma
questo non vuole significare che la grazia ci esorta a peccare moltissimo per
sperimentare la bontà di Dio che ci perdona, riaccogliendoci in sé. Il peccato
va riconosciuto, odiato e sfuggito con l’impegno di tutta la vita, avendo
sempre la certezza che più grande del peccato è la grazia di Dio che salva il
peccatore. Ma attenzione, “a chi si possono dire queste parole, se non a chi
ogni giorno rinnega di cuore il peccato, a chi rinnega ogni giorno tutto ciò
che lo ostacola nella sequela di Gesù, e resta ciononostante inconsolabile per
l’infedeltà e il peccato di ogni giorno? Chi altri può udire una cosa simile
senza pericolo per la fede, se on colui che sa di essere nuovamente chiamato
alla sequela da questo incoraggiamento?”
.
Quindi, ribadisce Bonhoeffer, la grazia a buon mercato è una nuova legge
che ci siamo dati senza comprendere che essa non ci aiuta e non ci libera,
mentre “felici quelli che sono diventati cristiani […] per i quali la parola
della grazia è stata misericordiosa”
.
2.3 Sequela come chiamata
Seguendo la traccia lasciataci da
Bonhoeffer raggiungiamo il perno della vocazione alla sequela. Sono molto
audaci le espressioni scritte dal nostro Autore in proposito: “la chiamata di
Gesù alla sequela fa del discepolo un singolo. Che lo voglia o no, deve
decidersi, e deve farlo da solo. Non è una scelta propria, quella di voler
essere un singolo, ma è Cristo che rende tale colui che chiama. Ognuno è
chiamato da solo. Da solo deve seguire [Gesù]”
.
Certamente questa solitudine non lascia l’uomo indifferente ma lo rende
insicuro e bisognoso di aggrapparsi a delle cose concrete che gli permettono di
sentirsi protetto. Spesso si tratta di altre persone o di protezioni materiali.
La chiamata di Dio, però, non acconsente a questo e così “chi è chiamato […]
non trova riparo né nel padre né nella madre, né nella moglie né nei figli, né
nel popolo né nella storia. Cristo vuol mettere l’uomo nella considerazione di
solitudine, perché questi deve poter vedere soltanto colui che l’ha chiamato”
.
La chiamata alla sequela di Cristo
si trova ad irrompere nella vita di una persona comportando inevitabilmente una
rottura da tutti i legami sentimentali o materiali che il discepolo aveva
intessuto fino ad allora. Rottura esigita dalla sequela stessa e provocata da
Cristo stesso nel momento della chiamata. Come afferma lo stesso Bonhoeffer,
“Cristo ha svincolato l’uomo dalla sua immediatezza nei confronti del mondo, e
lo ha posto nell’immediatezza con se stesso. Nessun uomo può seguire Cristo,
senza riconoscere ed accettare la rottura già compiuta. Non è l’arbitrio di una
vita, guidata dal proprio volere, ma Cristo stesso a guidare il discepolo in
tale rottura”
. Grazie a questa rottura
il discepolo riesce a riconoscere nel Cristo il Figlio di Dio e quindi il
Mediatore della salvezza. Non siamo dinanzi a degli ideali da soppesare, bensì
di fronte ad un fatto compiuto da riconoscere. Se questo non avviene,
l’immediatezza con il mondo non ci permetterebbe di esercitare la nostra fede
ed ubbidienza a Cristo
. È
per questo motivo che Bonhoeffer ci esorta a rifuggire ed odiare
l’immediatezza, a tal punto che “ovunque una comunità ci ostacoli nel
presentarci come singoli davanti a Cristo, ovunque una comunità pretenda
l’immediatezza, la dobbiamo odiare per amore di Cristo; infatti ogni
immediatezza è, in modo più o meno cosciente, odio contro Cristo il mediatore,
anche e specialmente se vuole presentarsi come cristiana”
.
In effetti, l’obbedienza della fede
(sequela) a cui ci chiama Cristo ci mette di fronte a due grandi verità: primo,
essa può avvenire solo se riconosciamo un mediatore tra Dio e l’uomo,
altrimenti non abbiamo altro che una “scelta autonoma di una via che può essere
anche una via ideale, che può forse comportare il martirio, ma è senza promessa”
;
secondo, la chiamata alla sequela ci rende discepoli e pretende da noi lo
sforzo di rompere con i nostri rapporti con il mondo e con relazioni troppo
vincolanti, come quelle familiari, per rimanere in solitudine con Cristo.
Rientra sicuramente di riflesso in questo discorso l’esperienza di massa del
nazionalsocialismo fatta da Bonhoeffer, esperienze in cui il singolo non era
più persona ma parte di una massa che ti guida e ti trascina. Solo la comunione
con Cristo ci può salvare da ciò, ricreando l’essenza del discepolo e delle sue
relazioni.
Ma vi è sempre posta una condizione:
la scelta della solitudine. Cristo si riferisce sempre a persone che sono
rimaste singole per amor suo, che hanno lasciato tutto per lui quando sono
state chiamate da lui stesso. Quindi, “ognuno si pone da solo nella sequela, ma
nessuno vi rimane da solo. A colui che osa diventare un singolo fidando sulla
parola, è data in dono la comunione della comunità. Egli si ritrova in una
fraternità visibile, che lo ripaga cento volte di ciò che ha perduto”
.
L’essere del discepolo, di colui che
è chiamato alla sequela, trova spiegazione nella risposta alla domanda su chi è
Cristo. Era questa la questione su cui si concentrava il corso di cristologia
tenuto dal nostro Teologo all’università di Berlino nel semestre estivo del
1933. Le esperienze che la vita gli ha offerto e gli offrirà in futuro lo hanno
portato sempre più a rispondere che Cristo è un
esserci per gli altri. Al discepolo che si mette alla
sequela Christi la vita e il suo essere
viene completamente rovesciata, da una vita per sé ad una per gli altri
. Ma
come si può attuare una vita per gli altri, come possiamo superare l’abisso che
ci separa da un altro uomo? Se pensiamo di ovviare alla diversità e
all’estraneità dell’altro con i mezzi che ci propongono le più svariate
psicologie ci troveremo sulla cattiva strada, in quanto solo Cristo è la via e
l’intercessione il mezzo più promettente per raggiungere l’altro
.
L’unico modo per riuscire nella sequela rimane il seguire fedelmente i passi di
Cristo che responsabilmente ci precede sulla via da lui stesso tracciataci.
Come Bonhoeffer sottolinea, “a conferma della serietà della sua chiamata alla
sequela e al tempo stesso dell’impossibilità di porsi nella sequela contando
solo sulla forza umana, e della promessa che essi sarebbero stati dei suoi
nella persecuzione, ora Gesù cammina avanti a loro verso Gerusalemme e verso la
croce, mentre coloro che lo seguono sono pieni di stupore e paura di questa
strada su cui egli li chiama”
.
2.4 Sequela come partecipazione alla sofferenza di Cristo
In questo paragrafo affrontiamo una
delle tematiche assai care a Bonhoeffer, il rapporto tra la sequela e la croce.
Gesù viene visto come “il Cristo riprovato nella passione”
e la
croce viene da lui ritenuta il “patire con Cristo”
. In
questo
patire con Cristo possiamo
riscoprire l’autentico significato della croce stessa, che non può essere
legata al solo soffrire
.
Quello che tocca profondamente il nostro Teologo è il fatto che Cristo non solo
soffrì ma fu anche un riprovato, un respinto e rifiutato dagli uomini nel
patire. Mentre stava soffrendo Gesù non riuscì a suscitare la grande ammirazione
dei presenti, ma, bensì, lo sdegno e la riprovazione:
“soffrire ed essere riprovati non sono la stessa cosa.
Anche nella passione Gesù sarebbe potuto infatti restare il Cristo acclamato.
La passione sarebbe potuta ancora essere oggetto di tutta la compassione e
l’ammirazione del mondo. Nel suo aspetto tragico, la passione avrebbe potuto
conservare un proprio specifico valore, un proprio onore, una propria dignità.
Ma Gesù è il Cristo riprovato nella passione. L’essere riprovato toglie alla
passione ogni dignità e onore”.
La sequela di Cristo richiede il personale rinnegamento, che porta ad un
legame sempre più stretto con Gesù stesso. Come viene evidenziato molto bene
dal nostro Teologo,
“il rinnegamento di sé no può mai risolversi in una
quantità, sia pur nutrita, di singoli atti di automortificazione o di esercizio
ascetico; non significa suicidio, perché anche questo può essere un modo in cui
si impone l’arbitrio umano. Rinnegare se stessi significa conoscere solo
Cristo, non più se stessi, vedere ormai solo lui che ci precede, non il cammino
per noi troppo difficile. Ancora una volta rinnegamento di sé significa solo:
Egli ti precede, tienti stretto a lui”.
Anche questo rientra nel concetto della grazia e porta come frutto la
pace interiore e la gioia. Infatti poco dopo Bonhoeffer prosegue evidenziando
che
“se […] ci siamo del tutto dimenticati di noi e non
conosciamo più noi stessi, solo a questo punto possiamo essere disposti a
portare la croce per amor suo. Se ormai conosciamo soltanto lui, allora non
conosciamo più nemmeno le sofferenze della nostra croce, e vediamo solo lui. Se
Gesù non ci avesse premurosamente preparato a questa parola, non saremmo in
grado di sopportarla. Ma in questo modo ci ha messo in condizione di cogliere
come grazia anche questa dura parola. Essa giunge a noi nella gioia della
sequela e ci rafforza in essa”.
Possiamo allora saper portare la
croce per amore di Cristo solo se ci poniamo nella condizione dell’esserci
totalmente dimenticati di noi stessi, a tal punto che nella sequela non
anteponiamo a Cristo nemmeno le sofferenze che scaturiscono dalla nostra croce.
Questo, logicamente, non può essere compreso se ci poniamo nella logica di una
grazia a buon mercato, che tende ad annacquare il nostro essere cristiani,
portando alla identificazione dell’esistenza naturale con quella cristiana.
Ogni chiamata cristiana è in fin dei conti chiamata alla croce e alla morte,
fin dal battesimo, infatti, siamo chiamati a lottare con Cristo contro il
peccato. Scrive a questo punto Bonhoeffer che
“la prima passione in nome di Cristo, che ognuno deve
provare, è la chiamata che ci chiama fuori dai vincoli di questo mondo. È la
morte del vecchio uomo nell’incontro con Gesù Cristo. Chi si pone nella
sequela, si consegna alla morte di Gesù, fonda la sua vita sulla morte, ed è
così fin dalle prime battute; la croce non è la fine terribile di una vita
felice e devota, ma sta all’inizio della comunione con Gesù. Ogni chiamata di
Cristo porta alla morte […]. La chiamata alla sequela di Gesù […] è morte e
vita”.
A ragione l’amico Bethge, rileggendo questi passi dell’opera bonhoefferiana,
afferma che “con l’interpretazione della Parola debole noi tocchiamo ciò che di
più profondo Bonhoeffer ha saputo esprimere: la
sequela come partecipazione alla sofferenza vicaria di Cristo, come
comunanza con il Crocifisso. Qui si sente attraverso le frasi la ricchezza di
una esperienza propria”
.
Esperienza che verrà sempre più arricchita durante gli anni della prigionia,
quando, in una lettera datata 18 luglio 1944, il nostro Teologo ribadirà con
forza che la grande differenza tra i cristiani e i pagani consiste proprio
nello stare vicino a Dio nella sofferenza. Il cristiano è chiamato a
testimoniare questo in un mondo senza Dio. E allora anche l’uomo deve vivere
“mondanamente”, prendendo così parte alla sofferenza di Dio. Con questo
Bonhoeffer intendeva sottolineare come l’uomo debba liberarsi nella sua sequela
dai legami religiosi spesso soli opprimenti, dato che “essere cristiano non
significa essere religioso in un determinato modo, fare qualcosa di se stessi
(un peccatore, un penitente o un santo) in base ad una certa metodica, ma
significa essere uomini; Cristo crea in noi non un tipo d’uomo, ma un uomo. Non
è l’atto religioso a fare il cristiano, ma il prender parte alla sofferenza di
Dio nella vita del mondo”
. In
questo è determinante la visione bonhoefferiana di Dio come Colui che porta e
ci chiama i discepoli a portare i pesi e le sofferenze gli uni degli altri. In
questo, soprattutto, si evidenzia il nostro essere cristiani, poiché
“come Cristo salvaguarda la comunione con il Padre nel
portare, così il portare di chi è alla sua sequela è comunione con Cristo.
L’uomo può anche scuotersi di dosso il peso impostogli. Ma in tal modo non si
libera affatto del peso, bensì ne deve portare uno molto più pesante,
insopportabile. Porta il giogo di se stesso, che si è scelto da solo […]. Chi
si pone nella sequela trova, quando si assume la propria croce, Gesù stesso”.
Di fronte alla croce Bonhoeffer ci richiama a non provare sentimenti di
vergogna o di scandalo o di rifiuto ma ‘semplicemente’ di prenderla sopra di
noi. Ognuno possiede la sua croce, non deve essere inventata o ricercata da
noi, ma ci viene donata da Cristo stesso e a noi è richiesto di portarla,
ognuno secondo la misura che è stata scelta per lui: ad alcuni può venir
richiesto la grazia del martirio, perché sono degni di grandi sofferenze,
mentre ad altri Cristo non permette che siano tentati al di sopra delle loro
capacità. Ma per tutti vi è la partecipazione all’unica sua croce
.
Conclusione critica
Sicuramente non possiamo tacere che
la lettura dell’opera Sequela di
Bonhoeffer non risvegli nel lettore la presa di coscienza riguardante
l’importanza di prendere sul serio una Parola sì debole ma saldamente
importante per il buon esito della nostra vita. Una Parola che oltre ad essere
predicata, va soprattutto vissuto in una sequela, che è chiamata all’obbedienza
della fede, ad una vita responsabile e che si fa partecipe della sofferenza di
Cristo.
Bonhoeffer ci indica anche
l’importanza di puntare tutto su Cristo, su Colui che è il solo nostro
fondamento e causa della nostra sequela, ‘l’uomo per gli altri’, come lui
stesso amava definirlo.
Lo studio ci pone dinanzi però ad
una altra grande linea direttrice, che consiste nel profondo connubio tra la vita,
l’esperienza e la teologia. Bonhoeffer ha saputo, infatti, fare della sua vita
una theologia, ossia una
contemplazione del mistero di Dio, uscendo dal mero ambito accademico, per
sperimentare Dio agente nel mondo. Dalla lettura di Sequela noi percepiamo le note di una teologia vissuta, di una
teologia, cioè, in cui il legame con la biografia del Teologo diviene un
carattere indispensabile. Bonhoeffer abbandonerà l’insegnamento accademico nel
1933, quando le facoltà teologiche vennero sottoposte al controllo nazista, e
da quel momento il fare teologia divenne per lui una necessità personale.
L’opera che abbiamo esaminato risale al 1935 e già si percepisce come in essa
Bonhoeffer ponga non solamente lo sforzo intellettivo di uno studioso, ma ancor
più lo sforzo di un cristiano che si pone dietro alla chiamata di Cristo. Il
nostro Teologo non vuole solamente comprendere Cristo, ma vuole anche vivere
Cristo seguendolo nelle sue stesse scelte evangeliche.
L’esperienza mistico – contemplativa
di Bonhoeffer si avvale soprattutto di una lettura radicale del Vangelo di
Cristo, una lettura potremmo dire sine
glossa, che porta il nostro Teologo ad esigere una sequela radicale senza
sconti, fortemente marchiata da un sano timor di Dio, che lo porta ad affermare
il bisogno di una obbedienza radicale ai comandamenti di Cristo. Come lui
stesso afferma,
“non sono gli uomini che si devono temere. Essi non
possono far gran male ai discepoli di Gesù. Il loro potere finisce con la morte
corporale. E i discepoli devono vincere il timore della morte grazie al timore
di Dio. Non è il giudizio degli uomini, ma quello di Dio, non la rovina del
corpo, ma la rovina eterna del corpo e dell’anima a costituire un pericolo per
il discepolo. Chi teme ancora gli uomini, non teme Dio. Chi teme Dio, non teme
più gli uomini […]. Siamo nelle mani di Dio. Perciò «non temete»!”.
Nell’esperienza mistica di
Bonhoeffer non si offre un minimo spazio, quindi, ad attenuare minimamente i
comandi radicali di Gesù, che devono essere osservati non solo in maniera
interiore, ma anche esteriore. È sotto questa ottica che lui inquadra anche il
comandamento alla povertà: Gesù richiede una povertà reale e concreta o un
semplice essere distaccati dalle cose materiali di questo mondo.
L’interpretazione semplice e letterale delle parole di Cristo non permettono
facili e comode scappatoie. Come il nostro Teologo sottolinea,
“la concreta chiamata di Gesù e la semplice ubbidienza
hanno un loro senso irrevocabile. Con esse Gesù chiama nella situazione
concreta, in cui è possibile credere in lui; chiama in modo tanto concreto e
appunto così vuole essere interpretato, perché egli sa che l’uomo diventa
libero per il credere solo nella concreta ubbidienza. Laddove la semplice
ubbidienza viene in linea di principio eliminata, la grazia a caro prezzo della
chiamata di Gesù si trasforma ancora una volta nella grazia a buon mercato
dell’autogiustificazione”.
Bonhoeffer decise così nella sua
vita di accettare la sfida di Cristo, di tagliare i ponti con il mondo per
entrare nella situazione di insicurezza, nella quale Gesù ti fa conoscere ciò
che lui vuole da te e ciò che ti offre. Avendo dinanzi agli occhi le immagini
evangeliche della chiamata di Levi e di quella di Pietro, il nostro Teologo
decide di lasciare anche lui il suo ‘dazio’ e le sue ‘reti’, per non restare
più in silenzio in attesa, ma per camminare con Cristo nella sequela. E con
queste parole egli descrive la sua ‘vocazione’:
“[…] ora egli era presente, ora la sua chiamata era
risuonata. Ora credere non significava più restare silenziosi in attesa, ma
camminare con lui nella sequela. Ora la sua chiamata alla sequela scioglieva
ogni vincolo, per amore dell’unico vincolo con Gesù Cristo. Ora tutti i ponti
dovevano essere tagliati, si doveva fare il passo nell’infinita insicurezza,
per conoscere ciò che Gesù esige e ciò che dà […]. La via verso la fede passa
per l’ubbidienza alla chiamata di Cristo. Si richiede questo passo, altrimenti
la chiamata di Gesù cade nel vuoto, e, senza questo passo cui Gesù chiama, ogni
presunta sequela si trasforma in autentico fanatismo”.
Bonhoeffer dimostra in questo modo
di essersi fidato della Parola chiamante di Gesù e di aver trovato in essa la
‘roccia’ su cui fondare la sua vita e i suoi progetti. La teologia del nostro
Autore, come traspare da questo testo che abbiamo esaminato, ci porta ad un
confidare in Dio che è essenzialmente fiducia ed affidamento nella sua parola
di salvezza, più che in altre cose. Come lui stesso sottolinea quando Cristo
chiama
“si richiede solo una cosa, abbandonarsi alla parola
di Gesù Cristo, considerarla come un terreno più solido di qualsiasi altra
sicurezza del mondo. Le potenze che volevano interporsi fra la parola di Gesù e
l’ubbidienza erano allora grandi quanto oggi. Vi si opponeva la ragione; la
coscienza, la responsabilità, la pietà religiosa, la stessa legge e il
principio scritturistico si frapponevano […]. Ma la chiamata di Gesù ha
infranto tutto ciò, procurandosi ubbidienza. Era la stessa parola di Dio.
Quello che veniva richiesto era la semplice ubbidienza”.
Bonohoeffer ci pone dinanzi una
sapienza biblica, in grado di motivare il nostro agire e le nostre scelte come
ha fatto con lui, la sapienza di una Parola capace ancor di volersi incarnare
nella nostra vita per farci giungere alla comunione con il Crocefisso, come
perno centrale dell’esperienza di fede che il nostro Teologo portava con sé.
Gesù ci chiama a deporre il nostro giogo, il nostro peso per prendere il suo,
che è soave e più leggero. Il peso di Cristo è la croce ed il nostro compito
consiste proprio nel porsi sotto questa croce che “non equivale a miseria e
disperazione, ma è ristoro e pace per l’anima, è la gioia più alta. Qui non
siamo più sottoposti a leggi e pesi imposti da noi stessi, ma al giogo di colui
che ci conosce e che procede con noi sotto lo stesso giogo. Sotto il suo giogo
siamo certi della sua prossimità e comunione. Chi si pone nella sequela trova,
quando si assume la propria croce, Gesù stesso”
.
Concludendo questa nostra breve
analisi possiamo affermare con certezza che in Bonhoeffer la teologia e
l’esperienza diventano un tutt’uno, proprio grazie a questa sua
oboedentia fidei nata ed alimentata
dall’ascolto fiducioso ed attento della Parola, che è divenuta per lui sempre
più nella sua vita sequela di Cristo fin sotto alla sua stessa croce. Il frutto
di quanto il nostro Teologo è andato dicendo in queste pagine della sua opera
lo possiamo comprendere ed osservare circa dieci anni dopo, quando dal campo di
sterminio, in una lettera datata 18 luglio 1944, scriverà: “non è l’atto
religioso a fare il cristiano, ma il prender parte alla sofferenza di Dio nella
vita del mondo. Questa è la
μετανοια:
non pensare anzitutto alle proprie tribolazioni, ai propri problemi, ai propri
peccati, alle proprie angosce, ma lasciarsi trascinare con Gesù Cristo sulla
sua strada”
.