mercoledì 14 ottobre 2015

Il Dostoevskj del Novecento

Un’audace limpidezza: forse non c’è modo più sintetico ed efficace per descrivere lo stile di Iosif Brodskij (1940-1996), la sua appassionata ricerca della precisione nell’esplorare un concetto, approfondire un’idea, stupire i lettori con un paradosso inedito. Se la poesia, come ha ripetuto più volte lo scrittore russo nei suoi saggi, è uno «straordinario acceleratore mentale», lo sono, in una certa misura, anche le domande di un’intervista. Sia quando il giornalista entra in sintonia con l’intervistato, e il botta e risposta ha l’eleganza di una partita a tennis fra due atleti di pari livello, sia quando la totale, palese mancanza di feeling (e talvolta, di competenza, tatto o semplicemente buon senso in chi fa le domande) genera effetti di comicità involontaria e dà occasione all’intervistato di esibire la sua geniale, leggendaria perfidia dialettica.

È questo che rende appassionante come un romanzo la lettura di un libro compilativo come Conversazioni (Milano, Adelphi, 2015, pagine 314, euro 20) di Cynthia L. Haven, una raccolta di materiale eterogeneo che permette di riascoltare la voce dell’artista che amava definire se stesso «un poeta russo, un saggista inglese e un cittadino americano» e di vederlo giocare con un’idea, attenuarla o portarla alle sue estreme conseguenze, fino a capovolgere un’opinione, a volte nel bel mezzo di una frase. In lotta perenne contro un nemico dichiarato, la poshlost’, un concetto presente anche in Gogol’ e in Nabokov, che potremmo tradurre con volgarità compiaciuta, o falsa profondità, parente stretta di quel sentimentalismo facile che asseconda le trite mitologie di moda e le generalizzazioni banali.
Brodskij ha parole molto dure per quella che chiama la volgarità del cuore umano. Ma sa bene che deprecarla e attribuirla agli altri è pericoloso perché nel farlo automaticamente ci poniamo al di sopra del nostro prossimo e finiamo per esserne preda perché «il male mette radici quando un uomo comincia a pensare di essere migliore di un altro». Chi lo ha conosciuto — racconta Gabriella Caramore che lo ha intervistato negli anni Novanta per Radio Rai tre — sa quanto potesse essere anche scostante, ironico, sarcastico, perfino ingiusto.
Ma in lui l’intolleranza verso la mediocrità e la bruttezza non erano una posa da narciso: pensava davvero che la verità della parola potesse scaturire solo dalla sua bellezza. «E allora la sua affermazione che l’etica è creata dall’estetica — continua Caramore — ben lontana dall’essere figlia di un estetismo riduttivo, è solo la sommessa e pudica affermazione di una promessa salvifica della parola, la traduzione laica e novecentesca della dostoevskiana bellezza che salverà il mondo». Chi legge i suoi saggi sulla letteratura avrà modo di scoprire che quelli che ha sempre ritenuto freddi artifici tecnici, gli schemi metrici ad esempio, sono in realtà «formule magiche», «magneti spirituali», capaci di incidere profondamente sulle parole, al punto che un contenuto moderno espresso secondo una forma fissa (un sonetto, per intenderci) può sconvolgere quanto «una macchina che sfreccia contromano in autostrada».
Il gusto per la provocazione e il cinismo esibito non devono far dimenticare il suo grande amore per la poesia, che considerava «lo scopo antropologico e genetico» della nostra specie, e un ottimo strumento per mostrare alla gente la visione reale della scala delle cose.
Leggendo i dialoghi raccolti da Cynthia L. Haven si capisce che la durezza che ostentava verso gli altri era frutto di una disciplina che imponeva soprattutto a se stesso: mai, in nessun caso e per nessun motivo, atteggiarsi a vittima, o a eroe perseguitato dai filistei, anche se si viene processati senza un vero capo d’accusa, internati in un ospedale psichiatrico e condannati al confino in un villaggio vicino al Circolo polare artico, come è realmente successo al poeta russo, non gradito al regime. Da qui il suo costante, tenace understatement rimasto tale anche di fronte alle domande incredibilmente rozze, per non dire stupide, del giudice durante il processo: «Ci dica perché non lavorava». «Lavoravo. Scrivevo poesie». «Risponda: perché non aveva un’occupazione?». «Avevo un’occupazione, scrivevo poesie». «Perché non studiava poesia all’università?». «Pensavo che fosse un dono di Dio».
di Silvia Guidi

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