domenica 15 maggio 2016

La dimensione spirituale della scienza


Carissimi lettori, voglio riportare in questo blog un breve scritto di un mio amico professore di filosofia della scienza all'Università del Salento, Mario Castellana:

La vasta e non omogenea letteratura epistemologica, prodotta nell’intero Novecento, ha cercato di fare emergere quella che i suoi padri fondatori, come Federigo Enriques e Moritz Schlick, hanno chiamato rispettivamente  «la filosofia implicita» nelle scienze e la loro «anima filosofica in virtù della quale esse sono propriamente scienze». Ma dato che la dimensione filosofica «abita nel profondo di tutte le scienze, ma non in tutte è ugualmente pronta a rivelarsi»[1], è stato ed è ancora oggi più che mai necessario un lavorio costante di riflessione critica che faccia emergere le diverse articolazioni di tale ‘anima’, da quella più propriamente teoretico-conoscitiva a quella storica. Pertanto, i vari filoni di indagine venuti a maturazione in più paesi, che hanno arricchito di diverse ottiche e di precisi orientamenti quel vasto capitolo che è la filosofia della scienza, hanno indagato e indagano a vario modo la struttura e la storia del pensiero scientifico; com’è noto, si sono sviluppate diverse tradizioni di ricerca, a volte alternative fra di loro, ma nel loro insieme hanno contribuito a creare quello che abbiamo chiamato, sulla scia di Pierre Duhem e Ludovico Geymonat, un vero e proprio «patrimonio epistemologico» o, per dirla con Dario Antiseri, un autentico e sui generis «arsenale epistemologico-ermeneutico»[2] in grado di offrirci tecniche e strumenti concettuali sempre più adeguati a comprendere in profondità le diverse ‘anime’ della conoscenza scientifica. Ma tutti questi grandi, accesi e a volte pure contraddittori dibattiti hanno avuto come conseguenza la definitiva e irreversibile presa d’atto dell’autentico ‘valore’, nel senso di Henri Poincaré, culturale della scienza e della necessità di un sapere specifico in grado di comprenderne l’importanza strategica per ogni teoria della conoscenza, come aveva sottolineato a più riprese lo stesso Schlick; nello stesso tempo la ricca e dinamica letteratura epistemologica che ne è scaturita, a partire dai Problemi della scienza del 1906 di Federigo Enriques, ha portato, grazie al pieno riconoscimento della dimensione insieme teoretica e storica, a considerare la scienza nel suo complesso pensiero tout court come è stato ben messo in evidenza in particolar modo dalla tradizione di ricerca  francese e soprattutto dai lavori di Gaston Bachelard. Non è poi pertanto un caso se l’abbondante letteratura sulla ‘crisi della scienza’ nelle sue diverse variabili a partire dalla ‘reazione idealistica contro la scienza’, che com’è noto si è sviluppata a fine Ottocento e che si è protratta per gran parte del Novecento, abbia proprio insistito sul suo non essere ‘pensiero’, aspetto questo che, come ha detto ultimamente Dominique Lecourt, è stato ed è ancora spesso «il grande dimenticato da parte sia dello scientismo che dell’antiscienza»[3], opzioni a vario modo sempre in agguato.
Uno dei compiti, pertanto, della filosofia della scienza anche grazie al rilevante peso epistemico apportato dalla costituzione della storia delle scienze come sapere  sviluppatosi e consolidatosi parallelamente con proprie e specifiche metodologie, sin dal momento della sua costituzione come sapere critico-riflessivo, è stato e continua ad essere proprio quello di salvaguardarne l’aspetto storico-veritativo come  ‘pensiero’ tout court, in quanto  le diverse  conoscenze scientifiche  sono strategie di ordine cognitivo messe in atto per indagare, come già diceva Leonardo Da Vinci, le «infinite ragioni» del reale che vengono continuamente «disegnate» e costruite  dalla mente dello «speculatore delle cose» ed in grado, pertanto, di andare sempre oltre il dato empirico immediato in quanto tali ‘ragioni’ «non furono mai in isperienza»[4].
Questa intrinseca  e specifica dimensione della scienza che si potrebbe chiamare lato sensu ‘spirituale’, anche se è data quasi per scontata, non ha comunque ricevuto una costante e adeguata attenzione critica nell’ampia letteratura con qualche eccezione da parte di alcune figure di area francese come Gaston Bachelard, Hélène Metzger e Albert Lautman, di Federigo Enriques in Italia; negli anni ‘30 questi autori, preceduti dalle profonde riflessioni di Pavel Florenskij, grazie alla loro ottica storico-epistemologica al di là delle posizioni positivistiche, hanno considerato la scienza, come dice più propriamente la Metzger, «la corazza dello spirito umano» da coltivare continuamente per non farle assumere «il ruolo del diavolo tentatore»[5]. Nello stesso tempo se, come hanno sostenuto e continuano a sostenere posizioni di impronta strumentalista e convenzionalista, si considerano marginali le questioni relative ai suoi rapporti col reale, se come diceva Lautman si tende a «sopprimere i legami fra il pensiero ed il reale col rifiutare anche di dare alla scienza il valore di una esperienza spirituale, si rischia di avere solo un’ombra della scienza e di rigettare lo spirito alla conquista del reale verso attitudini violente con cui la ragione non ha nulla da fare. La filosofia delle scienze non può accettare questo atto di dimissione»[6].  La ragione scientifica grazie ai suoi processi di ristrutturazione  si autorigenera  continuamente col riconquistare la sua appartenenza alle forze spirituali dell’uomo entrando in dialogo costante  con le altre dimensioni, col comprendere sempre di più di trovare la sua «matrice costruttiva nelle forme di organizzazione della vita umana», così come diceva negli anni ’70 Aldo Gargani[7].
Pertanto occorre lavorare per fare in modo che la filosofia della scienza con l’aiuto della storia delle scienze non ‘si dimetta’ da questo essenziale compito, di contribuire a spazzare via quella che Popper in varie occasioni ha chiamato ‘filosofia dubbia’ nei  suoi confronti incapace di sviscerane le varie ‘anime’ e di capirne l’aspetto di fondo; nello stesso tempo, vero e proprio supplemento d’anima della scienza tipico di ogni autentica riflessione che si confronta con i percorsi di verità messi in atto, deve essere in grado in primis di prendere definitivamente atto di quella che recentemente Mauro Ceruti ha chiamato «la fine dell’onniscienza»[8] per  i processi di autocomprensione antropologica messi in atto.
[1] F. Enriques, Scienza e razionalismo, (1912), Bologna, Zanichelli, 1990, p. 145 e M. Schlick, Teoria generale della conoscenza, (1918), trad. it., Milano, F. Angeli Ed., 1986, p. 11.
[2] Cfr. ns.  Alle origini della ‘nuova epistemologia’. Il Congrès Descartes del 1937, Lecce, Il Protagora, 1990 e G. Reale-D. Antiseri, Quale ragione?, Milano, R. Cortina Ed., 2001, p. 226.
[3] D. Lecourt, «La philosophie  dans les sciences», in Revue de synthèse,  t. 126, 2, 2005, pp. 451-454.
[4] Leonardo Da Vinci, L’uomo e la natura,  a cura di M. De Micheli, Milano, Feltrinelli, 1982, pp. 52-53.
[5] H. Metzger, La scienza, l’appello alla religione e la volontà, trad. it, Lecce-Brescia, Pensa Multimedia-Pensée des sciences, 2014, p. 20; cf. anche F. Enriques, L’anima religiosa della scienza, Roma, Castelvecchi, 2015.
[6] A. Lautman, «Mathématiques et réalité» (1935) in Les mathématiques, les idées et le réel physique, Paris, Vrin,p. 50.
[7] A. Gargani, Il sapere senza fondamenti, Torino, 1975, p. VIII.
[8] Cf. M. Ceruti, La fine dell’onniscienza, Roma, Studium, 2014.

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