venerdì 23 ottobre 2015

Callisto e l'arca di Noè

«Quanti sono stati già illuminati, hanno gustato i doni celesti e sono diventati partecipi dello Spirito santo, se incorrono nel peccato, è impossibile rinnovarli a pentimento». Così recita la Lettera agli Ebrei (6, 4-6), vietando che potesse essere perdonato e riammesso nella comunione della Chiesa chi, purificato dei precedenti peccati in forza del battesimo, fosse incorso successivamente in una grave colpa; il divieto viene ribadito anche altrove nella lettera. 
L’affresco del Buon pastore  dalle catacombe di San Callisto (II secolo, Roma)
Nell’ambito della cristianità delle origini è questa pressoché l’unica testimonianza di una presa di coscienza del problema posto dal seguace di Cristo che fosse incorso in un grave peccato dopo il battesimo. In effetti la consapevolezza che il battesimo aveva fatto rinascere il neofita a nuova vita difficilmente permetteva che si potesse comunque prendere in considerazione l’eventualità che chi fosse stato purificato dei peccati della vita precedente in grazia del lavacro battesimale, potesse di nuovo ricadere nell’abominio della vita precedente.
Ma l’uomo è costituzionalmente fragile e quell’eventualità si realizza. Forse già l’autore della Lettera agli Ebrei non si limitava a teorizzare ma aveva di mira qualche fatto concreto di questo genere, e comunque questa possibilità diventa certezza nella Roma cristiana di Erma, autore del Pastore, parecchi anni dopo quella testimonianza, intorno al 140. Nel suo scritto Erma si rivolge ai peccatori post-battesimali della comunità romana, ripetendo instancabilmente: Vi è ora offerta eccezionalmente la possibilità di pentirvi dei vostri peccati ed essere riammessi nella Chiesa; affrettatevi perciò a pentirvi sinceramente, perché il tempo sta per scadere.
Per molto tempo, sulla traccia della proibizione sancita dalla Lettera agli Ebrei, si era creduto che i peccatori ai quali Erma si rivolge fossero stati estromessi dalla comunità, ma una considerazione più attenta della complessa problematica che emerge dal Pastore ci convince che nella comunità cristiana di Roma intorno alla metà del II secolo non era ancora in vigore una normativa precisa e vincolante riguardo ai peccatori post-battesimali. Quello che è certo è che Erma invita i peccatori a cogliere in fretta la possibilità straordinaria, offerta loro per una sola volta, di pentirsi dei loro peccati, senza che da lui venga avvertita l’esigenza che il problema derivante dalla presenza, nella comunità, di questi peccatori fosse proposto e discusso in modo esplicito.
Era per altro una questione importante, e nella Storia della Chiesa di Eusebio leggiamo (IV 23) che, intorno al 160, Dionigi, vescovo di Corinto, ebbe a polemizzare con alcuni colleghi di comunità orientali, che gli facevano carico di essere troppo propenso a riammettere i peccatori post-battesimali nella comunità. Sono solo pochi accenni, mentre è ben altrimenti consistente la nostra documentazione riguardo alla polemica che si ebbe a Roma, intorno al 220, tra il vescovo Callisto e un ignoto personaggio, autore di uno scritto, giunto a noi sotto il nome evidentemente falso di Origene, riguardante le eresie (Èlenchos), intorno al quale si è molto e male almanaccato e che per comodità definiamo come Autore dell’Èlenchos. È proprio il suo racconto che, per quanto tutt’altro che obiettivo, ci informa su questi fatti.
A capo di una conventicola di non molti seguaci, egli polemizza aspramente con Callisto per motivi di argomento sia dottrinale sia disciplinare. Quanto ai primi, basterà accennare che egli professava, riguardo a Cristo, una dottrina che ne accentuava, in quanto Parola (Logos) di Dio Padre, il carattere personale e compiutamente divino, e che perciò Callisto considera vera e propria forma di diteismo. Qui ci interessa invece soprattutto la polemica d’ordine disciplinare: egli fa carico (ix 12) a Callisto di accogliere nella comunità fedeli che erano incorsi, dopo il battesimo, in peccati anche molto gravi, al che il vescovo replica che Noè nell’arca aveva accolto animali puri e impuri senza distinzione, e che nella semina descritta nel vangelo di Matteo (13, 24-30) insieme col grano cresceva anche la zizania, e solo dopo che la crescita si fosse completata la zizania sarebbe stata separata dal grano.

di Manlio Simonetti

mercoledì 14 ottobre 2015

Il Dostoevskj del Novecento

Un’audace limpidezza: forse non c’è modo più sintetico ed efficace per descrivere lo stile di Iosif Brodskij (1940-1996), la sua appassionata ricerca della precisione nell’esplorare un concetto, approfondire un’idea, stupire i lettori con un paradosso inedito. Se la poesia, come ha ripetuto più volte lo scrittore russo nei suoi saggi, è uno «straordinario acceleratore mentale», lo sono, in una certa misura, anche le domande di un’intervista. Sia quando il giornalista entra in sintonia con l’intervistato, e il botta e risposta ha l’eleganza di una partita a tennis fra due atleti di pari livello, sia quando la totale, palese mancanza di feeling (e talvolta, di competenza, tatto o semplicemente buon senso in chi fa le domande) genera effetti di comicità involontaria e dà occasione all’intervistato di esibire la sua geniale, leggendaria perfidia dialettica.

È questo che rende appassionante come un romanzo la lettura di un libro compilativo come Conversazioni (Milano, Adelphi, 2015, pagine 314, euro 20) di Cynthia L. Haven, una raccolta di materiale eterogeneo che permette di riascoltare la voce dell’artista che amava definire se stesso «un poeta russo, un saggista inglese e un cittadino americano» e di vederlo giocare con un’idea, attenuarla o portarla alle sue estreme conseguenze, fino a capovolgere un’opinione, a volte nel bel mezzo di una frase. In lotta perenne contro un nemico dichiarato, la poshlost’, un concetto presente anche in Gogol’ e in Nabokov, che potremmo tradurre con volgarità compiaciuta, o falsa profondità, parente stretta di quel sentimentalismo facile che asseconda le trite mitologie di moda e le generalizzazioni banali.
Brodskij ha parole molto dure per quella che chiama la volgarità del cuore umano. Ma sa bene che deprecarla e attribuirla agli altri è pericoloso perché nel farlo automaticamente ci poniamo al di sopra del nostro prossimo e finiamo per esserne preda perché «il male mette radici quando un uomo comincia a pensare di essere migliore di un altro». Chi lo ha conosciuto — racconta Gabriella Caramore che lo ha intervistato negli anni Novanta per Radio Rai tre — sa quanto potesse essere anche scostante, ironico, sarcastico, perfino ingiusto.
Ma in lui l’intolleranza verso la mediocrità e la bruttezza non erano una posa da narciso: pensava davvero che la verità della parola potesse scaturire solo dalla sua bellezza. «E allora la sua affermazione che l’etica è creata dall’estetica — continua Caramore — ben lontana dall’essere figlia di un estetismo riduttivo, è solo la sommessa e pudica affermazione di una promessa salvifica della parola, la traduzione laica e novecentesca della dostoevskiana bellezza che salverà il mondo». Chi legge i suoi saggi sulla letteratura avrà modo di scoprire che quelli che ha sempre ritenuto freddi artifici tecnici, gli schemi metrici ad esempio, sono in realtà «formule magiche», «magneti spirituali», capaci di incidere profondamente sulle parole, al punto che un contenuto moderno espresso secondo una forma fissa (un sonetto, per intenderci) può sconvolgere quanto «una macchina che sfreccia contromano in autostrada».
Il gusto per la provocazione e il cinismo esibito non devono far dimenticare il suo grande amore per la poesia, che considerava «lo scopo antropologico e genetico» della nostra specie, e un ottimo strumento per mostrare alla gente la visione reale della scala delle cose.
Leggendo i dialoghi raccolti da Cynthia L. Haven si capisce che la durezza che ostentava verso gli altri era frutto di una disciplina che imponeva soprattutto a se stesso: mai, in nessun caso e per nessun motivo, atteggiarsi a vittima, o a eroe perseguitato dai filistei, anche se si viene processati senza un vero capo d’accusa, internati in un ospedale psichiatrico e condannati al confino in un villaggio vicino al Circolo polare artico, come è realmente successo al poeta russo, non gradito al regime. Da qui il suo costante, tenace understatement rimasto tale anche di fronte alle domande incredibilmente rozze, per non dire stupide, del giudice durante il processo: «Ci dica perché non lavorava». «Lavoravo. Scrivevo poesie». «Risponda: perché non aveva un’occupazione?». «Avevo un’occupazione, scrivevo poesie». «Perché non studiava poesia all’università?». «Pensavo che fosse un dono di Dio».
di Silvia Guidi

domenica 11 ottobre 2015

La filosofia come servizio



«L’uomo può trovare nella filosofia quelle ali che gli permettono di volare molto in alto, e di realizzare, in questo continuo cercare, la sua vera natura», disse un giorno il noto filosofo, recentemente scomparso, Giovanni Reale ad un suo studente, che si era lamentato con lui nel non riuscire a trovare nella filosofia quelle risposte definitive che desiderava.
L’incontro avvenuto recentemente, il 9 ottobre scorso, nell’Auditorium dei Poveri con la reatina Francesca Nobili, docente di Filosofia e Storia presso il Liceo scientifico “Carlo Jucci”, mi ha rimandato alle parole del Reale. La professoressa Nobili, studiosa del pensiero del filosofo inglese John Locke (1632-1704), padre del contrattualismo liberale, ha saputo parlare in maniera semplice e chiara ad un folto pubblico, tra cui i suoi studenti, di temi filosofici molto importanti legati alla presentazione di un suo piccolo volume riguardante un’opera classica di Locke, il “Trattato sul Governo” pubblicata verso la fine del Seicento. Si è discusso di libertà, di senso della vita ma anche di desiderio e di passione per la ricerca.
La filosofia, infatti, secondo la Nobili offre un servizio molto prezioso alle persone e soprattutto ai
giovani in un tempo disorientante e disorientato, nel quale mancano punti di riferimento, idee come valori e ideali. Per lei si può tornare alle grandi idee, allora, solo attraverso lo studio della filosofia. Il ritornare alle idee significa il portare avanti il ritorno di un vero e proprio umanesimo liberale. Il senso ed il significato che si cerca oggi è sempre nell’oltre, in quanto non è evidente e manifesto in superficie. L’opera di Locke permette questa riflessione sul senso, a partire da una riflessione su di una libertà che non deve essere considerata pura formalità. L’individuo è libertà ed è chiamato a riempire di contenuto la libertà che egli stesso è.
La filosofia porta la persona ad avere un pensiero critico sulla realtà, cosa che oggi viene demandata alle varie agenzie di informazione. La mancanza del pensiero critico, però, può divenire molto pericolosa, in quanto è stato ciò che ha condotto l’umanità alle tragedie e ai genocidi del Novecento. Da qui l’invito rivolto da Francesca Nobili ai suoi studenti a non restare in superficie, ma a spingersi in profondità per trovare quel senso della realtà che si nasconde in essa. L’esortazione è quella di non fermarsi a recepire quelle che sono le teorie pre-confezionate che la società offe, ma a compiere la fatica ermeneutica della ricerca di senso. La filosofia ci dice che la realtà possiede un senso; compito dell’essere umano è scoprirlo.
Usando un’espressione platonica Francesca Nobili definisce la ricerca filosofica come un’attività “erotica”, ritenendola un anelito, una ricerca incessante e continua della verità compiuta con passione e desiderio da un essere umano che possiede la volontà di mettersi in gioco.

giovedì 8 ottobre 2015

Lo "Schindler" giapponese: Chiune Sugihara

Chiune Sugihara fu viceconsole in Lituania durante i primi anni della seconda guerra mondiale. Egli, infatti, era giunto come diplomatico a Kaunas nel 1939, poco tempo prima che i nazisti invadessero la Polonia. Si adoperò alla salvezza di seimila ebrei che stavano per essere deportati e ci riuscì firmando oltre duemila visti. Intere famiglie di ebrei lituani, polacchi e di altre nazionalità ottennero così un visto per trasferirsi in Giappone.
Il ministro degli Esteri non riuscì a bloccare le autorizzazioni firmate da Sugihara per mancanza di tempo.
Sugihara morirà nel 1987. L'anno precedente lo Yad Vashem lo ha incluso nell'elenco dei Giusti fra le nazioni. 

martedì 6 ottobre 2015

Edgar Allan Poe come Ulisse

In vita fu giudicato un pazzo, da morto fu seppellito dagli onori, omaggiato come l'inventore del racconto poliziesco e della letteratura dell'orrore. Edgar Allan Poe, scomparso il 7 ottobre 1849, avrebbe fatto la felicità di Diderot: ben incarnava, infatti, la figura dell'uomo dalla cultura enciclopedica. Non solo eccelse come scrittore e poeta, ma brillò anche in qualità di critico letterario e giornalista. Divenne celebre grazie a Il gatto nero (1843) e a Il corvo e altre poesie (1845), sebbene nell'immaginario collettivo l'eco di Poe risuona attraverso La caduta della casa degli Usher (1840) e Il pozzo e il pendolo (1842). Su di lui fiorirono aneddoti, come quello che lo vide accusare di plagio, in un articolo sull'Evening Mirror, Longfellow, che mesi prima era stato da egli stesso definito "il miglior poeta d'America". In difesa del poeta, rispose all'articolo un misterioso lettore del giornale, un tale Outis. Leggenda vuole che fosse stato lo stesso Poe a scrivere la risposta: si era firmato con lo stesso nome che usò Ulisse con Polifemo. Outis, in greco, vuol dire nessuno.
                                                                              
                                                                              di Gabriele Nicolò

domenica 4 ottobre 2015

Il "magis" come criterio del dibattito sinodale intorno alla famiglia



Il dialogo sulla famiglia, che in questi giorni di sinodo (dal 4 al 25 ottobre) vede come protagonisti ben 45 padri sinodali, oltre quelli previsti dagli statuti, ossia i rappresentanti degli episcopati, i capi-dicastero della curia romana, i membri delle Chiese orientali, i collaboratori del segretario speciale, gli uditori e i delegati fraterni, richiama alla mente il famoso “dialogo sulla vita” tenutosi nel 2006 tra il cardinale Carlo Maria Martini ed il medico, oggi sindaco di Roma, Ignazio Marino.
Dinanzi ai nodi più cruciali inerenti alla questione sulla vita, come l’aborto, la fecondazione eterologa e l’adozione di bambini da parte di singles, il noto biblista ha enunciato il criterio del “magis”, del “meglio”, il quale ha come scopo quello di cercare di assicurare in ogni circostanza dell’esistenza umana la presenza del maggior numero di condizioni favorevoli concretamente possibili.
E dove si trova il magis nel momento in cui si parla della famiglia? Secondo Martini esso si troverebbe in «una famiglia composta da un uomo e una donna che abbiano saggezza e maturità e che possano assicurare una serie di relazioni anche intrafamiliari atte a far crescere il bambino da tutti i punti di vista. In mancanza di ciò, è chiaro che anche altre persone, al limite anche i single, potrebbero dare di fatto alcune garanzie essenziali».
C’è quindi un “meglio” che è ben altra cosa di una realtà che viene rimediata per non farla scadere in qualcosa di peggiore, come potrebbe essere il caso dell’adozione dei bambini. Per il piccolo essere umano appena nato l’adozione non è mai la soluzione ottimale, ma è ciò che rimedia al grande male, quello senz’altro peggiore, di rimanere orfani e privo di qualcuno che si prenda cura di lui.
Il meglio per un bambino consiste nel potersi confrontare durante il suo percorso di crescita con un soggetto maschile ed uno femminile, che gli permettano di fare una «esperienza integrale e differenziale di umanità» (Aristide Fumagalli). Quella identità psico-fisica posseduta dal fanciullo fin dalla nascita ha bisogno di irrobustirsi sempre più e potrà farlo solo interagendo con i suoi genitori, uno di sesso maschile ed uno di sesso femminile.
Non avrebbe a mio giudizio alcun senso allora il creare fin dalla partenza per un bambino delle situazioni che dovrebbero costituire solo un rimedio che si fa incontro a quelli che sono i bisogni fondamentali di ogni essere umano, come quello di essere accolto ed amato da una famiglia.
Secondo il criterio del “magis” allora, se si vuole il bene del bambino, che deve anticipare quello degli adulti che lo hanno messo al mondo, si dovrebbe garantire l’univocità delle figure genitoriali rispetto alla loro molteplicità, causa generalmente di traumi e di ri-adattamenti nel bambino. Al tempo stesso il “meglio” è per lui il venire educato all’interno di una coppia eterosessuale invece che in una coppia monosessuata.
Nella coppia eterosessuale, infatti, si concretizza quella antropologia della reciprocità a partire dalla quale l’uomo si riconosce come uomo e la donna come donna. L’uomo si riconosce tale attraverso la donna e viceversa. L’uomo e la donna non possono guardare se stessi, ma si possono riconoscere come uomo e come donna solo nello sguardo che l’altro gli dona. In quel trovarsi “faccia a faccia” vi è la presa di coscienza della propria identità.