sabato 28 febbraio 2015

Fede e ragione nel teologo e filosofo Wolfhart Pannenberg


Il rapporto tra la fede e la ragione, tra la teologia e la scienza naturale, si è mostrato spesso come caratterizzato da grandi conflittualità nel corso della storia dell’umanità. Nelle opere di Pannenberg si nota invece il forte desiderio di un rapporto armonico tra di essi in vista dell’approfondimento e della ricerca della verità. Come sottolinea Neuhaus, il nostro Teologo non vede nella fede l’unico ingrediente che assommato alla ragione possa dare quel che non so che di certezza che tutti cerchiamo, né può essere un “alt” imposto alla ragione[1]. Riprendendo le parole di Lutero, il nostro Teologo, durante una conferenza tenuta nel 1965 alla facoltà teologica di Malburg e l’anno successivo a quella di Hamburg, ha evidenziato come la ragione assuma un ruolo rilevante non solo per la comprensione della sfera naturale e terrena, ma anche in maniera teologica, se illuminata dalla fede e dall’azione dello Spiriti Santo[2]. Nel dialogo teologico tra Sergio Rondinara e Wolfhart Pannenberg, tenuto per l’area di ricerca SEFIR, il nostro Teologo veniva presentato in questo modo:

 

fra i grandi autori che la teologia del Novecento ha espresso, Wolfhart Pannenberg è certamente colui che più di ogni altro ha colto l’importanza che hanno per la teologia i risultati acquisiti dalle scienze della natura. Questo non meraviglia se si tiene presente  il percorso intellettuale del teologo tedesco. Percorso che si caratterizza per un confronto a trecentosessanta gradi con la razionalità moderna al punto da essere identificato come il teologo della modernità, come l’autore nel quale la concezione storica della realtà consente di stabilire un rapporto rinnovato tra ragione moderna e fede cristiana, e la cui ampia produzione possa essere considerata una teologia della ragione[3].

 

Il modello dialogico, che ha caratterizzato la lunga ricerca intellettuale del nostro Teologo, ha saputo superare sia il conflitto tra ragione e fede, tipico del fondamentalismo religioso e del positivismo scientifico, sia uno stato di reciproca indifferenza, nel quale scienziati e teologi non si sono mostrati affatto complici nella ricerca della verità e del sapere bensì rintanati ognuno nel proprio campo di interesse. Sottolinea a questo proposito Rondinara che

 

la distinzione dei campi di competenza non significa affatto divisione, non-comunicazione, in quanto se è vero che gli oggetti formali sono diversi è anche vero che l’oggetto materiale, la realtà indagata, è la stessa. Pertanto le varie forme di conoscenza, se sono autonome per quanto riguarda il metodo d’indagine – legato all’oggetto formale -, sono però anche complementari data l’unicità della realtà che viene studiata da punti di vista diversi. In questo modo ogni disciplina rispetta la specificità dell’altra e tiene presente ciò che è loro comune[4].


1. Il sapere si fonda sulla fede?


Dinanzi ad una visione filosofica della fede come rischio, Pannenberg propone la ricerca della convinzione razionale del fondamento della fede per non perdere la sua essenza o trasformarla in una “cieca incredulità”[5]. Il problema che il nostro Teologo sente più urgente, non è tanto incentrato in una visione della fede come dono di Dio, quanto nel rapporto tra fede e conoscenza, dato che la fede è posta in relazione con una conoscenza dei fatti che portano con sé la rivelazione di Dio in Gesù Cristo[6]. A questa conoscenza, secondo alcuni teologi tra cui Althaus, si potrebbe giungere solamente attraverso la fede. In questo modo il sapere risulterebbe fondato sulla fede stessa. Per Pannenberg, invece, le cose non stanno proprio così.  La scelta di credere non può divenire il fondamento di quello che è il contenuto stesso della fede. Si rischierebbe, secondo il nostro Teologo, di rifiutare «una fede fondata sulla verità extra me, per affermare invece un’autofondazione della fede stessa»[7]. In questo modo si andrebbe snaturando il concetto di fede. Come risulta dalla Sacra Scrittura, è l’evento del Cristo risorto che fonda la fede dei discepoli e degli apostoli.

Nella conoscenza teologica, come in quella scientifica, è bene quindi procedere per ipotesi da controllare e da sottoporre a verifica[8]. Nel saggio Epistemologia e teologia, in particolar modo nella seconda parte concernente proprio la teologia come scienza, Pannenberg rimarca che

 

la questione dell’autorità divina della Bibbia e della dottrina cristiana non si può tuttavia considerare decisa a priori. Essa è piuttosto controversa e nella teologia la si deve trattare come problema. La teologia non può dunque oggi esimersi dalla richiesta d’un controllo delle sue asserzioni sulla base di altri criteri, che non siano quelli di una tradizione dottrinale autoritaria […]. La richiesta della controllabilità è implicita nella struttura logica delle asserzioni. Ogni espressione intesa come asserzione è perciò esposta al controllo sul fatto inteso […]. Ogni asserzione ha dunque proprio in quanto tale la struttura logica dell’ipotesi[9].

 

Posto così il problema, esso diviene veramente serio: le asserzioni che riguardano Dio non possono essere controllate intorno al loro oggetto, dato che la realtà di Dio è discussa e sarebbe in contraddizione con la sua stessa divinità la possibilità da parte dell’uomo di verificare la sua essenza e quindi di possedere ciò dalla quale ogni realtà riceve la sua determinazione. Se non vi può, quindi, essere un controllo diretto delle asserzioni teologiche riguardanti Dio, ciò non toglie però la possibilità di esaminare le implicazioni di queste medesime asserzioni[10]. Questo procedimento è lo stesso impiegato, d’altronde, per alcune leggi delle scienze naturali o per alcune proposizioni inerenti le scienze storiche.

La fede si fonda sull’evento e sulla conoscenza che abbiamo di esso. Esaminando la dinamica del credere dell’uomo odierno, Pannenberg sottolinea come l’atto di affidamento concernente la fede non si può «separare dalla condizione che chi si affida ritenga per vero ciò su cui si fonda la sua fiducia e a cui essa si dirige. Nella teologia più recente si è spesso posto l’atto personale dell’affidarsi in antitesi con un semplice “ritener per vero”»[11].

Non vi è fiducia senza verità, non vi è fiducia senza l’aver precedentemente preso in considerazione l’attendibilità del contenuto e dell’oggetto della nostra fede. Quest’ultima non consiste né nel puro prender cognizione né nell’accettazione di notizie, ma soprattutto nell’affidarsi incondizionatamente, includendo quel “ritener per vero”, che rende forte il nostro affidamento. Per questo motivo la fede è sempre legata all’oggetto che porta con sé come contenuto del credere. Perciò possiamo concludere con Barbaglio che «Pannenberg vuol far valere l’esigenza di un vaglio critico della realtà alla quale si aderisce nella fede. Rifugge decisamente da un credere che sia un cieco salto nel buio. Il carattere incondizionato dell’affidarsi a Dio e a Cristo posto da una ricerca rigorosa del motivo obiettivo su cui poggia l’adesione personale del credente»[12]. La ragione non minaccia la fede, poiché il senso del mistero è consono con la nostra ragione. Come evidenzia Neuhaus, presentando il profilo del suo amico Pannenberg,

 

la teologia della ragione non rappresenta una minaccia per la pietà cristiana. Essere ragionevoli significa essere aperti a quegli aspetti della realtà che non sono conformi ai nostri schemi concettuali. Una razionalità adeguata prende in considerazione il non razionale e anche ciò che si presenta come irrazionale […]. Un uomo ragionevole, dice Pannenberg, sta in atteggiamento di rispettoso timore davanti al mistero dell’esistenza, davanti alla forza del futuro che con la sua venuta risolverà le contraddizioni dell’esperienza. Il principio della sapienza è in verità il timore di Dio[13].

 

Comunque, l’ausilio della ragione insieme all’analisi storica possono assicurare solamente un alto gradi di probabilità, poiché «non c’è nessuna certezza assoluta, nessuna prova incontrovertibile. Solo il futuro confermerà il messaggio del Regno mediante la venuta del Regno»[14]. In questo si mostra essenziale il contributo offerto dal lavoro teologico: nel preoccuparsi di rivestire la fede di credibilità[15]. Il contenuto della fede rimarrà, allo stesso tempo, esposto a dubbi, per cui quanto verrà tramandato sarà sempre sottoposto ad una plausibilità razionale condizionata. È questa la caratteristica della chiesa peregrinante che cammina nella verità in attesa del compimento finale sotto il segno della provvisorietà anche della ricerca teologica. Commentando l’articolo di fede sullo Spirito Santo, Pannenberg giudica errato e fuori luogo il tentativo di richiamarsi alla terza persona della Trinità per assicurare autorità e certezza assoluta alla propria ricerca teologica, generando autoritarismi e fanatismi[16]. Lo Spirito Santo non può divenire un semplice «tappabuchi per ovviare alle debolezze della logica umana. Lo Spirito non è una “copertura” per il rinnegamento della ragione, né un travestimento dell’irrazionalità della soggettività religiosa»[17]. Bensì lo Spirito opera attraverso la ragione e la fede, si muove trovando forza nella ragionevolezza del messaggio cristiano nella prospettiva dell’abbandono fiduciale del credente all’oggetto stesso della fede che è Dio.


2. Fides et ratio

 
L’ostilità tra la fede e la ragione si è acuita soprattutto in epoca moderna, quando è iniziato a decadere il principio di autorità della Scrittura e della tradizione a cui si era appellato il messaggio cristiano fino ad allora[18]. Le verità di fede venivano ritenute collegate ai fatti storici e, secondo il pensiero degli antichi, il fatto storico non può essere oggetto della scienza. Quest’ultima si occupa delle leggi universali, mentre i singoli fatti appartengono alla sfera del contingente e del particolare. È per questo motivo che Agostino esortava nel De vera religione «quae uera esse perspexeris tene et ecclesiae catholicae tribune, quae falsa respue et mihi qui homo sum ignosce, quae dubia crede, donec aut respuenda esse aut vera esse aut semper credenda esse vel ratio doceat vel praecipiat  auctoritas»[19].

Con il sorgere delle prime università venne riconosciuta alla filosofia e alle scienze la loro necessaria autonomia per analizzare i loro campi di ricerca, autonomia che divenne pian piano una “nefasta separazione” dovuta al formarsi di un eccessivo spirito razionalista[20]. Successivamente, con l’avvento dell’epoca moderna, il rapporto tra la fede e la ragione si trovò sbilanciato su quest’ultima: scardinato il principio di autorità come irrazionale, viene lasciato poco spazio alla fede cristiana. Riprendendo il pensiero di David Hume esposto nel Trattato sull’intelligenza umana, Pannenberg sottolinea come si sia arrivati a ritenere la stessa fede al pari di un miracolo che nel credente non fa altro che sovvertire i principi sui quali si basa la conoscenza. È solo in questo modo che i filosofi atei o agnostici pensano che si possano giudicare vere quelle realtà che si pongono al di fuori della esperienza sensibile[21]. Perciò, essi ritengono che «una presunta autorità, che non sia più in grado di convincerci da se stessa, può essere accettata soltanto attraverso un sacrificium intellectus e sarà quindi pur sempre opera dell’uomo»[22]. La fede, invece, secondo il nostro Teologo, va compresa, per evitare che essa assuma il significato di un’autoredenzione illusoria dell’essere umano. Per divenire comprensibile, però, la fede non può essere relegata all’esperienza soggettiva dell’individuo, ma deve essere percepita come uno strumento noetico finalizzato anche alla spiegazione del reale.

Inoltre, il termine “ragione”, secondo Pannenberg, non può essere inteso in maniera univoca. Il nostro Teologo distingue una ragione aprioristica da una “percipiente” e da una storica[23]. La prima rimanda alla tradizione aristotelico-tomista e agostiniana – come egli stesso precisa – secondo le quali la conoscenza avviene tramite l’applicazione dei principi presenti nell’intellectus a quanto viene esperito. L’intelletto, infatti, conosce diversamente dalla ragione: questa è costretta a muoversi da una rappresentazione ad un’altra per cogliere la verità in maniera discorsiva; l’altro, invece, in maniera intuitiva, dato che vive nella visione della verità. Secondo Tommaso d’Aquino[24] per conoscere l’essere umano ha bisogno sia dell’intelletto sia della volontà in quanto, differentemente dagli angeli, egli non è capace di cogliere l’essenza delle cose nella loro immediatezza.

La ragione “percipiente” rimanda alla filosofia di Hamann, Herder e Jakobi, i quali hanno cercato di far riferimento alla dimensione aprioristica della ragione kantiana. La ragione “percipiente” può essere compresa, secondo il filosofo e scienziato Kamlah, a partire dalla logica della intuizione platonica, la quale percepisce le figure del vero attraverso una illuminazione[25]. Per alcuni studiosi questa tipologia di ragione può essere accostata alla fede. Pannenberg non condivide questo giudizio in quanto secondo lui la fede deve rimandare ad un futuro, a ciò che esso promette, mentre la ragione “percipiente” è chiamata a percepire allo stesso modo del nous parmenideo ossia in maniera stabile. Per cui siccome «la verità è futura, essa non può venir compresa da un νοϋς (come in Parmenide) orientato ai dati presenti, bensì soltanto dalla fede, che si affida a ciò che nel futuro si dimostrerà certo»[26]. Con la ragione “percipiente” non si potrà mai comprendere, secondo Pannenberg, la verità storica del Dio della promessa, verità da cui dipende la fede stessa.

Con la ragione storica, invece, siamo dinanzi ad una ragione prolettica, la quale cogliendo il significato anticipa al tempo stesso il futuro ultimo[27]. La ragione storica permette alla fede di compiere un discorso riguardante il futuro escatologico senza che esso venga giudicato irrazionale. Siamo, in questo modo, assai lontani dalla prospettiva aristotelico-tomista, poiché non vi è più corrispondenza tra ragione e dato empirico e tra fede e dati invisibili. Certo, non è nemmeno lecito identificare in questo modo la ragione con la fede, poiché «la fede è espressamente orientata verso quel futuro e compimento escatologico che la ragione anticipa e che allo stesso tempo ha alle sue spalle, quando essa dice ciò che le cose sono, quando ne designa l’essenza»[28]. Ovviamente, la ragione non pone la sua attenzione solo sulle cose presenti, ma richiama il loro presupposto assoluto. Per questo motivo Pannenberg conclude che «la fede può dunque aiutare la ragione a riflettere su se stessa ed a comprendersi in tutta trasparenza […]. Proprio in quanto orientata al futuro ultimo, escatologico, la fede può confermarsi come criterio della razionalità, della ragione»[29]. La natura della ragione storica non può essere inquadrata solamente nella categoria della prolessi, ma anche in quella della provvisorietà. La resurrezione di Gesù Cristo è infatti una anticipazione velata della verità ultima che verrà rivelata nell’eschaton, per cui anche la conoscenza frutto della ragione storica assume i caratteri della non definitività. In effetti, «il singolo credente vive sempre basandosi soltanto su una conoscenza temporanea nell’anticipazione della verità conoscibile definitivamente soltanto nel tempo escatologico, ma pure nell’anticipazione della conoscenza dell’oggetto creduto, conoscenza accessibile già ora e che scioglie i dubbi presenti»[30].



[1] Cfr. R. J. Neuhaus, “Wolfhart Pannenberg: profilo di un teologo”, 44. È interessante notare come nella formazione fanciullesca del nostro Teologo «non gli fu insegnato che la ragione è “il” nemico della fede, o che il dubbio è una malattia da esorcizzare con la preghiera, o che la sottomissione all’autorità religiosa è una virtù che dev’essere coltivata […]. Giunse ad interessarsi di teologia perché era un giovane riflessivo, con quel genere di problemi sui quali si ritiene che la teologia abbia qualcosa da dire: la vita, la morte, il destino, la finalità dell’universo. Non fu convinto da quei teologi che gli chiesero di accettare un compromesso o di abbandonare la ragione. La riflessione critica era l’amica più fidata che egli avesse, quella che l’aveva accompagnato sino a quel punto, ed egli non arrivò ai a pensare di abbandonarla» (ivi, 46–47).
[2] Cfr. W. Pannenberg, “Fede e ragione”, in Id., Questioni fondamentali di teologia sistematica, 268.
[3] S. Rondinara, “Teologia e scienze della natura in Wolfhart Pannenberg”, in Id. (a cura di), Dio come Spirito…, 9.
[4] Ivi, 13.
[5] Cfr. W. Pannenberg, “Intellezione e fede”, in Id., Questioni fondamentali di teologia sistematica, 251.
[6] Cfr. Ivi, 252.
[7] Ivi, 254.
[8][8] Cfr. M. Pedrazzoli, Intellectus quaerens fidem. Fede-ragione in  W. Pannenberg. Il problema della credibilità con riferimento ai contributi di Rahner, Blondel e Pascal, Pontificio Ateneo S. Anselmo, Roma 1981, 123.
[9] W. Pannenberg, Epistemologia e teologia, Queriniana, Brescia 19992, 313.
[10] Cfr. Ivi, 314.
[11] Id., Il Credo e la fede…, 22.
[12] G. Barbaglio, “Presentazione”, in W. Pannenberg, Il Credo e la fede…, 8.
[13] R. J. Neuhaus, “Wolfhart Pannenberg: profilo di un teologo”, 42-43.
[14] Ivi, 44.
[15] «Questo è invece il compito specifico della teologia, non di ogni singolo cristiano […] l’intera tradizione cristiana sia circondata da un’atmosfera di credibilità, la quale però nel corso di questi ultimi secoli si è andata sempre più rarefacendo, anche per la cattiva prova fornita dalla teologia. È necessario ricreare questa atmosfera di credibilità, se il pastore quando predica – nella misura in cui offre delle conoscenze – vuol essere creduto. Anzi, potremmo dire che questo è il compito che la teologia deve oggi affrontare, dando fondo a tutte le sue possibilità e dimostrando tutta l’apertura di cui essa è capace» (W. Pannenberg, “Intellezione e fede”, 255).
[16] Cfr. Id., Il Credo e la fede…, 143-145.
[17] Id., La teologia e il Regno di Dio, 95.
[18] Per approfondire il rapporto tra fede e ragione in età patristica rimandiamo a E. Dal Covolo, “L’incontro tra fede e logos durante l’età patristica (secc. I-III)”, in PATH 1 (2008) 87-97.
[19] Agostino, De vera religione, X, 20.
[20] Cfr, Giovanni Paolo II, Fides et ratio, n. 45.
[21] W. Pannenberg, “Fede e ragione”, 270.
[22] Ivi, 271.
[23] Cfr. Ivi, 273.
[24] «intelligere enim est simpliciter veritatem intelligibilem apprehendere: ratiocinari autem est procedere de uno intellecto ad aliud, ad veritatem intelligibilem cognoscendam; et ideo angeli, qui perfecte possident, secundum modum suae naturae, cognitionem intelligibilis veritatis, non habent nocesse procedere de uno ad aliud: sed simplicter, et absque discursu veritatem rerum apprehendunt […]. Homines autem ad intelligibilem veritatem conoscendam perveniunt, procedendo de uno ad aliud, ut ibidem dicitur: et ideo rationalis dicuntur. Patet ergo, quod ratiocinari comparatur ad intelligere, sicut moveri ad quiscere, vel acquifere ad habere; quorum unum est perfecti, aliud autem imperfecti» (Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, I, 79, 8). Per un’analisi approfondita rimandiamo a J. Ilunga Muya, “Per una rilettura del rapporto fede-ragione nella modernità a partire dalle lezioni di Tommaso d’Aquino”, in PATH 1 (2008) 125-143.
[25] Cfr. W. Pannenberg, “Fede e ragione”, 276.
[26] Ivi, 276-277.
[27] Cfr. Ivi, 280.
[28] Ibidem.
[29] Ivi, 281.
[30] Id., “Appendice”, in Aa. Vv., Rivelazione come storia, 242.

venerdì 20 febbraio 2015

Novità...in libreria

E' uscito in libreria da poco più di un mese il libro di Andrea Vaccaro, La linea obliqua. Il ruolo della tecnologia nella riflessione teologica, editrice EDB.


Qual è il ruolo della tecnologia all'interno del disegno divino sul mondo? E' possibile associare le parole "Dio" e "tecnologia" in un qualche tipo di proposizione significante? E se la teologia è incapace di elaborare questo nesso non rischia di lasciare la tecnologia orfana di ogni paternità spirituale e in balìa delle sole ideologie?

martedì 17 febbraio 2015

La matematica come porta di accesso al filosofare


La matematica come porta di accesso alla filosofia. È quello che è avvenuto nella vita dello scienziato Pavel Florenskij (1882-1937). Iscritto alla facoltà di fisica e matematica dell’università di Mosca il giovane Pavel ebbe l’opportunità di incontrare due grandi matematici del suo tempo, Bugaev (1837-1903), decano della stessa facoltà, e Cantor (1845-1918). Florenskij approdava allo studio della matematica dopo anni di lotta adolescenziale nei quali desiderava giungere alla conoscenza della verità, ossia alla comprensione onnicomprensiva  e non frammentaria della realtà. Secondo colui che venne in seguito apostrofato come il “Leonardo da Vinci dell’Oriente”, la matematica poteva offrire una nuova comprensione (Weltanschauung) del reale, permettendo a Florenskij di realizzare una visione scientifico-filosofica del mondo.

Bugaev amava parlare della matematica pura come un nuovo metodo di conoscenza avente come strumenti di lavoro il numero e la misura. Questo professore era giunto alla conclusione che la matematica non fosse altro che la teoria delle funzioni continue e discontinue. Delle prime si occupa l’analisi matematica mentre delle seconde la aritmologia. Il loro lavoro congiunto avrebbe portato allo sviluppo di una concezione scientifico-filosofica del mondo, che avrebbe rifiutato però l’assolutismo dell’idea di causalità in cambio di una maggiore attenzione dell’idea di discontinuità. In questo modo il pensiero matematico di Bugaev si indirizzava quasi esclusivamente sulla aritmologia. Per questo matematico russo la vita dell’universo dipende non dalla causalità che lega le leggi psico-fisiche, ma dagli elementi del mondo, tra cui in primis vi è l’essere umano. Costui, con la sua volontà libera, è in grado di agire in maniera autonoma all’interno del processo evolutivo dell’universo verso la sua perfezione, o come dirà in seguito Florenskij, verso la sua divinizzazione.

 La perfezione di cui tratta Bugaev non è tanto il faticoso piegarsi dell’essere umano alle leggi inscritte nell’universo, quanto, invece, la ricerca della verità, di quella Verità che è Dio e che accompagna il graduale cammino dell’uomo verso la sua piena realizzazione. Il pensiero del matematico russo è denominato “monadologia evolutiva”, dato che pone nella monade l’elemento vivo. Questa monade è caratterizzata dalla costanza e dall’essere capaci di cambiamenti coscienti. Le monadi sono tutte diverse tra loro e possono entrare in relazione l’una con l’altra, influendo una sull’altra. Lo scopo dell’esistenza della monade è prettamente etico: essa deve perfezionarsi e perfezionare le altre monadi. Con la sua volontà la monade può decidere di realizzare il bene. Florenskij non rimane indifferente alle provocazioni matematiche di Bugaev, tanto che inizia a coltivare il desiderio di concretizzare la matematica, non rendendola un mero insieme di formule.

Oltre Bugaev, Cantor. Grazie a quest’ultimo il giovane Pavel incontra la teoria degli insiemi e l’idea di gruppo. Per il matematico tedesco con “gruppo” si deve intendere un insieme in cui si trovano degli elementi che lo costituiscono e che sono distinti tra loro. In questa idea Florenskij trova l’armonia tra quelli che sono i due concetti fondamentali della filosofia, l’uno ed il molteplice. Ma c’è di più. In Cantor il nostro filosofo russo intuisce l’esistenza dell’infinito nelle condizioni del finito. Infatti il matematico tedesco si era occupato principalmente dell’infinità attuale, da lui pensata in un duplice modo, cioè sia come ciò che è maggiore di ogni realtà finita sia come ciò che è in relazione con una realtà più grande di essa, detta “sovrafinità”. Secondo Cantor, in maniera più concreta, si può ritenere di venire in contatto con l’infinità attuale in tre modi: in maniera assoluta e perfetta (Absolutum), nel mondo creato (Transfinito) e in maniera spirituale ed astratta nei numeri transfiniti, i quali sono il simbolo dell’infinito.

Da quanto abbiamo cercato di mostrare si comprende come la matematica, secondo Florenskij, sia considerata come quella disciplina che può permettergli la conoscenza della verità sull’uomo e su Dio, sul finito e sull’Infinito e su ciò che li lega insieme. Il filosofo russo vuole sapere chi sia Dio e chi sia l’uomo, per cui la sua filosofia della religione segue una duplice via, quella della teodicea e quella della antropodicea. Due percorsi distinti ma al tempo stesso inseparabili. E la cosa interessante è proprio il considerare come la matematica sia stata una delle principali porte (oltre alle sue esperienze risalenti all’infanzia o a quelle religiose) che lo hanno condotto a filosofare, ossia alla ricerca dell’unica Verità. Così scrive nella lettera seconda dedicata al dubbio ne La colonna e il fondamento della verità:

 

Io non ho la Verità in me, ma l’idea della Verità mi brucia; non ho i dati per affermare che cosa sia la Verità e che io la raggiungerò […]. Tuttavia l’idea della Verità brucia in me come “fuoco divoratore” e la segreta speranza di incontrarla a faccia a faccia incolla la mia lingua al palato; è essa il torrente infuocato che mi ribolle e gorgoglia nelle vene.

sabato 7 febbraio 2015

Non confondiamo il monoteismo con il "monoterrorismo"


Monoteismo e violenza: quale connubio? La religione è veramente la causa delle molteplici guerre presenti nel mondo? Sempre più tra gli intellettuali odierni sta tornando in auge la tesi che mostra come il concetto di “monoteismo” nasconda in sé una specie di giustificazione religiosa della violenza. L’ebraismo, il cristianesimo e l’islamismo, con la loro fede in un solo Dio, si troverebbero, allora, ad essere la manifestazione dell’anti-umanesimo. Tutti i popoli, però, nutrono in sé la ricerca dell’infinito e dell’assoluto e si pongono domande inerenti l’origine e la destinazione dell’universo. Essi trovano nella fede monoteista una risposta, quella della potenza dell’amore, la quale è ben altra cosa dall’amore della potenza. Il sostenere il contrario, secondo il teologo Pierangelo Sequeri, dovrebbe essere considerato come un vero tradimento nei confronti di milioni di uomini e donne che, con dedizione ed umanità, appartengono a queste religioni definite “rivelate”.

Spesso l’opinione pubblica accusa le religioni abramitiche di essere state, e di essere tutt’oggi, il focolaio delle guerre presenti nel mondo. In realtà è bene sottolineare come la religione abbia da sempre risentito della incoerenza e della infedeltà dell’essere umano, il quale a volte ha strumentalizzato la stessa religione. A dover essere posta, infatti, nel banco degli imputati dovrebbe essere non tanto la religio quanto la ratio illuminista, la quale, esaltata come strumento di libertà ed uguaglianza, sempre più ha acconsentito a divenire uno strumento della violenza. A partire dall’epoca moderna, infatti, si è assistito alla progressiva nascita di un altro tipo di monoteismo, quello “razionale”, che ha mostrato come l’ateismo e la secolarizzazione possano essere veramente devastanti. L’essere umano non ponendo Dio come l’Altro con il quale relazionarsi e confrontarsi, si è fatto vittima del suo delirio di onnipotenza, divenendo egli stesso un “dio”, ma questa volta perverso ed assassino.

Il messaggio contenuto all’interno dei libri sacri delle religioni monoteiste porta alla conclusione che il rivelarsi di Dio e la sua alleanza con l’essere umano ha come fine la manifestazione della sua misericordia e della sua giustizia. Riprendendo il magistero di Benedetto XVI la Commissione Teologica Internazione (CTI) ha sottolineato come l’amore non debba mai essere separato dalla giustizia e dalla ragione, se non vuole giungere alla legittimazione della sopraffazione dell’altro o all’affermazione indiscriminata dell’autofilia. Nel monoteismo cristiano il Crocefisso ci mostra come possa essere considerata contraddittoria la violenza compiuta “in nome di Dio”. La lotta in nome di Dio, infatti, non deve essere praticata tra i popoli affinché uno domini sull’altro o la religione di uno su quella dell’altro. Essa è, in realtà, la dura battaglia che ogni credente deve portare avanti contro i suoi stessi limiti, contro le sue mancanze di amore, contro ciò che ottenebra il suo spirito.

Molti propongono come soluzione di ritornare ad una fede politeista, ritenendo che solo essa potrebbe essere fautrice di un maggior clima di tolleranza all’interno della nostra società multietnica e multirazziale. Ma non mi sembra affatto che il politeismo si sia mostrato nella storia dell’umanità portatore di ciò, visti i suoi molteplici racconti di lotte tra le divinità e di persecuzioni contro fedeli di altre religioni (ricordiamo per esempio, quanto fatto dall’imperialismo ellenista nei confronti di coloro che appartenevano alla religione ebraica e che viene narrato nel Primo e Secondo libro dei Maccabei). Il credere in un solo Dio, all’interno della religione ebraica e islamica, è stato il frutto di un lento e progressivo processo di purificazione della fede politeista da parte di questi antichi popoli, a partire dalla rivelazione di un Dio che vuole essere il Salvatore di tutte le genti e il Creatore dell’universo. Secondo la CTI il monoteismo è stato giudicato da molti studiosi della storia della civiltà umana come «la forma culturalmente più evoluta della religione: ossia, il modo di pensare il divino più coerente con i principi della ragione». Questo Dio vuole condurre l’uomo al superamento di ogni conflitto per divenire il senso della sua vita, il suo principio e il suo fine. È quindi illogico chiamare in causa Dio in quegli episodi nei quali la violenza dicesi essere richiesta da Dio stesso. Dio è relazione, Dio si trova nella relazione, nel dialogo, e non incita alla violenza, dato che questa produce solo la fine di ogni relazione.

La violenza, allora, è il frutto dell’uomo e colpisce Dio rendendolo una sua vittima. Il Dio unico è il padre di tutti gli uomini e, in quanto tale, desidera la pace per tutti. Non così, invece, il “monoterrorismo”, che crede di porre la fede nell’unico Dio come giustificazione del suo terrificante operato. Dinanzi alla violenza perpetuata nei confronti della sua persona, Gesù comanda al suo discepolo di non fare altrettanto, ma di “riporre la spada nel fodero” (Gv 18,11). Mentre, infatti, l’amore per la potenza costruisce il suo dominio generando il terrore e la paura attraverso l’uccisione di molte persone, la potenza dell’amore e della fede fa del tutto per risparmiare il sangue altrui fino al sacrificio di se stessi.

L’essere umano, inoltre, mira alla conoscenza della verità tramite la fede e la ragione. Queste ultime non sono nemiche o ostili tra loro, ma traggono forza l’una dall’altra. La fede, infatti, è sostenuta dall’intelligenza così come è desiderio dell’intelletto l’indagare il mistero e il raggiungere la sua comprensione (Agostino, Tommaso, Florenskij). Ma ciò non può essere accompagnato da manifestazioni di violenza. Afferma il teologo domenicano Gilles Emery: «Il riconoscimento della verità non comporta né violenza né intolleranza. L’adesione al vero suscita la gioia e il desiderio di comunicare la verità ad altri, proprio per mezzo dell’intelligenza, e dunque senza violenza». Dio, quindi, provoca la ragione umana e libera la libertà dell’uomo promuovendo la ricerca della verità. Il “monoterrorismo” taccia, invece, l’anelito di verità presente nell’essere umano come un pericolo e così cerca di limitare con la violenza l’autonomia del soggetto, privandolo della sua libertà. Chi possiede la verità deve dominare sugli altri che ne sono privi. Il “monoterrorismo” presenta così il tipico connubio verità-volontà di potenza, proprio dei fondamentalismi religiosi, che però lo pone ben lontano dall’essere una religione autentica. Quest’ultima, infatti, come ogni vero umanesimo, è sempre contraddistinta dal rispetto per gli altri e per Dio, cosa di cui il “monoterrorismo” è privo.

Dinanzi ai dolorosi avvenimenti che si susseguono in questi giorni mi sembra importante sottolineare come la fede monoteista abbia il grande pregio di esaltare l’unicità e l’unità della persona umana, favorendo un’etica della relazione e della cura fra gli individui. Il “monoterrorismo”, invece, non è altro che una corruzione della religione dovuta ad interessi economici e politici. Esso si serve della religione di alcuni popoli per soggiogarli e dominarli ed è una vera minaccia per l’essere umano e per tutta la società. La risposta ad esso non può consistere né nell’ateismo né nel politeismo, in quanto il primo annullerebbe e vanificherebbe i desideri che albergano nell’animo dell’essere umano, mentre il secondo non apporterebbe affatto una maggiore tolleranza. Al “monoterrorismo”, a mio parere, può far fronte solo una fede monoteista che si mostri credibile, in quanto non si rende portavoce della frammentarietà nella quale si vuole dissolvere l’esistenza dell’essere umano, ma che sa praticare la via del dialogo e testimoniare l’unità e la semplicità di un Dio appassionato dell’uomo in quanto suo creatore. Parafrasando, quindi, ciò che sosteneva Voltaire nel Trattato sulla tolleranza: “Se volete credere in Dio, siate martiri e non carnefici”.

lunedì 2 febbraio 2015

La "Sequela" di Dietrich Bonhoeffer


[…] solo chi crede ubbidisce, e solo chi ubbidisce crede […].

In vista della giustificazione in effetti

fede e ubbidienza vanno separate,

ma questa separazione non deve mai eliminare la loro unità,

per cui la fede esiste solo nell’ubbidienza,

mai senza, ed è fede solo nell’azione di ubbidienza”[1]

 

Introduzione

 

Perché ho scelto di analizzare proprio Bonhoeffer in questo seminario di studio? Molti altri erano gli autori cattolici verso i quali potevo convergere le mie attenzioni di approfondimento teologico, ma ritengo, e cercherò anche di mostrarlo, che in questo teologo la teologia e la vita personale abbiano fatto un tutt’uno. Presentando recentemente il pensiero di questo teologo alla Pontificia Accademia Alfonsiana, il professor Ciola si chiedeva il perché dell’enorme interesse che i cristiani e non solo rivolgevano alle opere di Bonhoeffer, e si rispondeva annotando come “l’approccio non direttamente accademico, il linguaggio immediato, le intuizioni folgoranti, la coerenza di un’esperienza umana e cristiana portata avanti fino al sacrificio della vita ha fatto sì che il contributo di Bonhoeffer incidesse significativamente”[2]. Come il professore sottolinea fu proprio la centralità di Cristo ad essere la chiave di volta del suo pensiero e della sua vita, soprattutto in opere come Sequela, Vita comune e Resistenza e resa.

Nel mio studio mi soffermerò soprattutto su Sequela, un’opera scritta nel 1937 e nella quale confluivano sia la centralità data al discorso della montagna fin dal 1934, anno in cui si trovava a Londra, e le lezioni sul Nuovo Testamento tenute a Finkenwalde. L’opera è stata giudicata come “di gran lunga il meglio di quanto su ciò è stato scritto”[3] ed ebbe una rapida diffusione anche oltre la cerchia dei cosiddetti esperti del settore. Il suo amico biografo Bethge riferisce che mentre Bonhoeffer stava ultimando la stesura dell’opera Etica, nel 1940 presso il monastero benedettino di Ettal, scoprì con meraviglia che i monaci usavano il suo precedente libro Sequela come meditazioni per la preparazione al Natale[4].

Nella Prefazione alla sua opera Bonhoeffer ci introduce anche nella lettura della medesima, dandoci in forma di domanda la sua chiave di lettura: la sequela incondizionata a Cristo non può scaturire da una predicazione troppo dogmatica e non inerente con la vita del singolo, ma solamente concentrandoci sulla rivelazione biblica del Cristo. Soltanto una predicazione che prende le sue mosse dalle idee di Gesù e non dalle nostre potrà essere efficace per liberare l’uomo da tutte quelle prescrizioni umane che lo opprimono, provocando tormento e preoccupazione alla coscienza[5]. Quindi, dalla lettura di questa Opera si percepisce chiaramente che la liberazione delle coscienze delle persone avviene solamente là dove si prende sul serio la chiamata incondizionata di Gesù alla sequela.

Legittime sono a questo punto le domande che Bonhoeffer si pone terminando la sua Prefazione “Dove la chiamata alla sequela condurrà coloro che la accolgono? Che decisioni e divisioni ne conseguiranno?”[6]. La chiamata di Cristo è frutto della grazia e portatrice di misericordia e per questo lui la rivolge anche al malfattore crocefisso nell’ultima ora della sua vita. Da ciò si comprende che il sentimento che ci accompagnerà nel duro cammino della sequela Christi può essere solo quello della gioia, quella gioia che ci permette di pronunciare il nostro ‘no’ al peccato e il nostro ‘si’ al peccatore, quella stessa gioia che ci consente di poter vincere i nostri nemici con la parola del vangelo[7].
 

Capitolo Primo

Il Kirchenkampf
 

         Si parte da qui, o meglio, troviamo qui a Finkenwalde la cornice che racchiude il periodo più pieno della vita del nostro Bonhoeffer. In questi anni, tra il 1935 e il 1937, il nostro teologo sperimentò e visse il passaggio da un ambiente prettamente accademico, nel quale nacquero lavori di intenso studio come Sanctorum Communio[8] ed Atto ed essere[9], ad uno più pastorale, dando vita ai vari capolavori di Sequela e Vita comune[10]. Bethge, parlandoci del suo amico e compagno nel campo di sterminio nazista, a questo proposito sottolinea come nella sua biografia siano rintracciabili due svolte molto importanti: quella dall’accademico al cristiano, avvenuta nel 1931 e di cui noi in particolar modo ci interessiamo, e quella dal cristiano al contemporaneo, databile intorno al 1939[11].

            Ma come Bonhoeffer arriva a Finkenwalde? Inizialmente di malavoglia. Questo luogo rappresentava la fase finale di preparazione dei candidati all’ordinazione e il nostro teologo lo considerava peggiore di una facoltà universitaria[12]. Ci racconta Bethge, nella sua breve biografia, che Bonhoeffer fece del tutto per non andare all’interno di un seminario di predicazione, poiché riteneva che gli anni che avrebbe trascorso lì dentro sarebbero stati solamente una pura perdita di tempo. Lo studio per l’abilitazione all’insegnamento universitario lo aiutò negli anni 1928 – 1929 a scamparsela, ma ora non poteva più fuggire. Nella primavera del 1935 la Chiesa confessante pensa a Bonhoeffer come direttore di uno dei cinque seminari pastorali per la formazione dei suoi pastori e, così, divenne la guida di Finkenwalde, vicino Stettino.

            Da questa breve esperienza di circa due soli anni Bonhoeffer non ne uscì illeso. Innanzitutto questo avvenne a livello teologico, dato che i testi Sequela e Vita comune furono ampiamente divulgati e divennero un mezzo prezioso grazie ai quali i laici potevano comprendere cosa fosse ‘grazia’ e cosa non lo fosse; e poi anche a livello cristiano, dato che riuscì a frantumare l’antica identificazione tra predicatore e pastore, immettendo invece una priorità del primo sul secondo, dato che i giovani uditori rimasero folgorati dall’incontro con la Scrittura. Non ne restò illeso nemmeno a livello politico. In quegli anni infatti la Gestapo iniziò a tenerlo d’occhio, dato che lui avrebbe vociferato sull’importanza dell’appartenere alla Chiesa confessante in ordine alla salvezza. Nel 1936 il Ministero del culto gli proibì l’insegnamento universitario, nel 1937 venne chiusa la casa di Finkenwalde; nel 1938 la Gestapo impose a lui e a tutti gli affiliati della Chiesa confessante non residenti a Berlino il divieto di soggiorno nella capitale tedesca.

 

1.1Bruderhaus[13]

 

         Il termine tedesco Bruderhaus indica, letteralmente, ‘casa fraterna’ o ‘casa di fratelli’ e fu il volto che Bonhoeffer riuscì ad imprimere al seminario di predicazione di Finkenwalde. In questa casa, infatti, il nostro teologo cercò con forza di creare una scuola di stampo ecclesiastico – conventuale, che si ispirava ad un certo tipo di monachesimo anglicano, conosciuto durante i molteplici viaggi di studi.

Come avveniva la vita in questa ‘casa di fratelli’? Molta importanza era data al convivium, ossia ad una vita comunitaria caratterizzata soprattutto dalla preghiera, organizzata sia da un ampio spazio di silenzio che da un prolungato tempo per la meditazione[14]. In una appassionata lettera del 19 settembre 1936 a Karl Barth così scrisse il nostro teologo:

 

“(La necessità della preghiera) non è tolta nemmeno dalla Chiesa confessante […]. L’accusa che questo (cioè il tempo di meditazione e di preghiera, n. d. A) sia legalistico in realtà non mi colpisce. Che cosa c’è di veramente legalistico nel fatto che un cristiano si disponga ad imparare cosa è la preghiera e dedichi una buona parte del suo tempo a questo studio? Quando ultimamente un dirigente della Chiesa confessante mi ha detto: ‘Per la meditazione non abbiamo tempo ora, i seminaristi debbono imparare a predicare e a catechizzare’ o questo è totalmente ignoranza di che cos’è oggi un giovane teologo, o è criminosa inconsapevolezza di come nascere una predica e una catechesi. Le domande che oggi ci vengono poste con serietà dai giovani teologi sono: come imparo a pregare? Come imparo a leggere la Scrittura? O possiamo aiutarli in questo o non li aiutiamo affatto. Di evidente qui non c’è davvero proprio nulla”[15].

 

È interessante sottolineare come per Bonhoeffer fosse centrale questo rapporto con Cristo vissuto tramite la mediazione della Scrittura. Così anche il discorso della montagna, oggetto della nostra analisi nel capitolo seguente, viene riletto non nella prospettiva esegetica ma come mezzo per intraprendere degli esercizi spirituali. Come annota Bethge, “i primi tentativi di scrivere Sequela […] egli li chiamava in maniera caratteristica non esegesi, ma «esercizi»[16]. Nella lettera datata 14 gennaio 1935 ed indirizzata al fratello Karl – Friedrich, tutto quello che siamo andati fin qui affermando appare in maniera molto evidente:

 

“Credo di sapere che potrei essere interiormente a posto e nel giusto se solo cominciassi veramente a fare sul serio con il discorso della montagna. Qui sta l’unica fonte di forza che può buttare all’aria incantesimi e fantasmi, finché dalla prova del fuoco non rimangano altro che pochi resti bruciacchiati. La restaurazione della Chiesa viene certamente da un genere nuovo di monachesimo, che con il vecchio ha in comune soltanto la non compromissione di una vita condotta secondo il discorso della montagna nella sequela di Cristo”[17].

 

 

Non si facevano voti in senso stretto, ma si condividevano le finanze, che provenivano o dalle tasche dello stesso Bonhoeffer o assumendosi incarichi di insegnamento internamente od esternamente al seminario[18]. Insomma si sceglieva di rinunciare a certi privilegi e di fare della vita insieme e comune meditazione dei comandamenti di Cristo il fondamento della sequela individuale indirizzata alla realizzazione dell’annuncio evangelico. L’obiettivo che si andava prefiggendo era quello di trovare nella comunità con i fratelli la concentrazione per il servizio da svolgere nel mondo e nella Chiesa[19]. Ed è per questo che lui affermava con forza che “primo, la fraternità cristiana non è un ideale, ma una realtà divina; secondo, la fraternità cristiana è una realtà pneumatica, non della psiche[20]. In questa contrapposizione tra la realtà pneumatica e quella psichica, Bonhoeffer rilegge l’antagonismo tra la realtà pneumatica e quella carnale di stampo paolino. L’origine della fraternità cristiana non risale ad un ideale umano  ma in Gesù Cristo[21]: in costui dobbiamo riporre il fondamento, la forza e la promessa della nostra comunione. Facendosi aiutare dallo studio della psicologia Bonhoeffer voleva sottolineare con forza che la logica della sequela è lontana dalla logica del mondo, per la quale spesso la relazione con l’altro diventa occasione di possesso e di attaccamento, ma non sicuramente di comunione. Per questo motivo diventava fondamentale la preghiera fatta con la Parola di Dio, in quanto nella comunità e nella vita sociale è importante saper avere uno sguardo interiore capace di offrire sempre una vita nuova, per ritrovare anche la propria umanità.

Ma vi è di più, la Scrittura non poteva esser letta con l’intento di piegarla alle esigenze della propria realtà e convinzione, ma portando queste di fronte alla Parola di Dio perché vengano da esse rigenerate. Il perdono serale richiesto per il torto fatto ai fratelli o a Dio durante il giorno sommato all’esercizio paziente del mettersi alla sequela di Cristo potevano essere occasioni utili per generare conversione e pace. Ma non basta. La comunità che Bonhoeffer voleva costruire doveva fondarsi anche sulla preghiera di intercessione reciproca da parte dei suoi membri[22]. L’ intercessione consiste nello specifico nel presentare il fratello davanti a Dio, nel vederlo nella prospettiva della croce di Gesù come un uomo povero e peccatore, bisognoso comunque della grazia. Addirittura il peccato e la miseria del fratello assumono lo stesso peso dei peccati e miserie di colui che intercede e cade ogni motivo che lui possedeva per allontanarlo da sé[23]. Nella logica del vangelo, “l’intercessione è un servizio dovuto a Dio e al nostro fratello, da compiersi quotidianamente. Chi nega l’intercessione al prossimo, gli nega il suo servizio di cristiano”[24].

 

Capitolo Secondo

Il Discorso della Montagna

 

            In questo paragrafo voglio concentrare la mia attenzione sull’analisi dell’opera Sequela, che ha soprattutto per oggetto il discorso della montagna di Gesù e alcuni passi dedicati alla chiamata alla sequela. Questi due argomenti accompagnarono il nostro Teologo fin dal 1928, lo contrassegnarono come uomo nella sua ricerca sulla Chiesa, che fu la nota che lo trascinò più di ogni altra nell’intraprendere la sua carriera accademica. Ricerca che non finirà mai, possiamo dire, e che troverà il culmine nelle sue lettere dal carcere[25].

            L’accoglienza della Parola e la sua meditazione, che caratterizzarono soprattutto il periodo breve vissuto a Finkenwalde, non rappresentarono mai per lui l’occasione per poter realizzare una fuga mundi. Interpretando Mt 7, Bonhoeffer si pone dinanzi alla via stretta del Vangelo, consistente nel “testimoniare e confessare la verità di Gesù, pur amando al tempo stesso il nemico di questa verità, nemico di Gesù e nostro, con l’amore incondizionato di Gesù Cristo”[26]. Ma bisogna fare molta attenzione, dato che “i discepoli non devono pensare di poter semplicemente sottrarsi al mondo e di restare ormai senza pericoli nella piccola schiera che avanza per la via stretta”[27]. Nella prima parte dell’opera, infatti, il nostro Teologo, si dilunga in una critica del monachesimo, che portava ad una concezione della sequela a Cristo come un impegno meritorio ma riservato ad alcuni che si isolano. Anche Lutero fece parte di questi monaci. Così avvenne, però, che

 

“il mondo aveva fatto irruzione proprio nel cuore della vita monastica, e faceva valere la propria logica nel modo più pericoloso. La fuga del monaco dal mondo si svelava come il più sottile amore del mondo […]. Lutero dovette lasciare il chiostro e rientrare nel mondo […]. Ora la sequela doveva essere vissuta restando nel mondo […]. La completa ubbidienza al comandamento di Gesù doveva essere prestata nella vita quotidiana del lavoro e della professione. Il conflitto tra la vita del cristiano e la vita del mondo si approfondiva così in modo imprevedibile. Il cristiano ora metteva alle strette il mondo, in un conflitto a corpo a corpo”[28].

 

 

            La sequela che nasce, quindi, come risposta ad una chiamata non ci conduce ad abitare in un’oasi felice, ma, al contrario, ci porta ad attraversare una ‘giungla minacciosa’[29] in cui è necessario non rassegnarsi ma lottare aspramente. Si comprende allora la scelta compiuta da Bonhoeffer di voler abbandonare la ricerca accademica, accusata di aver posto Cristo in un letto di morte, per dedicarsi alla sequela, vista come espressione della fede in Lui e l’unica in grado di mostrarne la resurrezione. Con uno sguardo retrospettivo da Finkenwalde indietro, il Teologo non solo guarderà con antipatia la sua dissertazione per l’insegnamento accademico Atto ed essere, ma in uno scritto datato 27 gennaio 1936 confesserà:

 

“Mi buttai a lavorare in modo molto poco cristiano […]. Poi sopraggiunse qualcos’altro, qualcosa che non ha cessato di cambiare la mia vita fino ad oggi. Mi accostavo alla Bibbia per la prima volta […]. Avevo già predicato spesso, avevo già visto molto della Chiesa, ne avevo parlato e predicato – e non ero ancora diventato cristiano […]. Mi ha liberato la Bibbia, e specialmente il discorso della montagna. Da allora in poi tutto è cambiato. L’ho avvertito chiaramente e anche altri intorno a me. Fu una grande liberazione. Allora mi divenne chiaro che la vita di un servitore di Cristo deve appartenere alla Chiesa”[30].

 

 

2.1 Sequela e giustificazione

 

            Il tema della giustificazione racchiude in questa opera scritta da Bonhoeffer quella riflessione sulla grazia a caro prezzo e su quella a buon mercato. La sequela segue in fin dei conti la stessa logica dell’Incarnazione e per questo non può cadere nella giustificazione di un mondo debole nel modo di concepire la fede. La grazia a buon mercato è, allora, la “giustificazione del peccato e non del peccatore. […] è predicazione della remissione senza penitenza, è battesimo senza disciplina comunitaria, è Cena senza confessione dei peccati, è assoluzione senza confessione personale” – in fin dei conti – “è grazia senza sequela, grazia senza croce, grazia senza Gesù Cristo vivo, incarnato”[31]. Il nostro Teologo scartò dalla sua vita personale questo tipo di grazia mentre si pose sulla strada tracciata da una grazia a caro prezzo, una grazia che chiama alla sequela di Gesù Cristo e che costa all’uomo il prezzo della vita; condanna il peccato e giustifica il peccatore[32]. La grazia a caro prezzo diviene allora la stessa incarnazione di Dio, che ha dovuto pagare il prezzo della consegna del Figlio ad una morte ignominiosa per noi. Di sicuro, però, questa grazia a caro prezzo si mostra tale anche perché esige la sequela da parte dell’uomo verso cui il Cristo rivolge la sua chiamata. La vita dell’apostolo Pietro, che Bonhoeffer introduce a questo punto a mo’ di esempio, è veramente esemplificativa di quanto andiamo dicendo. Pietro, infatti, vive la dimensione dell’apostolo a partir da una doppia chiamata del Maestro (Mc 1, 17 e Gv 21, 22), che esige da lui il lasciar il suo proprio lavoro di pescatore per seguire Gesù nella nuova missione che vuole affidargli. Nello spazio di tempo in cui intercorrono le due chiamate, logicamente ritroviamo scorrere tutta la vita di sequela dell’apostolo. Duplice chiamata, ma un’unica grazia, quella di Cristo, che ovviamente non lo ha mai abbandonato, fino al punto da vincere le ultime seduzioni del mondo materiale e della vita e che lo separavano da quella autentica sequela consistente nel dono di sé e della propria vita. L’amore alla sequela ha vinto anche queste ultime tentazioni.

            Ovviamente questo rinnovo alla sequela di Pietro lo condurrà a riscoprire la sua fede verso il Cristo e a viverla in un modo nuovo: la professione di fede viene nutrita e rinvigorita da una rinnovata effusione della grazia divina. Se da un lato allora si può supporre che non vi sia giustificazione senza sequela, è doveroso però d’altro lato ritener per vero che la chiamata alla sequela è rivolta a tutti, è universale, e avviene molteplici volte lungo l’arco della esistenza, senza però mutare il ‘caro prezzo’ che essa comporta e richiede. Tenendo come sfondo la triplice  chiamata all’amore di Pietro da parte del suo Maestro, Bonhoeffer potrà scrivere che

 

“essa fu così la grazia di Cristo stesso, non certo una grazia che il discepolo abbia accordato a se stesso. È stata sempre l’unica grazia di Cristo, che ha vinto il discepolo inducendolo ad abbandonare tutto per amore della sequela, che ha operato in lui una confessione di fede che al mondo non poteva sembrare che blasfema, che ha chiamato l’infedele Pietro alla comunione estrema del martirio, rimettendo così ogni suo peccato. Per la vita di Pietro, grazia e sequela sono inscindibili. Egli aveva ricevuto la grazia a caro prezzo”[33].

 

            La grazia a caro prezzo ci porta a confrontarci con un Gesù vivo, che interpella in maniera esigente la nostra vita di ogni giorno nel mondo, richiamandoci fortemente a quelle immagini evangeliche che ci fanno comprendere come

 

“grazia a caro prezzo è il tesoro nascosto nel campo, per amore del quale l’uomo va a vendere con gioia tutto ciò che aveva; la pietra preziosa, per il cui valore il mercante dà tutti i suoi beni; la signoria regale di Cristo, per amore del quale l’uomo strappa da sé l’occhio che lo scandalizza; la chiamata di Gesù Cristo, per cui il discepolo abbandona le reti e si pone alla sua sequela. Grazia a caro prezzo è il vangelo, che si deve sempre di nuovo cercare, il dono per cui si deve sempre di nuovo pregare, la porta a cui si deve sempre di nuovo bussare”[34].

 

Sono proprio queste pagine ad aprire il libro Sequela, che ora stiamo prendendo in esame, e che ci permettono di cogliere il la del piano della sua Opera, incentrata a rimarcare il legame tra fede ed obbedienza, non svendendo il significato della Parola di Dio.

 

2.2 Sequela e responsabilità

 

            Nel contesto sopra accennato si mostra chiaramente come la sequela implichi una grande responsabilità da parte del credente, che mette in gioco anche la sua visione del mondo. Quest’ultimo non denota una realtà meramente negativa, dalla quale star il più lontano possibile, ma “è il vivere la fede autenticamente nella sequela del Cristo a determinare il nostro giusto rapporto con il mondo”[35]. La grazia ci chiama fortemente alla sequela e a mettere impegno in essa, un impegno che si fa logicamente responsabilità. Sarebbe infatti ridicolo ritenere che la grazia che ci spinge possa ammettere, o meglio tollerare, il peccato divenendo una specie di tappabuchi delle malefatte del discepolo di Cristo. Non è questa la meta a cui il nostro Bonhoeffer vuole portarci e che sarebbe solamente una mera mondanizzazione del nostro cristianesimo.

Siamo ovviamente chiamati a vivere nel mondo, senza appartarci da esso, ma a viverci da cristiani posti alla sequela di Cristo, per cui siamo anche chiamati in certi momenti a lasciare “lo spazio del mondo per trasferirsi in quello della chiesa e ricevere lì l’assicurazione che i peccati saranno rimessi”[36]. Bonhoeffer, però, denuncia che troppo spesso sia questo impegno che questa responsabilità sono venuti a mancare[37] in nome di una vaga e vana giustificazione, non avente a che fare con il Vangelo. In altre parole, “la grazia a buon mercato […] ci ha chiuso la via a Cristo. Non ci ha chiamato alla sequela, ma ci ha indurito nella disobbedienza”[38] e si è mostrata come “l’acerrima nemica della sequela”[39].

Non vi è grazia che non esiga un impegno nella sequela, o meglio, non vi è grazia che giustifichi un disimpegno nella sequela. Di fronte alla grazia e misericordia divina siamo sempre dei peccatori, sottolinea Bonhoeffer, ma questo non vuole significare che la grazia ci esorta a peccare moltissimo per sperimentare la bontà di Dio che ci perdona, riaccogliendoci in sé. Il peccato va riconosciuto, odiato e sfuggito con l’impegno di tutta la vita, avendo sempre la certezza che più grande del peccato è la grazia di Dio che salva il peccatore. Ma attenzione, “a chi si possono dire queste parole, se non a chi ogni giorno rinnega di cuore il peccato, a chi rinnega ogni giorno tutto ciò che lo ostacola nella sequela di Gesù, e resta ciononostante inconsolabile per l’infedeltà e il peccato di ogni giorno? Chi altri può udire una cosa simile senza pericolo per la fede, se on colui che sa di essere nuovamente chiamato alla sequela da questo incoraggiamento?”[40].

Quindi, ribadisce Bonhoeffer, la grazia a buon mercato è una nuova legge che ci siamo dati senza comprendere che essa non ci aiuta e non ci libera, mentre “felici quelli che sono diventati cristiani […] per i quali la parola della grazia è stata misericordiosa”[41].

 

2.3 Sequela come chiamata

 

            Seguendo la traccia lasciataci da Bonhoeffer raggiungiamo il perno della vocazione alla sequela. Sono molto audaci le espressioni scritte dal nostro Autore in proposito: “la chiamata di Gesù alla sequela fa del discepolo un singolo. Che lo voglia o no, deve decidersi, e deve farlo da solo. Non è una scelta propria, quella di voler essere un singolo, ma è Cristo che rende tale colui che chiama. Ognuno è chiamato da solo. Da solo deve seguire [Gesù]”[42]. Certamente questa solitudine non lascia l’uomo indifferente ma lo rende insicuro e bisognoso di aggrapparsi a delle cose concrete che gli permettono di sentirsi protetto. Spesso si tratta di altre persone o di protezioni materiali. La chiamata di Dio, però, non acconsente a questo e così “chi è chiamato […] non trova riparo né nel padre né nella madre, né nella moglie né nei figli, né nel popolo né nella storia. Cristo vuol mettere l’uomo nella considerazione di solitudine, perché questi deve poter vedere soltanto colui che l’ha chiamato”[43].

            La chiamata alla sequela di Cristo si trova ad irrompere nella vita di una persona comportando inevitabilmente una rottura da tutti i legami sentimentali o materiali che il discepolo aveva intessuto fino ad allora. Rottura esigita dalla sequela stessa e provocata da Cristo stesso nel momento della chiamata. Come afferma lo stesso Bonhoeffer, “Cristo ha svincolato l’uomo dalla sua immediatezza nei confronti del mondo, e lo ha posto nell’immediatezza con se stesso. Nessun uomo può seguire Cristo, senza riconoscere ed accettare la rottura già compiuta. Non è l’arbitrio di una vita, guidata dal proprio volere, ma Cristo stesso a guidare il discepolo in tale rottura”[44]. Grazie a questa rottura il discepolo riesce a riconoscere nel Cristo il Figlio di Dio e quindi il Mediatore della salvezza. Non siamo dinanzi a degli ideali da soppesare, bensì di fronte ad un fatto compiuto da riconoscere. Se questo non avviene, l’immediatezza con il mondo non ci permetterebbe di esercitare la nostra fede ed ubbidienza a Cristo[45]. È per questo motivo che Bonhoeffer ci esorta a rifuggire ed odiare l’immediatezza, a tal punto che “ovunque una comunità ci ostacoli nel presentarci come singoli davanti a Cristo, ovunque una comunità pretenda l’immediatezza, la dobbiamo odiare per amore di Cristo; infatti ogni immediatezza è, in modo più o meno cosciente, odio contro Cristo il mediatore, anche e specialmente se vuole presentarsi come cristiana”[46].

            In effetti, l’obbedienza della fede (sequela) a cui ci chiama Cristo ci mette di fronte a due grandi verità: primo, essa può avvenire solo se riconosciamo un mediatore tra Dio e l’uomo, altrimenti non abbiamo altro che una “scelta autonoma di una via che può essere anche una via ideale, che può forse comportare il martirio, ma è senza promessa”[47]; secondo, la chiamata alla sequela ci rende discepoli e pretende da noi lo sforzo di rompere con i nostri rapporti con il mondo e con relazioni troppo vincolanti, come quelle familiari, per rimanere in solitudine con Cristo. Rientra sicuramente di riflesso in questo discorso l’esperienza di massa del nazionalsocialismo fatta da Bonhoeffer, esperienze in cui il singolo non era più persona ma parte di una massa che ti guida e ti trascina. Solo la comunione con Cristo ci può salvare da ciò, ricreando l’essenza del discepolo e delle sue relazioni.

            Ma vi è sempre posta una condizione: la scelta della solitudine. Cristo si riferisce sempre a persone che sono rimaste singole per amor suo, che hanno lasciato tutto per lui quando sono state chiamate da lui stesso. Quindi, “ognuno si pone da solo nella sequela, ma nessuno vi rimane da solo. A colui che osa diventare un singolo fidando sulla parola, è data in dono la comunione della comunità. Egli si ritrova in una fraternità visibile, che lo ripaga cento volte di ciò che ha perduto”[48].

            L’essere del discepolo, di colui che è chiamato alla sequela, trova spiegazione nella risposta alla domanda su chi è Cristo. Era questa la questione su cui si concentrava il corso di cristologia[49] tenuto dal nostro Teologo all’università di Berlino nel semestre estivo del 1933. Le esperienze che la vita gli ha offerto e gli offrirà in futuro lo hanno portato sempre più a rispondere che Cristo è un esserci per gli altri. Al discepolo che si mette alla sequela Christi la vita e il suo essere viene completamente rovesciata, da una vita per sé ad una per gli altri[50]. Ma come si può attuare una vita per gli altri, come possiamo superare l’abisso che ci separa da un altro uomo? Se pensiamo di ovviare alla diversità e all’estraneità dell’altro con i mezzi che ci propongono le più svariate psicologie ci troveremo sulla cattiva strada, in quanto solo Cristo è la via e l’intercessione il mezzo più promettente per raggiungere l’altro[51]. L’unico modo per riuscire nella sequela rimane il seguire fedelmente i passi di Cristo che responsabilmente ci precede sulla via da lui stesso tracciataci. Come Bonhoeffer sottolinea, “a conferma della serietà della sua chiamata alla sequela e al tempo stesso dell’impossibilità di porsi nella sequela contando solo sulla forza umana, e della promessa che essi sarebbero stati dei suoi nella persecuzione, ora Gesù cammina avanti a loro verso Gerusalemme e verso la croce, mentre coloro che lo seguono sono pieni di stupore e paura di questa strada su cui egli li chiama”[52].

 

2.4 Sequela come partecipazione alla sofferenza di Cristo

 

            In questo paragrafo affrontiamo una delle tematiche assai care a Bonhoeffer, il rapporto tra la sequela e la croce. Gesù viene visto come “il Cristo riprovato nella passione”[53] e la croce viene da lui ritenuta il “patire con Cristo”[54]. In questo patire con Cristo possiamo riscoprire l’autentico significato della croce stessa, che non può essere legata al solo soffrire[55]. Quello che tocca profondamente il nostro Teologo è il fatto che Cristo non solo soffrì ma fu anche un riprovato, un respinto e rifiutato dagli uomini nel patire. Mentre stava soffrendo Gesù non riuscì a suscitare la grande ammirazione dei presenti, ma, bensì, lo sdegno e la riprovazione:

 

“soffrire ed essere riprovati non sono la stessa cosa. Anche nella passione Gesù sarebbe potuto infatti restare il Cristo acclamato. La passione sarebbe potuta ancora essere oggetto di tutta la compassione e l’ammirazione del mondo. Nel suo aspetto tragico, la passione avrebbe potuto conservare un proprio specifico valore, un proprio onore, una propria dignità. Ma Gesù è il Cristo riprovato nella passione. L’essere riprovato toglie alla passione ogni dignità e onore”[56].

 

La sequela di Cristo richiede il personale rinnegamento, che porta ad un legame sempre più stretto con Gesù stesso. Come viene evidenziato molto bene dal nostro Teologo,

 

“il rinnegamento di sé no può mai risolversi in una quantità, sia pur nutrita, di singoli atti di automortificazione o di esercizio ascetico; non significa suicidio, perché anche questo può essere un modo in cui si impone l’arbitrio umano. Rinnegare se stessi significa conoscere solo Cristo, non più se stessi, vedere ormai solo lui che ci precede, non il cammino per noi troppo difficile. Ancora una volta rinnegamento di sé significa solo: Egli ti precede, tienti stretto a lui”[57].

 

Anche questo rientra nel concetto della grazia e porta come frutto la pace interiore e la gioia. Infatti poco dopo Bonhoeffer prosegue evidenziando che

 

“se […] ci siamo del tutto dimenticati di noi e non conosciamo più noi stessi, solo a questo punto possiamo essere disposti a portare la croce per amor suo. Se ormai conosciamo soltanto lui, allora non conosciamo più nemmeno le sofferenze della nostra croce, e vediamo solo lui. Se Gesù non ci avesse premurosamente preparato a questa parola, non saremmo in grado di sopportarla. Ma in questo modo ci ha messo in condizione di cogliere come grazia anche questa dura parola. Essa giunge a noi nella gioia della sequela e ci rafforza in essa”[58].

 

 Possiamo allora saper portare la croce per amore di Cristo solo se ci poniamo nella condizione dell’esserci totalmente dimenticati di noi stessi, a tal punto che nella sequela non anteponiamo a Cristo nemmeno le sofferenze che scaturiscono dalla nostra croce. Questo, logicamente, non può essere compreso se ci poniamo nella logica di una grazia a buon mercato, che tende ad annacquare il nostro essere cristiani, portando alla identificazione dell’esistenza naturale con quella cristiana. Ogni chiamata cristiana è in fin dei conti chiamata alla croce e alla morte, fin dal battesimo, infatti, siamo chiamati a lottare con Cristo contro il peccato. Scrive a questo punto Bonhoeffer che

 

“la prima passione in nome di Cristo, che ognuno deve provare, è la chiamata che ci chiama fuori dai vincoli di questo mondo. È la morte del vecchio uomo nell’incontro con Gesù Cristo. Chi si pone nella sequela, si consegna alla morte di Gesù, fonda la sua vita sulla morte, ed è così fin dalle prime battute; la croce non è la fine terribile di una vita felice e devota, ma sta all’inizio della comunione con Gesù. Ogni chiamata di Cristo porta alla morte […]. La chiamata alla sequela di Gesù […] è morte e vita”[59].

 

A ragione l’amico Bethge, rileggendo questi passi dell’opera bonhoefferiana, afferma che “con l’interpretazione della Parola debole noi tocchiamo ciò che di più profondo Bonhoeffer ha saputo esprimere: la sequela come partecipazione alla sofferenza vicaria di Cristo, come comunanza con il Crocifisso. Qui si sente attraverso le frasi la ricchezza di una esperienza propria”[60]. Esperienza che verrà sempre più arricchita durante gli anni della prigionia, quando, in una lettera datata 18 luglio 1944, il nostro Teologo ribadirà con forza che la grande differenza tra i cristiani e i pagani consiste proprio nello stare vicino a Dio nella sofferenza. Il cristiano è chiamato a testimoniare questo in un mondo senza Dio. E allora anche l’uomo deve vivere “mondanamente”, prendendo così parte alla sofferenza di Dio. Con questo Bonhoeffer intendeva sottolineare come l’uomo debba liberarsi nella sua sequela dai legami religiosi spesso soli opprimenti, dato che “essere cristiano non significa essere religioso in un determinato modo, fare qualcosa di se stessi (un peccatore, un penitente o un santo) in base ad una certa metodica, ma significa essere uomini; Cristo crea in noi non un tipo d’uomo, ma un uomo. Non è l’atto religioso a fare il cristiano, ma il prender parte alla sofferenza di Dio nella vita del mondo”[61]. In questo è determinante la visione bonhoefferiana di Dio come Colui che porta e ci chiama i discepoli a portare i pesi e le sofferenze gli uni degli altri. In questo, soprattutto, si evidenzia il nostro essere cristiani, poiché

 

“come Cristo salvaguarda la comunione con il Padre nel portare, così il portare di chi è alla sua sequela è comunione con Cristo. L’uomo può anche scuotersi di dosso il peso impostogli. Ma in tal modo non si libera affatto del peso, bensì ne deve portare uno molto più pesante, insopportabile. Porta il giogo di se stesso, che si è scelto da solo […]. Chi si pone nella sequela trova, quando si assume la propria croce, Gesù stesso”[62].

 

Di fronte alla croce Bonhoeffer ci richiama a non provare sentimenti di vergogna o di scandalo o di rifiuto ma ‘semplicemente’ di prenderla sopra di noi. Ognuno possiede la sua croce, non deve essere inventata o ricercata da noi, ma ci viene donata da Cristo stesso e a noi è richiesto di portarla, ognuno secondo la misura che è stata scelta per lui: ad alcuni può venir richiesto la grazia del martirio, perché sono degni di grandi sofferenze, mentre ad altri Cristo non permette che siano tentati al di sopra delle loro capacità. Ma per tutti vi è la partecipazione all’unica sua croce[63].
 
Conclusione critica


            Sicuramente non possiamo tacere che la lettura dell’opera Sequela di Bonhoeffer non risvegli nel lettore la presa di coscienza riguardante l’importanza di prendere sul serio una Parola sì debole ma saldamente importante per il buon esito della nostra vita. Una Parola che oltre ad essere predicata, va soprattutto vissuto in una sequela, che è chiamata all’obbedienza della fede, ad una vita responsabile e che si fa partecipe della sofferenza di Cristo.

            Bonhoeffer ci indica anche l’importanza di puntare tutto su Cristo, su Colui che è il solo nostro fondamento e causa della nostra sequela, ‘l’uomo per gli altri’, come lui stesso amava definirlo.

            Lo studio ci pone dinanzi però ad una altra grande linea direttrice, che consiste nel profondo connubio tra la vita, l’esperienza e la teologia. Bonhoeffer ha saputo, infatti, fare della sua vita una theologia, ossia una contemplazione del mistero di Dio, uscendo dal mero ambito accademico, per sperimentare Dio agente nel mondo. Dalla lettura di Sequela noi percepiamo le note di una teologia vissuta, di una teologia, cioè, in cui il legame con la biografia del Teologo diviene un carattere indispensabile. Bonhoeffer abbandonerà l’insegnamento accademico nel 1933, quando le facoltà teologiche vennero sottoposte al controllo nazista, e da quel momento il fare teologia divenne per lui una necessità personale. L’opera che abbiamo esaminato risale al 1935 e già si percepisce come in essa Bonhoeffer ponga non solamente lo sforzo intellettivo di uno studioso, ma ancor più lo sforzo di un cristiano che si pone dietro alla chiamata di Cristo. Il nostro Teologo non vuole solamente comprendere Cristo, ma vuole anche vivere Cristo seguendolo nelle sue stesse scelte evangeliche.

            L’esperienza mistico – contemplativa di Bonhoeffer si avvale soprattutto di una lettura radicale del Vangelo di Cristo, una lettura potremmo dire sine glossa, che porta il nostro Teologo ad esigere una sequela radicale senza sconti, fortemente marchiata da un sano timor di Dio, che lo porta ad affermare il bisogno di una obbedienza radicale ai comandamenti di Cristo. Come lui stesso afferma,

 

“non sono gli uomini che si devono temere. Essi non possono far gran male ai discepoli di Gesù. Il loro potere finisce con la morte corporale. E i discepoli devono vincere il timore della morte grazie al timore di Dio. Non è il giudizio degli uomini, ma quello di Dio, non la rovina del corpo, ma la rovina eterna del corpo e dell’anima a costituire un pericolo per il discepolo. Chi teme ancora gli uomini, non teme Dio. Chi teme Dio, non teme più gli uomini […]. Siamo nelle mani di Dio. Perciò «non temete»!”[64].

 

            Nell’esperienza mistica di Bonhoeffer non si offre un minimo spazio, quindi, ad attenuare minimamente i comandi radicali di Gesù, che devono essere osservati non solo in maniera interiore, ma anche esteriore. È sotto questa ottica che lui inquadra anche il comandamento alla povertà: Gesù richiede una povertà reale e concreta o un semplice essere distaccati dalle cose materiali di questo mondo. L’interpretazione semplice e letterale delle parole di Cristo non permettono facili e comode scappatoie. Come il nostro Teologo sottolinea,

 

“la concreta chiamata di Gesù e la semplice ubbidienza hanno un loro senso irrevocabile. Con esse Gesù chiama nella situazione concreta, in cui è possibile credere in lui; chiama in modo tanto concreto e appunto così vuole essere interpretato, perché egli sa che l’uomo diventa libero per il credere solo nella concreta ubbidienza. Laddove la semplice ubbidienza viene in linea di principio eliminata, la grazia a caro prezzo della chiamata di Gesù si trasforma ancora una volta nella grazia a buon mercato dell’autogiustificazione”[65].

 

            Bonhoeffer decise così nella sua vita di accettare la sfida di Cristo, di tagliare i ponti con il mondo per entrare nella situazione di insicurezza, nella quale Gesù ti fa conoscere ciò che lui vuole da te e ciò che ti offre. Avendo dinanzi agli occhi le immagini evangeliche della chiamata di Levi e di quella di Pietro, il nostro Teologo decide di lasciare anche lui il suo ‘dazio’ e le sue ‘reti’, per non restare più in silenzio in attesa, ma per camminare con Cristo nella sequela. E con queste parole egli descrive la sua ‘vocazione’:

 

“[…] ora egli era presente, ora la sua chiamata era risuonata. Ora credere non significava più restare silenziosi in attesa, ma camminare con lui nella sequela. Ora la sua chiamata alla sequela scioglieva ogni vincolo, per amore dell’unico vincolo con Gesù Cristo. Ora tutti i ponti dovevano essere tagliati, si doveva fare il passo nell’infinita insicurezza, per conoscere ciò che Gesù esige e ciò che dà […]. La via verso la fede passa per l’ubbidienza alla chiamata di Cristo. Si richiede questo passo, altrimenti la chiamata di Gesù cade nel vuoto, e, senza questo passo cui Gesù chiama, ogni presunta sequela si trasforma in autentico fanatismo”[66].

 

            Bonhoeffer dimostra in questo modo di essersi fidato della Parola chiamante di Gesù e di aver trovato in essa la ‘roccia’ su cui fondare la sua vita e i suoi progetti. La teologia del nostro Autore, come traspare da questo testo che abbiamo esaminato, ci porta ad un confidare in Dio che è essenzialmente fiducia ed affidamento nella sua parola di salvezza, più che in altre cose. Come lui stesso sottolinea quando Cristo chiama

 

“si richiede solo una cosa, abbandonarsi alla parola di Gesù Cristo, considerarla come un terreno più solido di qualsiasi altra sicurezza del mondo. Le potenze che volevano interporsi fra la parola di Gesù e l’ubbidienza erano allora grandi quanto oggi. Vi si opponeva la ragione; la coscienza, la responsabilità, la pietà religiosa, la stessa legge e il principio scritturistico si frapponevano […]. Ma la chiamata di Gesù ha infranto tutto ciò, procurandosi ubbidienza. Era la stessa parola di Dio. Quello che veniva richiesto era la semplice ubbidienza”[67].

 

            Bonohoeffer ci pone dinanzi una sapienza biblica, in grado di motivare il nostro agire e le nostre scelte come ha fatto con lui, la sapienza di una Parola capace ancor di volersi incarnare nella nostra vita per farci giungere alla comunione con il Crocefisso, come perno centrale dell’esperienza di fede che il nostro Teologo portava con sé. Gesù ci chiama a deporre il nostro giogo, il nostro peso per prendere il suo, che è soave e più leggero. Il peso di Cristo è la croce ed il nostro compito consiste proprio nel porsi sotto questa croce che “non equivale a miseria e disperazione, ma è ristoro e pace per l’anima, è la gioia più alta. Qui non siamo più sottoposti a leggi e pesi imposti da noi stessi, ma al giogo di colui che ci conosce e che procede con noi sotto lo stesso giogo. Sotto il suo giogo siamo certi della sua prossimità e comunione. Chi si pone nella sequela trova, quando si assume la propria croce, Gesù stesso”[68].

            Concludendo questa nostra breve analisi possiamo affermare con certezza che in Bonhoeffer la teologia e l’esperienza diventano un tutt’uno, proprio grazie a questa sua oboedentia fidei nata ed alimentata dall’ascolto fiducioso ed attento della Parola, che è divenuta per lui sempre più nella sua vita sequela di Cristo fin sotto alla sua stessa croce. Il frutto di quanto il nostro Teologo è andato dicendo in queste pagine della sua opera lo possiamo comprendere ed osservare circa dieci anni dopo, quando dal campo di sterminio, in una lettera datata 18 luglio 1944, scriverà: “non è l’atto religioso a fare il cristiano, ma il prender parte alla sofferenza di Dio nella vita del mondo. Questa è la μετανοια: non pensare anzitutto alle proprie tribolazioni, ai propri problemi, ai propri peccati, alle proprie angosce, ma lasciarsi trascinare con Gesù Cristo sulla sua strada”[69].




[1] D. Bonhoeffer, Sequela, Queriniana, Brescia 2004, 50 – 51.
[2] N. Ciola, «La centralità di Gesù Cristo per la morale. Attualità dell’ Etica di Dietrich Bonhoeffer sessant’anni dopo. Prolusione dell’anno accademico 2004 – 2005 dell’Accademia Alfonsiana», in Studia Moralia 43 (2005) 23.
[3] K. Barth, Kirchliche Dogmatik, IV/2, riportata in citazione da E. Bethge, Dietrich Bonhoeffer: teologo cristiano contemporaneo. Una biografia, Queriniana, Brescia 20043, 469.
[4] Cfr. E. Bethge, Dietrich Bonhoeffer, op. cit., 468.
[5] Cfr. D. Bonhoeffer, Sequela, op. cit., 20 – 21.
[6] Ibidem, 22.
[7] Cfr. Ibidem, 23.
[8] Id., Sanctorum communio. Una ricerca dogmatica sulla sociologia della Chiesa, Queriniana, Brescia 1994.
[9] Id., Atto ed essere. Filosofia trascendentale ed ontologia nella teologia sistematica, Queriniana, Brescia 1985.
[10] Id., Vita comune, Queriniana, Brescia 2003.
[11] Cfr. E. Bethge, Leggere  Bonhoeffer, Queriniana, Brescia 2006, 5.
[12] L’ 11 settembre 1934 Bonhoeffer scrisse a Erwin Sutze: “Sono di nuovo nella nostra comunità [a Londra] e mi tormento nel tentativo di decidere se devo rientrare in Germania, per dirigere un seminario di predicazione che si deve creare, se devo rimanere qui o se vado in India. All’università non credo più, anzi non ci ho mai creduto davvero, con Suo grande scandalo. Tutta la specializzazione della nuova generazione teologica oggi spetterebbe a scuole di carattere ecclesiastico – conventuale, in cui vengano presi sul serio la vera dottrina, il Discorso della montagna e il culto: nessuno dei tre lo è all’università e sarebbe impossibile che fosse diverso, date le circostanze. Inoltre si dovrà alla fine tagliar corto con la ben motivata riservatezza teologica nei confronti dello Stato; tutto questo non è che paura” (D. Bonhoeffer, DBW, 13, 204ss, riportata in H. Mottu, Dietrich Bonhoeffer, Borla, Roma 2006, 36 – 37).
[13] Per un maggior approfondimento si rimanda a E. Bethge, Dietrich Bonhoeffer…, op. cit., 477 – 488.
[14] “Il mattino non appartiene agli individui ognuno per proprio conto, ma alla comunità del Dio trinitario, alla comunione dei cristiani che vivono insieme, alla fraternità […]. Nella meditazione comune  del mattino sono compresi la lettura della Scrittura, il canto e la preghiera” (D. Bonhoeffer, Vita comune, op. cit., 33. 35). Un posto di rilievo era riservato alla preghiera salmodia, dato che “il salterio è il libro di preghiera di Gesù Cristo nel senso più rigoroso. Egli ha pregato il salterio, e questo è divenuto la sua preghiera fino alla fine dei tempi” (Ibidem, 36). Bonhoeffer raccomandava l’esercizio di questa modalità di preghiera per tre motivi: a) ci aiuta a comprendere cosa sia il pregare affidandosi alla Parola; b) ci aiuta a comprendere cosa deve essere chiesto nella preghiera; c) ci aiuta a comprendere che la preghiera avviene nella comunione e che non deve fossilizzarsi negli interessi personali ed egoistici (Ibidem, 37 – 39).
[15] D. Bonhoeffer, Lettera a K. Barth del 19 settembre 1936, GS II, 284ss, riportata in E. Bethge, Dietrich Bonhoeffer…, op. cit., 481.
[16] E. Bethge, Dietrich Bonhoeffer…, op. cit., 478.
[17] D. Bonhoeffer, Lettera a K. Friedrich Bonhoeffer del 14 gennaio 1935, GS III, 25, riportata in E. Bethge, Dietrich Bonhoeffer…, op. cit., 478.
[18] Cfr. E. Bethge, Leggere  Bonhoeffer, op. cit.,, 79 - 80.
[19] Cfr. Ibidem, 80 – 81. Bonhoeffer mise in questo suo progetto tutte le energie necessarie e non andarono certamente sprecate dato che “al tempo di Finkenwalde, grazie ad esso, i giovani parroci furono resi straordinariamente stabili di fronte alla crisi della loro chiesa e questo conservò l’autonomia del loro essere cristiani” (Ibidem, 82). Dopo il 1945, invece, i vari tentativi di ripresentare l’esperienza del Bruderhaus non riuscirono rispetto al tradizionale lavoro pastorale in parrocchia (cfr. Ibidem, 81).
[20] D. Bonhoeffer, Vita comune, op. cit., 21.
[21] “Sarà Gesù Cristo a dirmi, contro tutte le mie opinioni e convinzioni, come si manifesti il vero amore per il fratello. Perciò l’amore spirituale è legato solo alla Parola di Gesù Cristo […]. Tra me e l’altro c’è Cristo, perciò non posso aspirare ad una comunione immediata con l’altro” (Ibidem, 28).
[22] “Una comunità cristiana vive della reciproca intercessione dei suoi membri, altrimenti è destinata al fallimento. Se prego per un fratello, non posso più odiarlo o condannarlo, qualsiasi problema possa procurarmi. Il suo volto, forse dapprima estraneo ed insopportabile, nell’intercessione si trasforma nel volto del fratello, per amore del quale Cristo è morto, il volto del peccatore che ha ricevuto misericordia” (Id., Vita comune, op. cit., 66 - 67).
[23] Cfr. Ibidem.
[24] Ibidem, 67.
[25] Sono molte le lettere dal carcere in cui Bonhoeffer disquisisce sulla Chiesa, su Cristo e sul rapporto con un mondo divenuto adulto. È interessante notare come tra gli appunti dell’agosto 1944 ve ne sia uno intitolato Progetto per uno studio, in cui il nostro Teologo afferma di avere in progetto la stesura di uno scritto di non più di 100 pagine in tre capitoli, riguardanti un bilancio del cristianesimo, la fede cristiana e le varie conseguenze. In quest’ultimo capitolo lui scrive della Chiesa, sottolineando come “la Chiesa è Chiesa solo se esiste per gli altri. Per cominciare, essa deve fare dono di tutti i suoi possessi a coloro che si trovano nel bisogno. I pastori devono vivere esclusivamente delle libere offerte della comunità, ed eventualmente esercitare una professione mondana. La Chiesa deve partecipare agli impegni mondani della vita della comunità umana, non dominando, ma aiutando e servendo. Essa deve dire agli uomini di tutte le professioni che cosa sia una vita con Cristo, che cosa significhi «esserci per altri». In modo particolare, la nostra Chiesa dovrà opporsi ai vizi dell’hybris, dell’adorazione della forza, dell’invidia e dell’illusionismo, quali radici di tutti i mali. Essa dovrà parlare di misura, autenticità, fiducia, fedeltà, costanza, pazienza, disciplina, umiltà, sobrietà, modestia. Essa non dovrà sottovalutare l’importanza dell’ «esempio» umano” (Id., «Progetto per uno studio», in Id., Resistenza e resa. Lettere e scritti dal carcere, San Paolo, Cinisello Balsamo 1988, 463 – 464).
[26] Id., Sequela, op. cit., 177.
[27] Ibidem.
[28] Ibidem, 32 – 33.
[29] Utilizzo l’espressione riportata dall’amico Bethge in E. Bethge, Dietrich Bonhoeffer, op. cit., 475.
[30] D. Bonhoeffer, Lettera ad un conoscente del 27 gennaio 1936, GS III, 25, riportata in E. Bethge, Dietrich Bonhoeffer…, op. cit., 204.
[31] D. Bonhoeffer, Sequela, op. cit., 27 – 29.
[32] Ibidem, 29.
[33] Ibidem, 30.
[34] Ibidem, 29.
[35] N. Ciola, La crisi del teocentrismo trinitario nel novecento teologico. Il tema nel contesto emblematico della secolarizzazione, Dehoniane, Roma 1993, 194.
[36] D. Bonhoeffer, Sequela, op. cit., 34.
[37] “A buon mercato si proclamava l’annuncio, si conferivano i sacramenti, si battezzava, si dava la confermazione, si assolveva un intero popolo, senza che fossero poste domande o condizioni, per amore umano si consegnavano le realtà sante a chi se ne faceva beffe e agli increduli, si dispensavano all’infinito torrenti di grazia, ma sempre più di rado si sentiva la chiamata al rigore della sequela” (Ibidem, 38).
[38] Ibidem, 39.
[39] Ibidem, 34.
[40] Ibidem, 37.
[41] Ibidem, 41.
[42] Ibidem, 85.
[43] Ibidem.
[44] Ibidem, 86.
[45] Cfr. Ibidem, 87.
[46] Ibidem, 88.
[47] Ibidem, 46.
[48] Ibidem, 92.
[49] Cfr. Id., Cristologia, Queriniana, Brescia 20013.
[50] Cfr. C. Scilironi, «Dietrich Bonhoeffer (1906 – 1945)», in Credere Oggi 2 (2005) 89.
[51] Cfr. D. Bonhoeffer, Sequela, op. cit., 89.
[52] Ibidem, 93.
[53] Ibidem, 76.
[54] Ibidem, 78.
[55] “La croce non è una avversità o un duro destino, ma è quel patire che ci deriva solo a causa del nostro vincolo con Gesù Cristo. Non è sofferenza casuale, ma necessaria. La croce non è sofferenza legata all’esistenza naturale, ma all’esser cristiani. La croce non è assolutamente soltanto patire, ma è patire e insieme l’esser riprovati e, anche qui, a rigore, esser riprovati a causa di Gesù Cristo, non per qualsiasi altro comportamento o confessione di fede” (Ibidem).
[56] Ibidem, 75 – 76.
[57] Ibidem, 77.
[58] Ibidem, 77 – 78.
[59] Ibidem, 79.
[60] E. Bethge, Dietrich Bonhoeffer, op. cit., 472.
[61] D. Bohnoeffer., «Lettera 18 luglio 1944», in Id., Resistenza e resa, op. cit., 441.
[62] Id., Sequela, op. cit., 82.
[63] Cfr. Ibidem, 78 – 79.
[64] Ibidem, 199 – 200.
[65] Ibidem, 71 – 72.
[66] Ibidem, 49.
[67] Ibidem, 67.
[68] Ibidem, 82.
[69] Id., «Lettera 18 luglio 1944», in Id., Resistenza e resa, op. cit., 441.