La fede minaccia la libertà? Attualmente sembra essere proprio la fede a costituire il limite con
cui la tecnica si trova a confrontarsi nel cercare di proporre e realizzare un
progresso infinito che spesso sfugge persino al controllo umano.
Il termine “laico” proviene dal greco e
rimanda al concetto di popolo. La laicità è una dimensione costituente dell’essere
popolo. Oggigiorno, però, sembra essere ben altro il significato che si attribuisce
alla parola “laico”. Esso risale a Jules Ferry, il quale è da molti considerato
tra i fondatori della scuola pubblica francese degli ultimi decenni del XIX
secolo e colui che ha introdotto nel dibattito filosofico politico il tema
della laicità. È stata, infatti, la Francia la nazione che, dopo la seconda
guerra mondiale, ha immesso nella sua costituzione il concetto di “Repubblica
Laica” attribuendosi così lo stato di imparzialità nei confronti delle varie
confessioni religiose. Con “laicità” si intende, generalmente, l’atteggiamento
neutro dello stato rispetto alle diverse fedi religiose, dalle quali esso prende
le distanze mostrando indifferenza, ostilità o cooperazione, e facendosi
comunque difensore della libertà religiosa.
Oggi si assiste sempre più, anche in
Italia, ad un continuo appellarsi alla laicità dello stato che altro non vuole
essere se non un paventare l’assolutezza della ragione come strumento
conoscitivo e fondamento di ogni decisione politica. Si pensa che la fede possa
essere una limitazione alla libertà dello stato, una vera patologia dalla quale
cercare di debellarsi il prima possibile anche in vista di un progresso umano,
scientifico e tecnologico sempre più spedito. Secondo il padre del laicismo moderno,
Immanuel Kant, il rimanere ancorati a precetti e formule comportava il voler
essere incatenati ai ceppi della minorità. Se si vuole essere liberi, invece, si
deve, secondo lui, «fare pubblico uso della propria ragione in tutti i campi».
Per Kant, la religione è inerente alla sfera privata del cittadino e non può
diventare arbitro delle decisioni politiche, ruolo che appartiene invece alla
ragione universale di cui tutti siamo dotati. È la ragione, secondo questo
filosofo, ad illuminare il cammino dell’uomo e a dover comportare una purificazione
della stessa religione da dogmi e miti. La religione si mostra, per il suo modo
di vedere, come qualcosa di pericoloso, in quanto porta ad una dittatura delle
coscienze delle persone e ad una loro umiliazione, privandole della responsabilità
che scaturisce dal poter scegliere liberamente.
Secondo Kant tutto deve essere
sottoposto, nella pubblica piazza, al tribunale della ragione, in quanto è solo
quest’ultima a definire ciò che è bene e ciò che è male, ciò che è diritto e
ciò che non lo è. La verità della rivelazione deve essere messa da parte, la fede
deve restare, secondo lui, un qualcosa di privato, esclusa dai pubblici
dibattiti dello stato a meno che non si riesca a “tradurla” adducendo delle
argomentazioni razionali.
Perché fare riferimento a questo filosofo
di oltre due secoli fa? La risposta mi pare evidente. Perché quello che viviamo
oggi nella nostra società laica non è altro che la realizzazione di quanto egli
affermava nel 1784, o, peggio, una sua estremizzazione, dato che Kant non
voleva fare a meno del tutto della religione, come invece sembra accadere oggi.
Il ritenere che la fede possa
pregiudicare la libertà umana e deviare la laicità dello stato insieme al
volersi appellare al solo tribunale della ragione, non fa altro che il fondare
un’altra religione, quella che divinizza la ragione non riconoscendone i suoi
limiti. Se «vi sono nella religione delle patologie estremamente pericolose,
che rendono necessario considerare la luce divina della ragione come organo di
controllo» - evidenziava il cardinale Ratzinger nel 2004 - «vi sono pure delle
patologie della ragione non meno pericolose, ma ancora più minacciose se viste
nella loro potenziale efficienza: bomba atomica, uomo come prodotto».
Queste patologie della ragione ci fanno
comprendere che il volersi appellare da parte dello stato alla sola
universalità della ragione è una mera astrazione, un’utopia irrealizzabile. Lo
stato laico deve mettersi in ascolto delle grandi tradizioni religiose
dell’umanità, deve cercare di imparare sempre più una correlatività tra fede e
ragione che è tutt’altro che deleteria, essendo la vera manifestazione di una
libertà autentica. Fede e ragione hanno ancora bisogno l’una dell’altra, dato
che l’essere umano non potrà mai dirsi neutrale ma sempre il risultato di una
loro armonica correlazione. E questo vale anche per l’ateo, ossia per colui che
appunto crede che Dio non esiste, o
per l’agnostico, per colui che, nella sua vita, interroga la sua fede
ricercando risposte.
La sfera pubblica è una commistione di
ragione e religione, in quanto di essa fanno parte le persone ed il concetto di
“persona” non è di natura giuridica ma morale e religiosa. E la persona quando
esercita la sua libertà non può rinnegare la sua fede, in quanto non può
rinnegare se stessa. Semmai trova proprio nella sua fede, invece, uno strumento
di conoscenza della realtà, un aiuto e una luce, che non contraddice
l’esercizio della sua razionalità, ma lo avvalora, qualificando l’esercizio
della sua stessa libertà. La fede non è uno strumento accessorio, così come non
lo sono gli occhiali o le lenti a contatto per un miope o per un presbite. Può
infatti la sola ragione decidere cosa sia diritto e cosa non lo sia? E poi
quale ragione? Quella della maggioranza? E se cambia la maggioranza? Uno stato
laico democratico può fondare il proprio diritto solo sulla volontà della
maggioranza? È questo un modo giusto di intendere la democrazia? Fin troppe
volte la storia ha mostrato come le maggioranze possano essere cieche ed ingiuste!!!
Ed allora, in uno stato laico, si
chiedeva Ratzinger: «l’eliminazione graduale della religione, il suo
superamento, dev’essere considerato come progresso necessario dell’umanità,
affinché essa giunga sulla strada della libertà e della tolleranza universale,
o no?». La società di oggi ama definirsi civile e tollerante, ma in realtà
testimonia sempre più una grande intolleranza verso la dimensione religiosa.
L’uomo che vuole professare pubblicamente la propria fede avvalendo delle
argomentazione razionali che ne rendano ragione è il personaggio scomodo che
non è bene invitare nelle tavole rotonde o nei dibattiti pubblici. La
dimensione religiosa può certamente essere vissuta nel privato e nel “segreto
della camera” di ognuno, ma deve stare bene attenta dal sedersi nei “salotti
culturali”. Nello stato laico, come oggi è generalmente considerato, il
credente non può fare cultura, non può possedere una propria visione del mondo,
non può essere considerato un interlocutore valido e alla pari. Nella pubblica
piazza l’intellettuale credente non deve essere considerato come un “alienato”
ma come quel laico in cui fede e ragione dialogano insieme nella ricerca della
verità; in lui la libertà si sente limitata ma non monca, qualificata ed
animata da una sapienza che è passione per l’essere umano e per Dio e non mera
ricerca di una mai soddisfatta volontà di potenza che ha nella ricerca
scientifica la sua effige.
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