giovedì 28 luglio 2016

Il giusto Abele: riflessione sul male

Dinanzi ai fatti terrificanti accaduti in questi ultimi mesi riportiamo un articolo uscito su «La Croix» del 23-24 luglio.


Bossuet scrive che la morte di Abele per mano di suo fratello Caino costituisce la “prima azione tragica” dell’umanità. Prima morte, primo omicidio, prima tragedia. Come è potuta l’umanità degli esordi giungere così rapidamente a un simile disastro? si chiedeva già il Midrash. Il racconto biblico dell’assassinio è particolarmente ellittico: «Caino alzò la mano contro il fratello Abele e lo uccise» (Genesi, 4, 8). Non si sa né esattamente perché né come. Alla concisione misteriosa delle parole risponderanno le immagini degli artisti. Fin dall’antichità l’uccisione di Abele è stata abbondantemente rappresentata. «Dal sangue del giusto Abele fino al sangue di Zaccaria» (Matteo, 23, 35), bisogna mostrare il sangue perché il sangue parli.
Quello di Abele, il primo a essere versato, proprio come il sangue di Gesù, «dalla voce più eloquente di quello di Abele» (Ebrei, 12, 24). Il sangue versato ha il peso di una parola che non si vuole mai sentire. Versare il sangue di un uomo è uccidere un fratello. «Solo mi ucciderà la mano del mio pari» ricorda il poeta (Osip Mandel’stam). Il primo peccato è l’assassinio. È in effetti proprio parlando di Caino che appare nella Bibbia per la prima volta la parola ebraica hat-tât che sarà tradotta con peccato. Rappresentare il sangue versato è essere fedeli al testo biblico nel quale Dio ricorda all’assassino che «la voce del sangue di tuo fratello grida a me dal suolo» (Genesi, 4, 10).
Il Midrash spiega così che, non essendo ancora stato sotterrato nessuno, la terra si scandalizza del sangue che si spande su di essa. Ma che cosa dice il sangue visibile per la prima volta? Testimonia il silenzio di Abele, la vittima. Lui non ha parlato, sia che non abbia fatto altro che ascoltare suo fratello, sia che la sua parola sia stata ignorata o che lui abbia ignorato l’altro. I rabbini hanno voluto dare un contenuto a questo dialogo fallito o impossibile: la discussione avrebbe riguardato la condivisione del mondo, tra l’agricoltore sedentario e il pastore nomade; o una donna; o ancora questo mondo e il mondo dell’aldilà.
Nessuna spiegazione basta. L’assassinio interviene in questo racconto come una dimostrazione al contrario di qualcosa che non era stato possibile dire prima, come un modo per evitare una parola che non si voleva sentire. Quella dell’appello alla responsabilità di sé: diventa padrone di te stesso e delle tue pulsioni. O il sangue di Abele ricadrà su di noi.
di Fréderic Boyer

martedì 12 luglio 2016

I Cinquecento anni del ghetto di Venezia

Si celebra con mostre, convegni e pubblicazioni il cinquecentesimo anniversario della nascita del ghetto di Venezia, creato il 29 marzo 1516. È allora che il Senato veneziano, dopo lunghe discussioni, accettò la presenza ebraica in città, purché relegata in un luogo chiuso dal tramonto all’alba, dove gli ebrei non avrebbero potuto vivere insieme ai cristiani. 
Ghetto Nuovo, Venezia  (Foto: ©Awakening/Xianpix)
L’esempio di Venezia sarebbe stato seguito ovunque in Italia a partire dalla metà del Cinquecento, tanto che alla fine, con poche eccezioni, tutte le città italiane dove erano presenti degli ebrei li avrebbero chiusi in un ghetto. Lo scrive Anna Foa aggiungendo che la storia del ghetto di Venezia è in realtà, al di là dell’aspetto evidente della chiusura e della separazione dei mondi che comportava, una storia vivace e vitale, che si intreccia strettamente non solo con la storia di Venezia ma anche con quella del Mediterraneo. E il ghetto veneziano, a differenza dei ghetti che nasceranno più tardi in Italia, a partire da quello di Roma, su iniziativa essenzialmente della Chiesa, è un luogo dove confluiscono e si intrecciano culture diverse (gli ebrei italiani, quelli tedeschi, i sefarditi, i portoghesi), un ghetto insomma che potremmo definire cosmopolita.
A questo ghetto dedica ora un libro (Venezia e il ghetto. Cinquecento anni del “recinto degli ebrei”, Bollati Boringhieri, Torino, 2016, pagine 187, euro 15), che copre tutto il periodo della sua durata, dal 1516 fino al 1797 e si estende anche all’oggi, una studiosa di valore, Donatella Calabi, architetto e urbanista. Il suo sguardo è attento alla struttura abitativa del ghetto, ai rapporti del ghetto, o meglio dei ghetti (perché a Venezia erano tre, edificati in periodi successivi) con la città sia dal punto di vista urbanistico che da quello dei contatti tra i due mondi, dei mestieri esercitati dagli ebrei, della vita religiosa e comunitaria.
Il ghetto di Venezia nasce nel 1516 non, come poi a Roma e in molti altri luoghi, dalla chiusura entro mura e portoni di una comunità preesistente, ma dalla scelta attuata dalla Repubblica di accogliere infine gli ebrei in città, dopo molte esitazioni e brevi periodi di tolleranza. Il luogo prescelto è periferico rispetto alla città, l’isola di Cannaregio, lontana dal cuore commerciale di Rialto, dove negli ultimi anni gli ebrei erano stati ammessi in via eccezionale a causa della guerra di Chioggia che devastava l’entroterra veneto. Erano, questi primi ebrei del ghetto, ebrei tedeschi, prestatori, che avevano a lungo esercitato il prestito a Mestre a parte brevi periodi in cui erano stati ammessi in città. Il primo ghetto è il ghetto Nuovo, dove le botteghe dei prestatori si aprivano sul vasto campo tuttora esistente.
E dall’isola, dove c’erano state in origine fonderie di rame, il ghetto trae il suo nome, geto, letto dai tedeschi con la g dura come ghetto. Ghetto è quindi un toponimo, destinato a una lunga vita e a progressive estensioni semantiche. Per il momento è usato a Venezia, e a fatica si affermerà poi come il termine più diffuso per designare i quartieri chiusi degli ebrei che nasceranno in Italia tra la metà del Cinquecento e il XVII secolo.
di Anna Foa

lunedì 4 luglio 2016

La morte di Elie Wiesel

Incarnava agli occhi del mondo il dovere di ricordare. Lo scrittore e testimone della Shoah Elie Wiesel è morto il 2 luglio a New York, all’età di 87 anni. Nato nel 1928 a Sighet, in Romania, in una famiglia ebraica ortodossa, fu deportato nel 1944 ad Auschwitz-Birkenau, e poi a Buchenwald, dove perderà i genitori e una delle tre sorelle. Dopo la terribile esperienza nei campi della morte, dedicherà la propria vita al ricordo delle vittime: «Se sono sopravvissuto, dev’esserci stata una ragione. Devo fare qualcosa della mia vita» dichiarò in un’intervista al «New York Times» nel 1981. L’essere sopravvissuto, infatti, è «una cosa troppo seria» e di conseguenza l’esistenza non può essere presa alla leggera. Affermazione, questa, che ripeteva spesso alla luce dell’inquietante consapevolezza che «qualcuno avrebbe potuto essere salvato» al posto suo.

Aveva sempre sostenuto l’idea che non si poteva vivere senza il passato. «Se dimentichiamo il passato, la nostra umanità ne viene mutilata» affermava in un’intervista a «Le Figaro» nel 1998, anno in cui organizzò un convegno internazionale sul tema «Memoria e storia», tramite l’Accademia universale delle culture che presiedette dal 1993, nell’intento di lottare contro la xenofobia, l’antisemitismo e ogni forma di discriminazione. A tale riguardo, Papa Francesco, ricevendo il premio Carlo Magno nel maggio scorso, ha richiamato il tema prediletto di Wiesel usando l’espressione «trasfusione della memoria», che gli era tanto cara. La trasfusione della memoria, ricordava il Pontefice, «ci libera da quella tendenza attuale spesso più attraente di fabbricare in fretta sulle sabbie mobili dei risultati immediati che potrebbero produrre una rendita politica facile, rapida ed effimera, ma che non costruiscono la pienezza umana».
Il comitato norvegese che gli conferì il premio Nobel per la pace nel 1986 definì Wiesel un «messaggero dell’umanità» e «una delle guide spirituali più grandi in un mondo di violenza, di repressione e di razzismo». Fu autore di più di cinquanta opere — tradotte in numerosissime lingue — tra cui La notte (1958), racconto autobiografico, primo volume di una trilogia sull’inferno concentrazionario comprendente anche L’alba e Il giorno — considerato uno dei pilastri della letteratura della Shoah. In uno dei passi più noti del volume si legge: «Mai dimenticherò quella notte, la prima notte nel campo, che ha fatto della mia vita una lunga notte e per sette volte sprangata. Mai dimenticherò quel fumo». E più avanti: «Mai dimenticherò tutto ciò, anche se fossi condannato a vivere quanto Dio stesso. Mai».
Insignito di numerose onorificenze internazionali, nel 2006 il premier Ehud Olmert gli aveva offerto l’incarico di presidente dello Stato d’Israele: offerta che declinò perché si considerava «solo uno scrittore».
In eredità ha lasciato soprattutto l’appello alla responsabilità collettiva di fronte all’orrore e l’invito a unire la capacità di ogni persona a fare il bene. 
di Solène Tadié

domenica 3 luglio 2016

I doni provenienti dall'Assoluto

«Ogni dono buono e ogni dono perfetto è dall’alto, e discende dal Padre delle luci, nel quale non c’è alterazione o ombra di cambiamento» (Giacomo 1, 17). Egli, di sua volontà, ci ha generati tramite parola di verità affinché noi potessimo essere una primizia delle sue creature. Per questo, miei cari fratelli, ogni uomo sia svelto a udire, lento a parlare, lento all’ira; dato che l’ira di un uomo non ha niente a che fare con ciò che è giusto davanti a Dio. Perciò deponete ogni lordura e ogni rimasuglio di cattiveria, ed accogliete con docilità la parola che è stata impiantata in voi e che ha la potenza di rendere beate le vostre anime.
Queste parole sono così comprensibili, così innocenti; ed allora bisogna chiedersi quanti furono quelli che le hanno veramente comprese, che compresero che esse erano monete da esposizione, da ammirare più di tutti i tesori del mondo, ma anche il contante da usare nei rapporti quotidiani della vita. Per cui ti preghiamo — o Dio! — di creare a coloro che finora non hanno prestato attenzione ad esse orecchi propensi ad accoglierle; di guarire con la comprensione della parola i cuori inclini al fraintendimento quando si tratta di comprendere la parola; di piegare sotto l’obbedienza alla parola di salvezza il pensiero che si sta smarrendo; di dare all’anima angosciata la franchezza per osare di comprendere la parola; di far sì che coloro che l’hanno compresa siano beati e sempre più beati con il comprenderla sempre di nuovo. Amen.
di Søren Kierkegaard

venerdì 1 luglio 2016

Qumran: denaro per scontare i peccati

Tornano alla ribalta i manoscritti di Qumran. E si confermano una fonte di primaria importanza per la conoscenza del giudaismo e del cristianesimo antichi. L’ennesima conferma, molto più appassionante di tante fantasie, arriva ora da nuove letture di molti frammenti, mutili o danneggiati, sinora illeggibili, letture che sono state rese possibile da una sofisticata tecnologia.
Nell’arco di quattro anni e mezzo — scrive sul quotidiano israeliano «Haaretz» il giornalista Nir Hasson — un laboratorio istituito dalla Israel Antiquities Authority come parte del progetto della Leon Levy Dead Sea Scrolls Digital Library ha proceduto alla scansione di un gran numero di manoscritti: ogni frammento — in tutto, com’è noto, sono molte migliaia — è stato fotografato ventotto volte con tecniche ad alta risoluzione, usando luci con differenti lunghezze d’onda.
In alcuni casi la macchina fotografica ha rivelato lettere che il tempo aveva cancellato e che erano illeggibili perché la parte del frammento era bruciata. L’uso di questa sofisticata tecnologia ha destato un vivo interesse, anzitutto fra gli studiosi, perché ha offerto la possibilità di allargare l’interpretazione di testi biblici, soprattutto della Genesi.
Così, la copertura dell’arca di Noè viene descritta a forma di piramide, il ptil che Giuda dà a Tamar è identificata con la sua cintura, mentre la comunità di Qumran, dove vennero trovati i rotoli del Mar Morto, pensava che con il versamento di somme di denaro si sarebbero potuto ottenere il perdono per i propri peccati.
Durante una conferenza stampa, membri del dipartimento che lavoro a un dizionario storico per conto della Academy of the Hebrew Language, hanno presentato i primi risultati di questo ambizioso progetto. I ricercatori Alexey Yuditsky e Esther Haber hanno inoltre decodificato un frammento che parla del Giorno del giudizio, dove si descrive la figura misteriosa di Melchisedek, oggetto di speculazioni esegetiche e teologiche nel giudaismo e nel cristianesimo antichi, che reca in salvo “prigionieri” in mano al malvagio Belial.
Un altro ricercatore, Chanan Ariel, ha suggerito appunto che i peccati erano perdonati in virtù dell’anno sabbatico, come venivano condonati i debiti in denaro. Da qui la credenza che un peccato potesse essere trasformato in un debito in denaro: visione non diffusa nel giudaismo, ma che si ritrova secoli più tardi nella Chiesa medievale.
Riguardo all’episodio di Giuda che giace con la nuora Tamar travestita da prostituta, per secoli — ricorda il quotidiano israeliano — traduttori ed esegeti hanno dibattuto su che cosa significasse ptil, la parola usata per indicare ciò che Giuda aveva dato alla nuora: era stato suggerito “mantello”, “velo”, “corona di perle”. Le ricerche condotte sulla base delle nuove tecnologie hanno portato ad affermare che ptil significa semplicemente «la cintura con cui Giuda stringeva i pantaloni o la lunga tunica» ha affermato Moshe Bar-Asher, presidente dell’Academy of the Hebrew Language. Tutte le nuove parole, con le annesse interpretazioni, sono consultabili sul sito (Maagarim) dell’accademia. 

di Gabriele Nicolò