martedì 26 maggio 2015

Il sesso è peccato?



Il parlare del sesso e della sessualità non sia affatto una cosa semplice, ma nasconda in sé una vera e propria complessità, dovuta alla fitta maglia di tabù, sensi comuni, falsità o pseudo-verità, i quali si sono accumulati nel cammino dell’umanità all’interno della freccia del tempo. Una storia che ha fato gravitare intorno alla sessualità umana gran parte dei problemi che pesano sull’essere umano.
A fare da satellite, oggi più di ieri, sono poi tutte le pressioni sessuali a cui è sottoposto l’individuo in ogni momento. Si viene, infatti, costantemente bombardati a livello sessuale sia per strada, sia nel guardare i cartelloni pubblicitari o la tv, sia attaverso gli altri mezzi di comunicazione. Oggi è impossibile ritenere, infatti, che manchi una informazione sessuale esplicita. Essa è alla portata di tutti, anche dei bambini. Al tempo stesso, però, si percepisce come pesante il vuoto di ciò che dovrebbe essere essenziale nello sviluppo del “progetto uomo”, ossia di un’educazione sessuale fondata sul corretto valore da attribuire alla propria corporeità e allo scoprirsi esseri relazionali. I nostri giovani, infatti, giustamente incuriositi dal sesso e dal piacere che esso provoca, si ritrovano quasi sempre soli, costretti troppo spesso dalla nostra società ad essere degli autodidatti della sessualità. E così il problema della sessualità diviene una questione che travolge la famiglia stessa. Essa, sempre più vuota e priva di dialogo, non essendo quasi più una palestra di relazioni umane, demanda ad altri (chi?) il compito di educare i propri figli alla sessualità.
Oltre alla famiglia, la questione della sessualità riguarda anche la comunità cristiana, dalla quale si nutre a volte l’impressione che essa non riesca a comunicare correttamente, e quindi a trasmettere, il prezioso significato di cui è portatore il corpo dell’essere umano e che trova in Dio il suo autore. Tra i giovani pullulano molteplici domande a riguardo, questioni che tirano in ballo spesso la Chiesa stessa in maniera denigratoria, richieste di senso che devono sempre più essere colmate da delle risposte che trovano origine nei desideri e nei progetti di Dio sulla singola persona umana. All’interno del Caffè teologico si è così evidenziato che la sessualità può, in maniera figurata, essere paragonata ad una “Ferrari”, di cui solo Dio possiede il brevetto essendone l’autore-creatore. A Lui, quindi, si deve fare riferimento se si vuole comprendere qualcosa di veramente sensato sulla sessualità e se si vuole, al tempo stesso, cercare di riparare i danni che un suo uso errato possono apportare.
La sessualità è relazione e rimanda necessariamente alla corporeità. A quel corpo e a quel volto che ci rende ognuno diverso dall’altro e che ci offre la possibilità di essere chiamati per nome. Quel corpo-carne che lo stesso Dio è voluto divenire in Cristo. Come afferma la teologa Cettina Melitello, Gesù nei vangeli si è mostrato «attento ai sensi, alla corporeità, alla carne. Mangia e beve con i suoi; guarisce le infermità del corpo; è presente a un banchetto di nozze; frequenta e ama discepoli e discepole. Le sue parabole del Regno sono il più delle volte nel segno della gioia riassunta nelle metafore delle nozze e del banchetto». Un Gesù che certamente ha saputo offrire agli uomini del suo tempo l’esempio di una vita sì celibe, ma tutt’altro che asessuata.
Nel cammino della teologia cristiana, però, si è a volte perso la preziosità del messaggio biblico ed evangelico della sessualità demonizzando il corpo e rendendo lo stesso matrimonio nient’altro che un rimedio alla concupiscenza della carne, in vista della riproduzione e della conservazione della specie umana. Si è quasi considerato il peccato nei confronti del sesto comandamento come il più grave di tutti i dieci consegnati da JHWH a Mosè sul monte Sinai, lo si è posto prima della bestemmia, dell’omicidio, del furto e così via.
Parlare di peccato, allora, in rapporto alla sessualità è tutt’altro che una cosa semplice e spesso sono proprio le facili semplificazioni a ferire la dignità dell’essere umano. È peccato la convivenza? È peccato avere rapporti pre-matrimoniali, è peccato…? sono domande con le quali ci si confronta ogni giorno o in pubblico o nella nostra coscienza e che ci fanno prendere consapevolezza della fragilità di un essere umano che non ha fiducia in se stesso, che non si crede più capace di corrispondere al progetto d’amore di Dio dal quale è stato originato. In questo modo i precetti della morale cristiana vengono giudicati degli ostacoli alla libertà umana da rimuovere il più possibile e non delle linee guida per la piena realizzazione della persona umana.
Ma l’altro volto dell’amore è la morte. Un amore sano, libero e capace di realizzare pienamente la persona umana è tale solo se è anche in grado di divenire sempre più totale dedizione a chi ci sta accanto, rivestendosi di responsabilità e di saldezza. Questo amore sa morire, sa cioè rigettare l’egoismo per rimboccarsi le maniche dinanzi al sacrificio. L’amore è forte come la morte, dice la Sacra Scrittura; l’amore vuole vincere la morte e spesso nella sessualità la volontà di procreare corrisponde al desiderio di sopravvivere alla morte in quella esistenza che continua nei figli.
La sessualità, però, chiama in causa anche un’altra figura, quella del potere. Il nesso tra sesso e potere è sempre stato molto robusto ed oggi continua ad esserlo condizionando purtroppo le scelte di vita di molti giovani, i quali trovano grandi difficoltà, molto spesso di natura economica, nel dare la giusta evoluzione ad un amore ormai maturo. Lavori precari a breve termine o addirittura la mancanza di lavoro impediscono molto spesso alla coppia di fidanzati di guardare ad un futuro insieme il più stabile possibile e non sempre la comunità cristiana si mostra disponibile a correre in loro soccorso. In questo modo le decisioni del potere incidono sulle scelte dei giovani, condizionandole e facendole scadere in una liquidità di atteggiamenti che contraddice la stessa dignità dell’essere umano.
 

lunedì 18 maggio 2015

Religione e laicità: la fede è una minaccia per la libertà?


La fede minaccia la libertà? Attualmente sembra essere proprio la fede a costituire il limite con cui la tecnica si trova a confrontarsi nel cercare di proporre e realizzare un progresso infinito che spesso sfugge persino al controllo umano.

Il termine “laico” proviene dal greco e rimanda al concetto di popolo. La laicità è una dimensione costituente dell’essere popolo. Oggigiorno, però, sembra essere ben altro il significato che si attribuisce alla parola “laico”. Esso risale a Jules Ferry, il quale è da molti considerato tra i fondatori della scuola pubblica francese degli ultimi decenni del XIX secolo e colui che ha introdotto nel dibattito filosofico politico il tema della laicità. È stata, infatti, la Francia la nazione che, dopo la seconda guerra mondiale, ha immesso nella sua costituzione il concetto di “Repubblica Laica” attribuendosi così lo stato di imparzialità nei confronti delle varie confessioni religiose. Con “laicità” si intende, generalmente, l’atteggiamento neutro dello stato rispetto alle diverse fedi religiose, dalle quali esso prende le distanze mostrando indifferenza, ostilità o cooperazione, e facendosi comunque difensore della libertà religiosa.

Oggi si assiste sempre più, anche in Italia, ad un continuo appellarsi alla laicità dello stato che altro non vuole essere se non un paventare l’assolutezza della ragione come strumento conoscitivo e fondamento di ogni decisione politica. Si pensa che la fede possa essere una limitazione alla libertà dello stato, una vera patologia dalla quale cercare di debellarsi il prima possibile anche in vista di un progresso umano, scientifico e tecnologico sempre più spedito. Secondo il padre del laicismo moderno, Immanuel Kant, il rimanere ancorati a precetti e formule comportava il voler essere incatenati ai ceppi della minorità. Se si vuole essere liberi, invece, si deve, secondo lui, «fare pubblico uso della propria ragione in tutti i campi». Per Kant, la religione è inerente alla sfera privata del cittadino e non può diventare arbitro delle decisioni politiche, ruolo che appartiene invece alla ragione universale di cui tutti siamo dotati. È la ragione, secondo questo filosofo, ad illuminare il cammino dell’uomo e a dover comportare una purificazione della stessa religione da dogmi e miti. La religione si mostra, per il suo modo di vedere, come qualcosa di pericoloso, in quanto porta ad una dittatura delle coscienze delle persone e ad una loro umiliazione, privandole della responsabilità che scaturisce dal poter scegliere liberamente.

Secondo Kant tutto deve essere sottoposto, nella pubblica piazza, al tribunale della ragione, in quanto è solo quest’ultima a definire ciò che è bene e ciò che è male, ciò che è diritto e ciò che non lo è. La verità della rivelazione deve essere messa da parte, la fede deve restare, secondo lui, un qualcosa di privato, esclusa dai pubblici dibattiti dello stato a meno che non si riesca a “tradurla” adducendo delle argomentazioni razionali.

Perché fare riferimento a questo filosofo di oltre due secoli fa? La risposta mi pare evidente. Perché quello che viviamo oggi nella nostra società laica non è altro che la realizzazione di quanto egli affermava nel 1784, o, peggio, una sua estremizzazione, dato che Kant non voleva fare a meno del tutto della religione, come invece sembra accadere oggi.

Il ritenere che la fede possa pregiudicare la libertà umana e deviare la laicità dello stato insieme al volersi appellare al solo tribunale della ragione, non fa altro che il fondare un’altra religione, quella che divinizza la ragione non riconoscendone i suoi limiti. Se «vi sono nella religione delle patologie estremamente pericolose, che rendono necessario considerare la luce divina della ragione come organo di controllo» - evidenziava il cardinale Ratzinger nel 2004 - «vi sono pure delle patologie della ragione non meno pericolose, ma ancora più minacciose se viste nella loro potenziale efficienza: bomba atomica, uomo come prodotto».

Queste patologie della ragione ci fanno comprendere che il volersi appellare da parte dello stato alla sola universalità della ragione è una mera astrazione, un’utopia irrealizzabile. Lo stato laico deve mettersi in ascolto delle grandi tradizioni religiose dell’umanità, deve cercare di imparare sempre più una correlatività tra fede e ragione che è tutt’altro che deleteria, essendo la vera manifestazione di una libertà autentica. Fede e ragione hanno ancora bisogno l’una dell’altra, dato che l’essere umano non potrà mai dirsi neutrale ma sempre il risultato di una loro armonica correlazione. E questo vale anche per l’ateo, ossia per colui che appunto crede che Dio non esiste, o per l’agnostico, per colui che, nella sua vita, interroga la sua fede ricercando risposte.

La sfera pubblica è una commistione di ragione e religione, in quanto di essa fanno parte le persone ed il concetto di “persona” non è di natura giuridica ma morale e religiosa. E la persona quando esercita la sua libertà non può rinnegare la sua fede, in quanto non può rinnegare se stessa. Semmai trova proprio nella sua fede, invece, uno strumento di conoscenza della realtà, un aiuto e una luce, che non contraddice l’esercizio della sua razionalità, ma lo avvalora, qualificando l’esercizio della sua stessa libertà. La fede non è uno strumento accessorio, così come non lo sono gli occhiali o le lenti a contatto per un miope o per un presbite. Può infatti la sola ragione decidere cosa sia diritto e cosa non lo sia? E poi quale ragione? Quella della maggioranza? E se cambia la maggioranza? Uno stato laico democratico può fondare il proprio diritto solo sulla volontà della maggioranza? È questo un modo giusto di intendere la democrazia? Fin troppe volte la storia ha mostrato come le maggioranze possano essere cieche ed ingiuste!!!

Ed allora, in uno stato laico, si chiedeva Ratzinger: «l’eliminazione graduale della religione, il suo superamento, dev’essere considerato come progresso necessario dell’umanità, affinché essa giunga sulla strada della libertà e della tolleranza universale, o no?». La società di oggi ama definirsi civile e tollerante, ma in realtà testimonia sempre più una grande intolleranza verso la dimensione religiosa. L’uomo che vuole professare pubblicamente la propria fede avvalendo delle argomentazione razionali che ne rendano ragione è il personaggio scomodo che non è bene invitare nelle tavole rotonde o nei dibattiti pubblici. La dimensione religiosa può certamente essere vissuta nel privato e nel “segreto della camera” di ognuno, ma deve stare bene attenta dal sedersi nei “salotti culturali”. Nello stato laico, come oggi è generalmente considerato, il credente non può fare cultura, non può possedere una propria visione del mondo, non può essere considerato un interlocutore valido e alla pari. Nella pubblica piazza l’intellettuale credente non deve essere considerato come un “alienato” ma come quel laico in cui fede e ragione dialogano insieme nella ricerca della verità; in lui la libertà si sente limitata ma non monca, qualificata ed animata da una sapienza che è passione per l’essere umano e per Dio e non mera ricerca di una mai soddisfatta volontà di potenza che ha nella ricerca scientifica la sua effige.

lunedì 11 maggio 2015

Il "caffè teologico": mille domande poche risposte


Lunedì pomeriggio ho scelto un luogo insolito per andare a prendere il caffè, l’Auditorium dei Poveri di via Garibaldi. Il caffè in un Auditorium, voi mi chiederete. Ebbene sì, non mi sono affatto sbagliato, avete capito benissimo. Sono arrivato lì verso le ore 16 e vi ho trovato un bel gruppo di persone, tutte desiderose di sorseggiare un buon caffè dialogando amichevolmente, con naturalezza e spontaneità, e condividendo i mille dubbi e questioni che si portano nel proprio animo per cercare insieme di trovare delle risposte o di revisionare quelle che si credeva fin lì di possedere.
È stato così inaugurato a Rieti il “caffè teologico” intorno ad uno dei temi più scottanti della storia dell’umanità: Dio esiste? È stata un’occasione meravigliosa perché ci ha mostrato come ognuno di noi sia abitato da una gran moltitudine di domande, che sorgono dentro ciascuno e che ci spingono a cercare una risposta, interrogativi spesso sopiti sotto le mille faccende quotidiane che siamo chiamati a sbrigare, ma al tempo stesso tutt’altro che banali. Sono, infatti, le questioni che determinano la qualità della nostra vita, che devono da noi essere amate e vissute, perché – scriveva Enzo Bianchi – proprio esse possono essere considerate il segno distintivo dell’essere umano.
«Esiste Dio? Quale Dio? Chi è? Dove è? Se esiste è possibile comunicare con lui? Fede e ragione sono amiche o nemiche? Esistono prove razionali dell’esistenza di Dio? Cosa è la fede?» sono soltanto alcune degli interrogativi che ci si è posti nella brevissima (il tempo quando si sta tra amici corre veloce!) oretta e mezza trascorsa insieme. Si è parlato liberamente senza maschere perché ognuno di noi sapeva benissimo di non possedere la verità ma di esserne però in ricerca, desiderandola. Il nostro mondo secolarizzato e liquido, infatti, non è riuscito a sottrarre all’essere umano contemporaneo un’attenzione particolare intorno alla questione dell’Assoluto, anzi spesso l’ha resa più intensa.
Ripercorrendo la storia del pensiero umano, caratterizzato dalla ricerca filosofica, teologica, scientifica e dall’esperienza spirituale, si è riuscito a far emergere una delle eterne domande dell’uomo: Dio esiste? È ragionevole credere in lui ancora oggi? Riprendendo il pensiero di Tommaso d’Aquino, con le sue cinque vie, e di Anselmo d’Aosta, di una fede che interroga l’intelletto e di un intelletto che interroga la fede, si è cercato di comprendere se sia ancora possibile credere in maniera razionale all’esistenza di Dio. Ciò che è emerso è stata una fede capace di fare i conti con i dubbi sollevati da una certa filosofia e con le provocazioni della scienza, una fede alleata della ricerca razionale e non sua acerrima nemica. Una fede che non chiede nessun sacrificio alla razionalità umana, se non il suo esserci con tutta se stessa, il suo impegno nell’indagare la realtà che ci circonda senza eludere quegli interrogativi che urlano dentro di noi e che a volte facciamo finta di non sentire. Una fede che non vuole al tempo stesso privare la ragione del combattimento affannoso, dell’agonia del dubbio, poiché è essa stessa, come affermava il filosofo spagnolo Miguel de Unamuno (1864-1936), «una volontà di sapere che si muta in volere amare, volontà di comprendere».  
Si è così scandagliato il fondamento della fede, fatta di  incontro, abbandono e relazione. Un fondamento da sempre indagato e cercato, fin dall’antica Grecia, come principio primo ed unificante, il quale nelle varie religioni, ed in particolar modo in quella cristiana, è divenuto relazione fra due tu, l’uomo e l’Assoluto.
Certo, come evidenziava il teologo Hans Küng nel lontano 1979 in un suo bestseller di fama mondiale, si è visto che «molti sono perplessi tra la fede e l’incredulità, sono indecisi, scettici. Essi dubitano della loro fede, ma anche dei loro dubbi. Molti anzi sono addirittura orgogliosi di questi loro dubbi. Nondimeno rimane il desiderio della certezza». Ed è questo desiderio che si è assaporato lunedì pomeriggio e che si vuole cercare di non spegnere, mantenendolo vivo nel nostro animo.
A quale conclusione si è giunti? Se per concludere si intende finire, allora devo dire che non si è giunti a nessuna conclusione. Al temine dell’incontro, infatti, ci si è dati appuntamento a lunedì prossimo 18 maggio alle ore 16 presso l’Auditorium dei Poveri di via Garibaldi per sorseggiare un buon caffè dialogando tra amici intorno ad un'altra questione assai interessante, quella del rapporto tra fede e laicità.

lunedì 4 maggio 2015

Riflettendo sul dubbio...

Il 29 aprile scorso, trattando di "Cambiamento e Rinascita", ho parlato dell'importanza del dubitare in vista di un possibile cambiamento. Dubitare come fondamento del conoscere e base per una futura rinascita. Per l'occasione mi sono avvalso anche del pensiero di Cartesio, facendo riferimento al suo "dubbio metodico".
Ci tenevo in questo momento ad affermare che non era mia intenzione sposare totalmente l'immagine cartesiana del dubbio. Come, infatti, ritenne Miguel de Unamuno nella sua opera Agonia del cristianesimo (1924), René Descartes riuscì a dubitare di tutto fuorché del fatto che egli stava dubitando.
Ritengo ancora che il dubitare sia essenziale in vista di un vero cambiamento saldato sul progresso conoscitivo. L'essere umano, infatti, dubitando lotta (non a caso evidenzia Miguel de Unamuno come "dubitare" abbia la stessa radice del numerale duo, come "duellum"). Il filosofo spagnolo, allora, ci esorta ad abbandonare il dubbio cartesiano per riprendere quello di Pascal, più agonico e vicino all'idea di un combattimento. Idea questa che condivido moltissimo!

Il "villaggio dell'essere" è il vero "villaggio globale"


Nel 1962 uno studioso delle comunicazioni di massa, il canadese Marshall McLuhan, espose in un suo libro, “La galassia Gutenberg”, il concetto di “villaggio globale”, divenuto poi, una delle espressioni caratterizzanti l’attuale modernità. Cosa si intende con questa espressione che sembra a tutti gli effetti un ossimoro, dato che lega la globalità ad una realtà piccola come il villaggio. Essa fa riferimento ad un mondo piccolo, proprio delle dimensioni di un villaggio, all’interno del quale le distanze fisiche, culturali, le tradizioni, gli stili di vita, vanno gradualmente annullandosi. Da quel momento l’espressione “villaggio globale” è stata sempre più utilizzata per descrivere il nostro mondo, che da gigantesco globo si è pian piano ridotto ad essere un villaggio facilmente esplorabile. I mezzi di comunicazione, i social network, hanno, è ovvio, contribuito grandemente a rendere sempre più piccolo il nostro pianeta, fino a generare mode e stili di vita che hanno colonizzato quasi ogni abitante della terra.

La metafora di “villaggio globale” si sviluppa allora in seno ad una era, definita elettrica, nella quale è la tecnologia a farla da padrone. Una “religione della tecnologia” che persegue i “dogmi” della velocità e della uniformità. Materialismo ed individualismo sono i suoi frutti, insieme ad una cultura dell’apparire e del sembrare che gradualmente ha spersonalizzato gli esseri umani derubandoli della loro unicità. Il “villaggio globale” ha ridotto sì le distanze ma ha reso al tempo stesso tutti più anonimi ed identici.

All’uomo come fascio di percezioni, in balìa del proprio sentire e schiavo delle sue passioni il "villaggio dell'essere" contrappone «l’uomo che è», l’essere della persona, quel qualcosa che rimane invariato nonostante il cambiare di quegli accidenti ed attributi che la persona possiede. La persona, prima di sembrare qualcuno, è. In un mondo dalle distanze così ravvicinate tanto da essere sufficiente un semplice clic per spostare dei capitali economici da una parte all’altra del pianeta, è di fondamentale importanza che venga salvaguardato questo “è”.

Non vi è essere senza relazione e questo "essere" è ciò che permane anche con il mutare degli attributi che quella cosa ha. In questo modo una persona rimane tale aldilà del colore della sua pelle, della lingua che parla, del lavoro che fa, dell’essere alto o basso, malato o sano. «La persona umana è» a prescindere da ogni altra cosa ed il suo essere è immutabile, non può essere oggetto di mutamento, nemmeno di matrice sessuale. «La persona umana è» a prescindere dalla sua volontà, «la persona umana è» di un essere che le è assolutamente donato!
Oggigiorno c'è bisogno del primato dell’essere sull’apparire, in un’epoca in cui vi è un'immensa ricerca di certezze, di sicurezze, di verità, le quali non possono essere affidate alla balìa dei sentimenti o di entusiasmi ed emozioni che velocemente si accendono e altrettanto velocemente si spengono. È l’essere, ossia ciò che accomuna ogni persona, infatti a dover rendere il nostro mondo un “villaggio” e non i vari interessi economici e tecnologici, che stanno minando le relazioni tra le diverse culture e i molteplici popoli che abitano il nostro pianeta. Puntare sull’essere per riprendere l’adagio delfico “Conosci te stesso” e poter entrare nell’interiorità di un essere umano che non ha voglia di venire sballottato qua e là dai venti che si agitano in superficie e che lo vorrebbero condurre alle derive del relativismo e del nichilismo.