Si celebra con mostre, convegni e pubblicazioni il cinquecentesimo anniversario della nascita
del ghetto di Venezia, creato il 29 marzo 1516. È allora che il Senato veneziano,
dopo lunghe discussioni, accettò la presenza ebraica in città, purché relegata
in un luogo chiuso dal tramonto all’alba, dove gli ebrei non avrebbero potuto
vivere insieme ai cristiani.

L’esempio di Venezia sarebbe stato seguito ovunque
in Italia a partire dalla metà del Cinquecento, tanto che alla fine, con poche
eccezioni, tutte le città italiane dove
erano presenti degli ebrei li avrebbero chiusi in un ghetto. Lo scrive Anna Foa
aggiungendo che la storia del ghetto di Venezia è in realtà, al di là dell’aspetto
evidente della chiusura e della separazione dei mondi che comportava, una
storia vivace e vitale, che si intreccia strettamente non solo con la storia di
Venezia ma anche con quella del Mediterraneo. E il ghetto veneziano, a
differenza dei ghetti che nasceranno più tardi in Italia, a partire da quello
di Roma, su iniziativa essenzialmente della Chiesa, è un luogo dove
confluiscono e si intrecciano culture diverse (gli ebrei italiani, quelli
tedeschi, i sefarditi, i portoghesi), un ghetto insomma che potremmo definire
cosmopolita.
A questo ghetto dedica ora un libro (Venezia e il ghetto.
Cinquecento anni del “recinto degli ebrei”, Bollati Boringhieri, Torino, 2016,
pagine 187, euro 15), che copre tutto il periodo della sua durata, dal 1516
fino al 1797 e si estende anche all’oggi, una studiosa di valore, Donatella
Calabi, architetto e urbanista. Il suo sguardo è attento alla struttura
abitativa del ghetto, ai rapporti del ghetto, o meglio dei ghetti (perché a
Venezia erano tre, edificati in periodi successivi) con la città sia dal punto
di vista urbanistico che da quello dei contatti tra i due mondi, dei mestieri
esercitati dagli ebrei, della vita religiosa e comunitaria.
Il ghetto di Venezia nasce nel 1516 non, come poi a Roma e
in molti altri luoghi, dalla chiusura entro mura e portoni di una comunità
preesistente, ma dalla scelta attuata dalla Repubblica di accogliere infine gli
ebrei in città, dopo molte esitazioni e brevi periodi di tolleranza. Il luogo
prescelto è periferico rispetto alla città, l’isola di Cannaregio, lontana dal
cuore commerciale di Rialto, dove negli ultimi anni gli ebrei erano stati
ammessi in via eccezionale a causa della guerra di Chioggia che devastava
l’entroterra veneto. Erano, questi primi ebrei del ghetto, ebrei tedeschi,
prestatori, che avevano a lungo esercitato il prestito a Mestre a parte brevi periodi in cui erano stati ammessi in
città. Il primo ghetto è il ghetto Nuovo, dove le botteghe dei prestatori si
aprivano sul vasto campo tuttora esistente.
E dall’isola, dove c’erano state in origine fonderie di
rame, il ghetto trae il suo nome, geto, letto dai tedeschi con la g dura come
ghetto. Ghetto è quindi un toponimo, destinato a una lunga vita e a progressive
estensioni semantiche. Per il momento è usato a Venezia, e a fatica si
affermerà poi come il termine più diffuso per designare i quartieri chiusi
degli ebrei che nasceranno in Italia tra la metà del Cinquecento e il XVII secolo.
di Anna Foa
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