sabato 28 febbraio 2015

Fede e ragione nel teologo e filosofo Wolfhart Pannenberg


Il rapporto tra la fede e la ragione, tra la teologia e la scienza naturale, si è mostrato spesso come caratterizzato da grandi conflittualità nel corso della storia dell’umanità. Nelle opere di Pannenberg si nota invece il forte desiderio di un rapporto armonico tra di essi in vista dell’approfondimento e della ricerca della verità. Come sottolinea Neuhaus, il nostro Teologo non vede nella fede l’unico ingrediente che assommato alla ragione possa dare quel che non so che di certezza che tutti cerchiamo, né può essere un “alt” imposto alla ragione[1]. Riprendendo le parole di Lutero, il nostro Teologo, durante una conferenza tenuta nel 1965 alla facoltà teologica di Malburg e l’anno successivo a quella di Hamburg, ha evidenziato come la ragione assuma un ruolo rilevante non solo per la comprensione della sfera naturale e terrena, ma anche in maniera teologica, se illuminata dalla fede e dall’azione dello Spiriti Santo[2]. Nel dialogo teologico tra Sergio Rondinara e Wolfhart Pannenberg, tenuto per l’area di ricerca SEFIR, il nostro Teologo veniva presentato in questo modo:

 

fra i grandi autori che la teologia del Novecento ha espresso, Wolfhart Pannenberg è certamente colui che più di ogni altro ha colto l’importanza che hanno per la teologia i risultati acquisiti dalle scienze della natura. Questo non meraviglia se si tiene presente  il percorso intellettuale del teologo tedesco. Percorso che si caratterizza per un confronto a trecentosessanta gradi con la razionalità moderna al punto da essere identificato come il teologo della modernità, come l’autore nel quale la concezione storica della realtà consente di stabilire un rapporto rinnovato tra ragione moderna e fede cristiana, e la cui ampia produzione possa essere considerata una teologia della ragione[3].

 

Il modello dialogico, che ha caratterizzato la lunga ricerca intellettuale del nostro Teologo, ha saputo superare sia il conflitto tra ragione e fede, tipico del fondamentalismo religioso e del positivismo scientifico, sia uno stato di reciproca indifferenza, nel quale scienziati e teologi non si sono mostrati affatto complici nella ricerca della verità e del sapere bensì rintanati ognuno nel proprio campo di interesse. Sottolinea a questo proposito Rondinara che

 

la distinzione dei campi di competenza non significa affatto divisione, non-comunicazione, in quanto se è vero che gli oggetti formali sono diversi è anche vero che l’oggetto materiale, la realtà indagata, è la stessa. Pertanto le varie forme di conoscenza, se sono autonome per quanto riguarda il metodo d’indagine – legato all’oggetto formale -, sono però anche complementari data l’unicità della realtà che viene studiata da punti di vista diversi. In questo modo ogni disciplina rispetta la specificità dell’altra e tiene presente ciò che è loro comune[4].


1. Il sapere si fonda sulla fede?


Dinanzi ad una visione filosofica della fede come rischio, Pannenberg propone la ricerca della convinzione razionale del fondamento della fede per non perdere la sua essenza o trasformarla in una “cieca incredulità”[5]. Il problema che il nostro Teologo sente più urgente, non è tanto incentrato in una visione della fede come dono di Dio, quanto nel rapporto tra fede e conoscenza, dato che la fede è posta in relazione con una conoscenza dei fatti che portano con sé la rivelazione di Dio in Gesù Cristo[6]. A questa conoscenza, secondo alcuni teologi tra cui Althaus, si potrebbe giungere solamente attraverso la fede. In questo modo il sapere risulterebbe fondato sulla fede stessa. Per Pannenberg, invece, le cose non stanno proprio così.  La scelta di credere non può divenire il fondamento di quello che è il contenuto stesso della fede. Si rischierebbe, secondo il nostro Teologo, di rifiutare «una fede fondata sulla verità extra me, per affermare invece un’autofondazione della fede stessa»[7]. In questo modo si andrebbe snaturando il concetto di fede. Come risulta dalla Sacra Scrittura, è l’evento del Cristo risorto che fonda la fede dei discepoli e degli apostoli.

Nella conoscenza teologica, come in quella scientifica, è bene quindi procedere per ipotesi da controllare e da sottoporre a verifica[8]. Nel saggio Epistemologia e teologia, in particolar modo nella seconda parte concernente proprio la teologia come scienza, Pannenberg rimarca che

 

la questione dell’autorità divina della Bibbia e della dottrina cristiana non si può tuttavia considerare decisa a priori. Essa è piuttosto controversa e nella teologia la si deve trattare come problema. La teologia non può dunque oggi esimersi dalla richiesta d’un controllo delle sue asserzioni sulla base di altri criteri, che non siano quelli di una tradizione dottrinale autoritaria […]. La richiesta della controllabilità è implicita nella struttura logica delle asserzioni. Ogni espressione intesa come asserzione è perciò esposta al controllo sul fatto inteso […]. Ogni asserzione ha dunque proprio in quanto tale la struttura logica dell’ipotesi[9].

 

Posto così il problema, esso diviene veramente serio: le asserzioni che riguardano Dio non possono essere controllate intorno al loro oggetto, dato che la realtà di Dio è discussa e sarebbe in contraddizione con la sua stessa divinità la possibilità da parte dell’uomo di verificare la sua essenza e quindi di possedere ciò dalla quale ogni realtà riceve la sua determinazione. Se non vi può, quindi, essere un controllo diretto delle asserzioni teologiche riguardanti Dio, ciò non toglie però la possibilità di esaminare le implicazioni di queste medesime asserzioni[10]. Questo procedimento è lo stesso impiegato, d’altronde, per alcune leggi delle scienze naturali o per alcune proposizioni inerenti le scienze storiche.

La fede si fonda sull’evento e sulla conoscenza che abbiamo di esso. Esaminando la dinamica del credere dell’uomo odierno, Pannenberg sottolinea come l’atto di affidamento concernente la fede non si può «separare dalla condizione che chi si affida ritenga per vero ciò su cui si fonda la sua fiducia e a cui essa si dirige. Nella teologia più recente si è spesso posto l’atto personale dell’affidarsi in antitesi con un semplice “ritener per vero”»[11].

Non vi è fiducia senza verità, non vi è fiducia senza l’aver precedentemente preso in considerazione l’attendibilità del contenuto e dell’oggetto della nostra fede. Quest’ultima non consiste né nel puro prender cognizione né nell’accettazione di notizie, ma soprattutto nell’affidarsi incondizionatamente, includendo quel “ritener per vero”, che rende forte il nostro affidamento. Per questo motivo la fede è sempre legata all’oggetto che porta con sé come contenuto del credere. Perciò possiamo concludere con Barbaglio che «Pannenberg vuol far valere l’esigenza di un vaglio critico della realtà alla quale si aderisce nella fede. Rifugge decisamente da un credere che sia un cieco salto nel buio. Il carattere incondizionato dell’affidarsi a Dio e a Cristo posto da una ricerca rigorosa del motivo obiettivo su cui poggia l’adesione personale del credente»[12]. La ragione non minaccia la fede, poiché il senso del mistero è consono con la nostra ragione. Come evidenzia Neuhaus, presentando il profilo del suo amico Pannenberg,

 

la teologia della ragione non rappresenta una minaccia per la pietà cristiana. Essere ragionevoli significa essere aperti a quegli aspetti della realtà che non sono conformi ai nostri schemi concettuali. Una razionalità adeguata prende in considerazione il non razionale e anche ciò che si presenta come irrazionale […]. Un uomo ragionevole, dice Pannenberg, sta in atteggiamento di rispettoso timore davanti al mistero dell’esistenza, davanti alla forza del futuro che con la sua venuta risolverà le contraddizioni dell’esperienza. Il principio della sapienza è in verità il timore di Dio[13].

 

Comunque, l’ausilio della ragione insieme all’analisi storica possono assicurare solamente un alto gradi di probabilità, poiché «non c’è nessuna certezza assoluta, nessuna prova incontrovertibile. Solo il futuro confermerà il messaggio del Regno mediante la venuta del Regno»[14]. In questo si mostra essenziale il contributo offerto dal lavoro teologico: nel preoccuparsi di rivestire la fede di credibilità[15]. Il contenuto della fede rimarrà, allo stesso tempo, esposto a dubbi, per cui quanto verrà tramandato sarà sempre sottoposto ad una plausibilità razionale condizionata. È questa la caratteristica della chiesa peregrinante che cammina nella verità in attesa del compimento finale sotto il segno della provvisorietà anche della ricerca teologica. Commentando l’articolo di fede sullo Spirito Santo, Pannenberg giudica errato e fuori luogo il tentativo di richiamarsi alla terza persona della Trinità per assicurare autorità e certezza assoluta alla propria ricerca teologica, generando autoritarismi e fanatismi[16]. Lo Spirito Santo non può divenire un semplice «tappabuchi per ovviare alle debolezze della logica umana. Lo Spirito non è una “copertura” per il rinnegamento della ragione, né un travestimento dell’irrazionalità della soggettività religiosa»[17]. Bensì lo Spirito opera attraverso la ragione e la fede, si muove trovando forza nella ragionevolezza del messaggio cristiano nella prospettiva dell’abbandono fiduciale del credente all’oggetto stesso della fede che è Dio.


2. Fides et ratio

 
L’ostilità tra la fede e la ragione si è acuita soprattutto in epoca moderna, quando è iniziato a decadere il principio di autorità della Scrittura e della tradizione a cui si era appellato il messaggio cristiano fino ad allora[18]. Le verità di fede venivano ritenute collegate ai fatti storici e, secondo il pensiero degli antichi, il fatto storico non può essere oggetto della scienza. Quest’ultima si occupa delle leggi universali, mentre i singoli fatti appartengono alla sfera del contingente e del particolare. È per questo motivo che Agostino esortava nel De vera religione «quae uera esse perspexeris tene et ecclesiae catholicae tribune, quae falsa respue et mihi qui homo sum ignosce, quae dubia crede, donec aut respuenda esse aut vera esse aut semper credenda esse vel ratio doceat vel praecipiat  auctoritas»[19].

Con il sorgere delle prime università venne riconosciuta alla filosofia e alle scienze la loro necessaria autonomia per analizzare i loro campi di ricerca, autonomia che divenne pian piano una “nefasta separazione” dovuta al formarsi di un eccessivo spirito razionalista[20]. Successivamente, con l’avvento dell’epoca moderna, il rapporto tra la fede e la ragione si trovò sbilanciato su quest’ultima: scardinato il principio di autorità come irrazionale, viene lasciato poco spazio alla fede cristiana. Riprendendo il pensiero di David Hume esposto nel Trattato sull’intelligenza umana, Pannenberg sottolinea come si sia arrivati a ritenere la stessa fede al pari di un miracolo che nel credente non fa altro che sovvertire i principi sui quali si basa la conoscenza. È solo in questo modo che i filosofi atei o agnostici pensano che si possano giudicare vere quelle realtà che si pongono al di fuori della esperienza sensibile[21]. Perciò, essi ritengono che «una presunta autorità, che non sia più in grado di convincerci da se stessa, può essere accettata soltanto attraverso un sacrificium intellectus e sarà quindi pur sempre opera dell’uomo»[22]. La fede, invece, secondo il nostro Teologo, va compresa, per evitare che essa assuma il significato di un’autoredenzione illusoria dell’essere umano. Per divenire comprensibile, però, la fede non può essere relegata all’esperienza soggettiva dell’individuo, ma deve essere percepita come uno strumento noetico finalizzato anche alla spiegazione del reale.

Inoltre, il termine “ragione”, secondo Pannenberg, non può essere inteso in maniera univoca. Il nostro Teologo distingue una ragione aprioristica da una “percipiente” e da una storica[23]. La prima rimanda alla tradizione aristotelico-tomista e agostiniana – come egli stesso precisa – secondo le quali la conoscenza avviene tramite l’applicazione dei principi presenti nell’intellectus a quanto viene esperito. L’intelletto, infatti, conosce diversamente dalla ragione: questa è costretta a muoversi da una rappresentazione ad un’altra per cogliere la verità in maniera discorsiva; l’altro, invece, in maniera intuitiva, dato che vive nella visione della verità. Secondo Tommaso d’Aquino[24] per conoscere l’essere umano ha bisogno sia dell’intelletto sia della volontà in quanto, differentemente dagli angeli, egli non è capace di cogliere l’essenza delle cose nella loro immediatezza.

La ragione “percipiente” rimanda alla filosofia di Hamann, Herder e Jakobi, i quali hanno cercato di far riferimento alla dimensione aprioristica della ragione kantiana. La ragione “percipiente” può essere compresa, secondo il filosofo e scienziato Kamlah, a partire dalla logica della intuizione platonica, la quale percepisce le figure del vero attraverso una illuminazione[25]. Per alcuni studiosi questa tipologia di ragione può essere accostata alla fede. Pannenberg non condivide questo giudizio in quanto secondo lui la fede deve rimandare ad un futuro, a ciò che esso promette, mentre la ragione “percipiente” è chiamata a percepire allo stesso modo del nous parmenideo ossia in maniera stabile. Per cui siccome «la verità è futura, essa non può venir compresa da un νοϋς (come in Parmenide) orientato ai dati presenti, bensì soltanto dalla fede, che si affida a ciò che nel futuro si dimostrerà certo»[26]. Con la ragione “percipiente” non si potrà mai comprendere, secondo Pannenberg, la verità storica del Dio della promessa, verità da cui dipende la fede stessa.

Con la ragione storica, invece, siamo dinanzi ad una ragione prolettica, la quale cogliendo il significato anticipa al tempo stesso il futuro ultimo[27]. La ragione storica permette alla fede di compiere un discorso riguardante il futuro escatologico senza che esso venga giudicato irrazionale. Siamo, in questo modo, assai lontani dalla prospettiva aristotelico-tomista, poiché non vi è più corrispondenza tra ragione e dato empirico e tra fede e dati invisibili. Certo, non è nemmeno lecito identificare in questo modo la ragione con la fede, poiché «la fede è espressamente orientata verso quel futuro e compimento escatologico che la ragione anticipa e che allo stesso tempo ha alle sue spalle, quando essa dice ciò che le cose sono, quando ne designa l’essenza»[28]. Ovviamente, la ragione non pone la sua attenzione solo sulle cose presenti, ma richiama il loro presupposto assoluto. Per questo motivo Pannenberg conclude che «la fede può dunque aiutare la ragione a riflettere su se stessa ed a comprendersi in tutta trasparenza […]. Proprio in quanto orientata al futuro ultimo, escatologico, la fede può confermarsi come criterio della razionalità, della ragione»[29]. La natura della ragione storica non può essere inquadrata solamente nella categoria della prolessi, ma anche in quella della provvisorietà. La resurrezione di Gesù Cristo è infatti una anticipazione velata della verità ultima che verrà rivelata nell’eschaton, per cui anche la conoscenza frutto della ragione storica assume i caratteri della non definitività. In effetti, «il singolo credente vive sempre basandosi soltanto su una conoscenza temporanea nell’anticipazione della verità conoscibile definitivamente soltanto nel tempo escatologico, ma pure nell’anticipazione della conoscenza dell’oggetto creduto, conoscenza accessibile già ora e che scioglie i dubbi presenti»[30].



[1] Cfr. R. J. Neuhaus, “Wolfhart Pannenberg: profilo di un teologo”, 44. È interessante notare come nella formazione fanciullesca del nostro Teologo «non gli fu insegnato che la ragione è “il” nemico della fede, o che il dubbio è una malattia da esorcizzare con la preghiera, o che la sottomissione all’autorità religiosa è una virtù che dev’essere coltivata […]. Giunse ad interessarsi di teologia perché era un giovane riflessivo, con quel genere di problemi sui quali si ritiene che la teologia abbia qualcosa da dire: la vita, la morte, il destino, la finalità dell’universo. Non fu convinto da quei teologi che gli chiesero di accettare un compromesso o di abbandonare la ragione. La riflessione critica era l’amica più fidata che egli avesse, quella che l’aveva accompagnato sino a quel punto, ed egli non arrivò ai a pensare di abbandonarla» (ivi, 46–47).
[2] Cfr. W. Pannenberg, “Fede e ragione”, in Id., Questioni fondamentali di teologia sistematica, 268.
[3] S. Rondinara, “Teologia e scienze della natura in Wolfhart Pannenberg”, in Id. (a cura di), Dio come Spirito…, 9.
[4] Ivi, 13.
[5] Cfr. W. Pannenberg, “Intellezione e fede”, in Id., Questioni fondamentali di teologia sistematica, 251.
[6] Cfr. Ivi, 252.
[7] Ivi, 254.
[8][8] Cfr. M. Pedrazzoli, Intellectus quaerens fidem. Fede-ragione in  W. Pannenberg. Il problema della credibilità con riferimento ai contributi di Rahner, Blondel e Pascal, Pontificio Ateneo S. Anselmo, Roma 1981, 123.
[9] W. Pannenberg, Epistemologia e teologia, Queriniana, Brescia 19992, 313.
[10] Cfr. Ivi, 314.
[11] Id., Il Credo e la fede…, 22.
[12] G. Barbaglio, “Presentazione”, in W. Pannenberg, Il Credo e la fede…, 8.
[13] R. J. Neuhaus, “Wolfhart Pannenberg: profilo di un teologo”, 42-43.
[14] Ivi, 44.
[15] «Questo è invece il compito specifico della teologia, non di ogni singolo cristiano […] l’intera tradizione cristiana sia circondata da un’atmosfera di credibilità, la quale però nel corso di questi ultimi secoli si è andata sempre più rarefacendo, anche per la cattiva prova fornita dalla teologia. È necessario ricreare questa atmosfera di credibilità, se il pastore quando predica – nella misura in cui offre delle conoscenze – vuol essere creduto. Anzi, potremmo dire che questo è il compito che la teologia deve oggi affrontare, dando fondo a tutte le sue possibilità e dimostrando tutta l’apertura di cui essa è capace» (W. Pannenberg, “Intellezione e fede”, 255).
[16] Cfr. Id., Il Credo e la fede…, 143-145.
[17] Id., La teologia e il Regno di Dio, 95.
[18] Per approfondire il rapporto tra fede e ragione in età patristica rimandiamo a E. Dal Covolo, “L’incontro tra fede e logos durante l’età patristica (secc. I-III)”, in PATH 1 (2008) 87-97.
[19] Agostino, De vera religione, X, 20.
[20] Cfr, Giovanni Paolo II, Fides et ratio, n. 45.
[21] W. Pannenberg, “Fede e ragione”, 270.
[22] Ivi, 271.
[23] Cfr. Ivi, 273.
[24] «intelligere enim est simpliciter veritatem intelligibilem apprehendere: ratiocinari autem est procedere de uno intellecto ad aliud, ad veritatem intelligibilem cognoscendam; et ideo angeli, qui perfecte possident, secundum modum suae naturae, cognitionem intelligibilis veritatis, non habent nocesse procedere de uno ad aliud: sed simplicter, et absque discursu veritatem rerum apprehendunt […]. Homines autem ad intelligibilem veritatem conoscendam perveniunt, procedendo de uno ad aliud, ut ibidem dicitur: et ideo rationalis dicuntur. Patet ergo, quod ratiocinari comparatur ad intelligere, sicut moveri ad quiscere, vel acquifere ad habere; quorum unum est perfecti, aliud autem imperfecti» (Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, I, 79, 8). Per un’analisi approfondita rimandiamo a J. Ilunga Muya, “Per una rilettura del rapporto fede-ragione nella modernità a partire dalle lezioni di Tommaso d’Aquino”, in PATH 1 (2008) 125-143.
[25] Cfr. W. Pannenberg, “Fede e ragione”, 276.
[26] Ivi, 276-277.
[27] Cfr. Ivi, 280.
[28] Ibidem.
[29] Ivi, 281.
[30] Id., “Appendice”, in Aa. Vv., Rivelazione come storia, 242.

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