Ricordare la figura di Etty Hillesum in occasione del 70° anniversario dell'apertura dei cancelli da parte delle truppe sovietiche significa far memoria di una giovane donna la quale ha saputo portare a compimento un cammino di crescita e maturazione umana in soli tre anni ed avendo come sfondo la crudeltà nazista. Etty, infatti, partendo dall'essere una "moribonda legata a mezzo chilo di aspirine all'anno", giunge a divenire adulta e capace di scegliere di donare la propria vita senza paura di perderla.
Pur non possedendo una coscienza della fede cristiana, la Hillesum va dall'amore all'amore, percependo ed accogliendo quello che stava accadendo intorno a lei non con dei nervi di acciaio ma molto sensibili. Lei sa guardare in faccia la realtà, ma non vuole che l'odio e la crudeltà si impadronissero del suo cuore. Compie così un cammino di verità in sé che la porta ad assumere su di sé il dramma della shoah senza preoccuparsi troppo di stare al sicuro per offrire ai posteri un nuovo senso della storia e della realtà. Etti abita la realtà, non smette di sognare ed incontra nel profondo di quel pozzo che è il suo cuore Dio. Non si crea un mondo alternativo, bensì vuole entrare sempre più in quella tragica realtà per essere un "balsamo per molte ferite".
La fede appartiene all'umanità, è per lei il frutto di uno scavo interiore perseverante e costante e non tanto un dono della grazia divina. Etty inizia un dialogo ininterrotto con quella Realtà che viene chiamata Dio per trarre da Lui forza e sostentamento. Lei non cerca un mago capace di cambiare la storia, bensì un potente intercessore che è in grado di sostenerla dandole fortezza e misericordia.
Quale è allora il testamento che la Hillesum ci lascia? Lei ci esorta a non smettere mai di sognare, ad impegnarci responsabilmente nella costruzione di un mondo "diverso", ossia sempre più abitato dalla fratellanza e da piccolissimi atomi di amore, senza dei quali vi sarebbe solo odio e vendetta.
Si sacrifica l'essenza della fede ogni volta che si smarrisce la convinzione razionale del suo fondamento. La fede viene così ridotta ad essere una cieca credulità (Wolfhart Pannenberg)
martedì 27 gennaio 2015
giovedì 22 gennaio 2015
Etty Hillesum. Umanità radicata in Dio
Riporto l'intervista fatta allo scrittore Michael Davide Semeraro da parte del giornalista Arnaldo Casali oggi pomeriggio presso la libreria Paoline di Terni in occasione della presentazione del suo libro Etty Hillesum: umanità radicata in Dio, Paoline, Milano 2013.
Casali:
primo
sentimento curiosità…poi guardando la vita mi è sembrata una donna molto
emancipata. Molto apprezzata dalla Chiesa anche se non ho visto in lei né
conversione né risentimento per ciò che ha fatto. Una spiritualità della
ricerca interiore, molto individualista che fino vent’anni fa stata definita new age. Quello di Etty è un libro che
ti cambia e che produce una crescita interiore in chi legge. Etty sembra una
amica che ti dà dei consigli. Ricerca dell’Assoluto e fame di vita e
dell’umanità caratterizzano il suo percorso. Come è possibile allora che la
Chiesa l’abbia tanto apprezzata?
Semeraro:
Etty Hillesum è un personaggio particolare. Il suo Diario a differenza di
Frank, Weil… è stato chiuso in un cassetto fino al 1981. 11 quaderni giudicati
non interessanti. Il suo percorso, brevissimo (2 anni), è profetico: una
ragazza molto emancipata, fin troppo emancipata secondo le sue amiche, molto
più prossima alla nostra sensibilità postmoderna che all’epoca a lei coeva. Etty
Hillesum capovolge i fattori: è l’esperienza di trascendenza ad averla portata
alla conversione morale (ma non alla morale!!!). Dalla bulimia (quello che
mi piace me lo prendo) e dalla costipazione sui propri dolori e desideri
all’essere una donna totalmente aperta agli altri fino alla scelta di morire
(cosa che gli ebrei non lo hanno mai perdonato a lei). Etty Hillesum è la
grande scommessa di un cammino spirituale che inglobi la complessità e la
ambiguità (cfr. Thomas Merton). Lo spirito può animare anche una
antropologia difettosa (modernità assoluta di questo personaggio!!!). Lei
ci è vicina per aver accolto la drammaticità della sua struttura umana più
l’inferno nazista. La sua esperienza ha un livello di compatibilità
cristologica che raramente troviamo nei cristiani canonizzati. Basti pensare al
perdono per il nemico: è riuscita a metabolizzare il problema del male senza
scadere nella violenza. Non c’è nessun male attorno a noi che possa essere
assolutizzato.
Casali:
la Hillesum e la Stein…
Semeraro:
si sono incontrate a Westerbork insieme alla sorella della Stein Rose e si
intrattennero a parlare della loro infanzia. Sono morti in campo di sterminio
il 75% degli ebrei olandesi. Etty vede le monache umiliate e private del loro
abito ma rimane molto impressionata dalla loro calma…sembra che non abbiano mai
lasciato il loro chiostro. Etty faceva parte del Consiglio ebraico poiché
secondo la Gestapo il lavoro sporco con gli ebrei lo dovevano fare gli stessi
ebrei. Ogni ebreo aveva diritto ad un solo zaino per partire (generalmente il
mercoledì) ed infatti Etty si assilla nel domandarsi cosa mettere in questo
zaino. Lei è cosciente dello sterminio ma non smette di pensare al dopo.
Casali:
cosa ha vissuto il nazista per divenire così? Questa è la domanda che lei si
pone dinanzi all’atroce spettacolo che vede.
Semeraro:
il
male ha il potere di farci girare intorno al male, divenendo preda del male (se
ho un mal di denti divento un dente). Hitler non è il male ma secondo lei la
maschera di turno del male. Lei non identifica il male con l’esperienza del
male. Il male è una diminuzione del bene; lei vuole contestualizzare il
male aumentando il bene. Etty cerca di stare dove la situazione la pone e di
starci al meglio mettendoci del suo. Etty non identifica il male patito con
il male assoluto.
Casali:
ad Auschwitz ciò che veniva tolta era la dignità della persona…dove l’ha preso
questo amore per tutti?
Semeraro:
per Etty la questione della fede è una questione di pozzo e non di cisterna,
come invece fa il catechismo. Devi scavare fino a che non trovi l’acqua dentro
di te e non devi importarla da fuori. Quella di Etty è una esperienza molto
personale senza essere individualistica, tanto che manifesta una grande
apertura all’altro. Quando i suoi amici organizzano un finto rapimento per
portarla in Inghilterra lei rifiuta poiché afferma che la sua vita non vale più
degli altri (la Stein ha cercato invece di salvarsi sapendo di essere una
grande filosofa). La propria unicità non deve superare le unicità degli
altri. L’unica esperienza di unità interiore è scavare e così di unità con
gli altri, poiché prima o poi ci incontreremo. Restringe la spazialità per
guadagnare in profodità e, quindi, in condivisione con tutti.
Casali:
come Pasolini…
Semeraro:
sono personaggi che hanno saputo portare a compimento il loro percorso. Queste
persone hanno avuto dei cammini in cui si sono fracassati e sgualciti e dai
quali tutti però in seguito hanno potuto goderne in seguito. Il nazismo ha
fatto sembrare che non ci fosse pericolo in quello che stava avvenendo…ha preso
tutti alla sprovvista!
Casali:
Etty
ci richiama alla responsabilità. La vita è bella…
Semeraro:
…anche se non la sperimento come tale, come è stato per Etty Hillesum.
Etty Hillesum è la negazione del primato della
morale sulla mistica e noi siamo il frutto di questi qui.
Chiedo
io:
Quale
è il nuovo senso che la Hillesum vuole dare alle cose?
-
Il primo dovere per Etty è trasmettere
che il male non ha vinto. È partita cantando per il campo di sterminio. Si deve
trasmettere la luce e non il dolore vissuto…vorrei essere un balsamo per molte
ferire. Con il male si scherza poiché prendere sul serio il male è già farlo
vincere (ironia).
L’esperienza
dell’inginocchiarsi…
-
L’inginocchiarsi in bagno. Lei fa
l’esperienza fisica di poter entrare in contatto con lo spirito.
L’inginocchiarsi è tutta la preghiera credendo che attraverso la terra si possa
far esperienza dell’azione di Dio. La preghiera è il mezzo del contatto con la
propria interiorità per non lasciarsi coinvolgere dal reale senza negare quello
che sta avvenendo. La mia vita non è inutile ma irrilevante rispetto a
ciò di cui facciamo parte ma di cui non siamo il centro.
lunedì 12 gennaio 2015
Quando la libertà non è sinonimo di dialogo
Gli eventi accaduti in questi giorni a
Parigi hanno portato il mondo intero a focalizzare la propria attenzione su due
termini, “libertà” e “paura”. L’Europa multietnica e multiculturale si è
trovata d’un tratto costretta a fare i conti con il lato peggiore della
globalizzazione, ossia quello di aver portato il vuoto, il disorientamento e la
disumanizzazione, dopo aver reso il mondo più piccolo e tutti più vicini. Come scriveva
qualche anno fa lo storico Andrea Riccardi, la società globalizzata si mostra
essere «una società dove il pluralismo religioso genera relativismo o il suo
contrario, l’estremismo». L’Europa si sente minacciata dall’altro, dal diverso,
si guarda attorno con paura e preoccupazione, quasi vorrebbe rialzare quelle
frontiere e quelle mura che ha da tempo abbattuto per favorire gli scambi
economici.
Oltre la paura, la libertà. Parigi, e
non solo, si è trovata improvvisamente tappezzata da striscioni di vari colori
su cui era scritta questa parola, come se fosse essa la vera fonte della pace e
della sicurezza di un popolo o, peggio ancora, come se essa fosse il fine a cui
un essere umano deve anelare. Ma Parigi ha dimenticato che la libertà non è il
fine ma solo un mezzo utile per la realizzazione del bene comune. Parigi ha
dimenticato che la libertà di espressione, tanto osannata, non può mai contraddire
la libertà per il bene.
Non ci si può allora considerare liberi
di essere blasfemi ed offensivi, come non ci si può ritenere liberi di uccidere
gli altri. Parigi, allora, ci esorta a ripensare il termine “libertà”, che, a
mio giudizio, deve essere legato a quello di “incontro” e “dialogo”. Siamo
all’interno di un mondo al plurale, sempre più a rischio di fratture e
collassi, ma all’interno del quale il tema del dialogo emerge come prioritario
per accogliere la diversità. Come affermava nel 2008 il papa Benedetto XVI,
«occorre fare in modo che le persone accettino non soltanto l’esistenza della
cultura dell’altro, ma desiderino anche riceverne un arricchimento». Solo
un’educazione al dialogo può salvare l’Europa, in quanto esso è apportatore di
incontro e di vicinanza tra popoli e culture, ma per essere autentico deve fondarsi
sul rispetto per gli altri ed essere animato da uno spirito di riconciliazione
e fraternità. Se manca questo, le tante “libertà al genitivo” (di stampa, si
espressione, di parola, di studio, di lavoro, di circolazione…) non porteranno
mai la pace e la felicità tra uomini, i quali sono nati liberi per amare. La
libertà non può contraddire l’amore e si è liberi solo nella misura in cui si
ama e si rispetta l’altro e la sua cultura.
Scriveva, durante la Seconda Guerra
Mondiale, nel suo Diario l’ebrea Etty Hillesum: «Non ci sono confini tra gli
uomini sofferenti, si patisce sempre da una parte e dall’altra». Le atroci e
disumane immagini che hanno, dall’Europa come dall’Africa e dall’Oriente,
tempestato i nostri televisori ci hanno reso ancora una volta purtroppo attuali
queste sue parole nell’attesa che ci sia, come lei amava dire, «una nuova
fioritura».
giovedì 8 gennaio 2015
Il concetto di causalità
Il concetto di
causalità è uno dei temi nodali della metafisica e attraversa il pensiero di
filosofi come Platone, Aristotele e Tommaso. Platone prende le mosse
dall’individuazione del concetto di causa, cioè dell’autentica ragione che fa
sì che la realtà sia come effettivamente è. Nel Fedone, Platone fornisce due esempi, quello di Socrate in carcere e
quello dell’altezza e della bassezza rispettivamente di Simmia e Cebete. Stando
ai filosofi pluralisti (o “corporeisti”) la causa per cui Socrate si trovava in
carcere sarebbe stato il fatto che egli possedeva delle ossa, dei muscoli e
delle articolazioni, che gli consentivano di muoversi (cfr. Platone, Fedone, 98c-e). Questa tesi è assurda, soprattutto
alla luce del senso di giustizia che aveva animato l’intera vita di Socrate, e,
invece, dell’ingiustizia degli Ateniesi, che lo condannano. Nel secondo passo
(cfr. Ivi,
100a-101d) emergono
con più chiarezza le contraddizioni filosofiche dei pluralisti: se ciò che fa
essere Simmia più alto di Cebete (cioè la causa del suo esser alto) è la misura
della testa che essi avevano di differenza, né sarebbero scaturite due aporie:
1) una stessa cosa (la testa) sarebbe stata la causa dell’esser alto di Simmia
e dell’esser basso di Cebete (cioè, una stessa cosa avrebbe avuto due
conseguenze opposte); 2) una cosa di per sé piccola (considerata in rapporto a
tutto il corpo) dà vita a qualcosa di grande (Simmia). Ne segue che la causa
dell’essere alto di Simmia e dell’essere basso di Cebete non è la testa, ma è
la relazione (più o meno stretta) che ciascuno dei due ha con l’Idea di altezza
e di bassezza. Quindi la causa autentica dell’essere alto di Simmia è l’Idea di
altezza, quella dell’essere basso di Cebete l’Idea di bassezza. La causa
dell’esser bella della rosa bella non è il suo colore, la sua forma, il suo
profumo, ma la relazione che essa ha con l’Idea di bellezza (altrimenti non
potrei chiamare “belle” tutte le altre cose che hanno caratteristiche diverse
da quelle della rosa bella). Dunque la causa dell’essere delle cose e del loro
esser-così (esser tali) non può essere fisica, ma metafisica, cioè soprasensibile.
Interessante, a nostro
avviso, è l’interpretazione che Fabro compie della causalità platonica,
contenuta in gran parte nella sua dissertazione La difesa del principio di causa. In questo testo Fabro vuole
difendere la sua tesi che lega il principio di causalità con l’essere
partecipato. L’ente per partecipazione è ciò che dipende dall’essere per
essenza e, in quest’ultimo, trova la sua causa, sostiene Fabro e prosegue
evidenziando che l’essere per partecipazione non può essere tutto l’essere,
dato che è imperfetto, corrotto, mutevole. Nella nostra esperienza siamo sempre
in contatto con l’Essere che si partecipa, che si comunica agli enti attraverso
una gradazione dell’essere stesso. Non siamo mai dinanzi all’atto o alla forma
pura, che precedono, invece, quanto risulta essere imperfetto e limitato. Non
possiamo rinunciare, quindi, alla dottrina platonica della partecipazione[1].
Commenta, a questo riguardo, Pangallo facendosi interprete di Fabro, che
«l’attività dell’Essere che si comunica nella partecipazione (partecipazione
“ontologica”) può denominarsi “causalità”; il termine di questa attività (tutto
ciò che esiste) può denominarsi “effetto”. Senza questa partecipazione causale,
non sarebbero intelligibili gli enti in quanto enti per partecipazione e dunque
tutta la realtà resterebbe senza spiegazione e senza fondamento»[2].
Se vogliamo analizzare
il concetto di causalità presente in Aristotele è bene far riferimento ai
capitoli 6 – 9 del libro Λ della Metafisica,
dove il nucleo teoretico principale è proprio la causa prima. Il motore
immobile muove ma non è mosso e non è responsabile né di una causa materiale né
di una formale, dato che in esso non vi è materia alcuna e non genera
movimento. Si può trattare, allora, di una causa efficiente e anche di una
causa finale. A questo altro aspetto viene dedicato da Aristotele il capitolo 7
del libro Λ della sua Metafisica. Il
discorso ritorna proprio sull’importanza di trovare qualcosa che muova senza
essere mosso, che sia eterno ed in atto. Il primo paragone, che lo Stagirita
trova, è con l’oggetto del desiderio e della intelligenza, ossia con il bello
(cfr. Met., Λ 7, 1072a25-28). Per
Aristotele l’intelletto è mosso, quindi, dall’intelligibile (cfr. Met. Λ 7, 1072a30) e,
trattando della prima tra le sostanze intelligibili, il Filosofo pensa al
motore immobile, allontanandosi dalla sostanza prima di Platone, ossia
dall’Uno.
Analizzando il pensiero
di Tommaso d’Aquino, ci accorgiamo che possiamo suddividere le cause in due
generi, la causa univoca e la causa analoga. La causa univoca appartiene al
divenire e costituisce la causalità predicamentale; la causa analoga, invece, è
propria dell’essere e va a costituire la causalità trascendentale. A questo
riguardo, Pangallo approfondisce la sua analisi, affermando che la gradazione
intensiva è propria della causalità trascendentale e non di quella
predicamentale e, per sostenere la sua tesi, pone l’esempio della animalità[3].
Per Tommaso l’essere viene derivato in due momenti differenti, che possiamo
definire uno immanente ed uno trascendente. Quello immanente è derivato dalla
forma sostanziale ed è predicamentale, mentre quello trascendente proviene
dalla causa efficiente.
Nella nozione di
causalità aristotelica si nota la mancanza della nozione metafisica di
partecipazione, di stampo prettamente platonico: ogni ente finito è un ente per
partecipazione rispetto al Primo Ente, che in Tommaso è Dio. Nella nozione di
Dio come Causa Prima trascendente ogni ordine di cause, l’Aquinate trova la
pista risolutiva per salvaguardare l’unità dell’essere e compiere la sintesi
tra il pensiero di Platone e quello di Aristotele. Commentando il libro XII della
Metafisica di Aristotele, Tommaso
interpreta questo pensiero evidenziando come Dio non causi soltanto dando
inizio al movimento del mondo, ma comunicandogli anche l’essere e mantenendolo
perpetuamente nella sua sostanza. In Dio come Causa Prima, troviamo l’unità tra
l’essere, la vita e il comprendere. La Causa Prima diviene personale, perciò
l’atto di essere diviene allo stesso tempo atto di amore e atto di intendere
«libero, infinito, perfezione suprema, fondamento dell’esistenza di ogni ente, di
ogni intelligente, e di ogni amante»[4]. Conclude
così Pangallo che «Dio come Prima Causa è causa perché tutte le altre cause
siano cause nell’ambito del divenire, dove l’intrecciarsi delle causalità
create, nella sua contingenza, rimanda sempre all’Essere divino quanto
all’intelligibilità intrinseca, pur rimanendo salva la differenza ontologica»[5].
In questo modo non possiamo ritenere che nel pensiero tomista la Causa Prima
oscuri la causalità predicamentale; le cause seconde, infatti, sono anch’esse
comunicazione dell’essere, sempre in relazione al loro ordine. La causalità
creaturale si esprime, poi, tramite la forma od essenza o natura dell’ente,
ossia per mezzo di quel principio metafisico che riceve l’essere da Dio e lo
limita determinandolo nei singoli enti.
[1] Cornelio Fabro, “La difesa del principio di
causa”, in Esegesi tomistica,
PUL, Roma 1969, 40–41.
[2] Mario Pangallo, Il principio
di causalità nella metafisica di S. Tommaso. Saggio di ontologia tomista alla
luce dell’interpretazione di Cornelio Fabro, LEV, Città del Vaticano 1991,
23.
[3] Cfr. Ivi, 33.
[5] Ivi, 38.
mercoledì 7 gennaio 2015
Essere ed essenza
Tommaso d’Aquino, nella
storia della metafisica, affronta nel De
ente et essentia la fondamentale questione del rapporto tra essere ed
essenza sia in relazione a Dio che agli spiriti finiti. Tra essenza ed essere
vi è infatti una interessante differenza. L’essenza è ciò per cui ogni cosa
possiede il suo essere, è ciò che fa in modo che ogni cosa sia quella
determinata cosa e non un’altra. L’essenza viene espressa dalla definizione e
la si può indicare con il nome di quiddità nel momento in cui diviene un ente,
ossia un essere in atto. Infatti per essenza Tommaso intende propriamente ciò per mezzo del quale e nel quale un ente
possiede l’essere (cfr. De ente et
essentia, 1,79)[1].
L’essere è il tutto, la totalità che viene studiata da quella scienza che è la
metafisica. Nelle creature l’essere viene distinto grazie all’essenza, che per
Tommaso è atto d’essere.
L’essenza è la verità
di cui si predica l’essere e coincide usualmente con una definizione. A sua
volta l’essere è ciò di cui si predica tale definizione. In questo modo sembra
abbastanza chiaro che l’essenza si predica di ciò che è, di un ente, che è
participio presente del verbo essere. L’ente è tutto ciò di cui si predica
l’atto d’essere, cioè che esso esiste ed è qualcosa. Questo qualcosa che l’ente
è in atto, ossia in un modo determinato che fa
sì che sia quella cosa e non altro, è l’essenza. L’ente è allora
l’essere in quanto atto. L’ente e l’essenza sono, quindi, presenti in tutte le
sostanze, sia che queste sono composte sia che sono semplici.
Quando Tommaso tratta
di sostanze composte (cfr. De ente et
essentia, 2, 81ss) fa riferimento a quelle che sono frutto della
combinazione della forma con la materia e la cui essenza comprende sia la forma
che la materia. Infatti, a differenza di Averroè, l’Aquinate sostiene che
«l’essenza è ciò che viene espresso attraverso la definizione della cosa, e la
definizione delle sostanze naturali contiene non soltanto la forma, ma anche la
materia […]. È chiaro dunque che l’essenza comprende la materia e la forma»,
altrimenti «tra le definizioni naturali e quelle matematiche non ci sarebbe
alcuna differenza» (De ente et essentia,
2, 83). Ma perché si produca un individuo ci deve essere una materia signata quantitate, ossia una determinata
quantità di materia che, componendosi con la forma, comporti l’attuazione
dell’ente. Questo è abbastanza evidente se pensiamo alla differenza tra Socrate
e la definizione di un uomo: Socrate lo consideriamo un individuo in quanto la
forma entra in composizione con una porzione quantitativamente signata di materia; nella definizione di
uomo non stiamo in presenza di un individuo, poiché la forma entra in
composizione con una materia non signata.
Socrate ed uomo sono entrambi un’essenza, ma solo Socrate è un ente, ossia una
quiddità determinata in atto (cfr. De
ente et essentia, 2, 85.87).
Nelle sostanze separate
(cfr. De ente et essentia, 4, 107ss),
come l’anima e le intelligenze, la distinzione tra essere ed essenza è più
significativa, poiché per Tommaso esse posseggono una capacità intellettiva che
è il loro stesso modo di essere e che se fosse affetta dalla materia non
sarebbe in grado di cogliere l’universalità. Al tempo stesso, però, non possono
essere considerate al pari della Causa prima. Secondo l’Aquinate esse devono
essere il risultato della composizione tra la forma e l’essere aventi come
essenza solo la forma. Per questo motivo esse non possono totalmente realizzare
in atto la loro essenza, a causa della presenza in esse della potenzialità e
quindi del divenire. Infatti, a differenza della Causa prima, possiedono un
essere non altrettanto semplice, ma limitato e finito poiché derivato
dall’Essere.
Generalmente, come
abbiamo detto sopra, nelle creature essere ed essenza sono ben distinti, anche
se evidenzia Tommaso l’essenza sia priva di materia. In Dio le cose sono ben
diverse, dato che in Lui essere ed essenza coincidono. Per l’Aquinate la Causa
prima ha il privilegio di possedere un essere che è in grado di realizzare
pienamente in atto la propria essenza. Essa è ente in forma totale ed assoluta,
senza la presenza della minima potenzialità e quindi del più piccolo divenire.
Dio non possiede, quindi, una quiddità, una misura di essere, la sua essenza
non rientra in un genere. La cosiddetta deità,
infatti, non può essere considerata come un genere che si realizza in atto in
un individuo, bensì è l’essere stesso in atto. Proprio per questo motivo a Dio
si attribuiscono tutte le perfezioni che si possono realizzare in atto
nell’essere. Scrive Tommaso verso la conclusione del suo saggio: «le perfezioni
[…] in Lui formano un’unità, mentre nelle altre cose rimangono distinte tra
loro» (De ente et essentia, 5, 121).
Per questo motivo
possiamo sostenere che l’unità e l’identità riguardano l’essere, mentre la
diversità e la molteplicità la determinazione dell’essere, ossia l’essenza.
Questa distinzione tra essere ed essenza permette all’ente di essere al tempo
stesso interamente uno ed interamente diverso senza subire contraddizione.
L’ente, infatti, è una sintesi di essere ed essenza e l’essenza non è
concepibile se non in rapporto all’essere. L’essere si determina nell’essenza,
ma in questo processo di determinazione esso si mantiene in se stesso, si
mantiene nella sua unità.
Dal rapporto tra essere
ed essenza è possibile riconoscere all’ente il suo essere uno come tutti gli
altri enti ed il suo essere molteplice e, quindi, diverso da tutti gli altri
enti. L’ente è interamente essere come è interamente determinazione.
La distinzione fra
essenza ed essere non riguarda però solo la sostanza. Per il Doctor Angelicus essa concerne anche gli
accidenti. Questi, infatti, sono definibili e, quindi, possono avere una
essenza, anche se in maniera diversa rispetto alle sostanze. Gli accidenti
esistono sempre in relazione ad una sostanza, per cui nella definizione di un
accidente deve sempre comparire un soggetto a cui esso fa riferimento. Per
questo motivo l’essenza degli accidenti deve essere pensata incompleta (cfr. De ente et essentia, 6, 127ss). Causa
degli accidenti, infatti, è la sostanza, che rappresenta la realtà prima e
suprema del genere dell’ente.
Intorno alla questione
del rapporto tra essenza ed essere Tommaso ha saputo rileggere tutto il reale, sia
nella sua prospettiva metafisica (semplicità divina, composizione di essenza ed
esistenza negli enti creati, composizione fisica di materia e forma nelle
sostanze composte, composizione tra soggetto ed accidente) che in quella
logica.
[1] Con il termine "natura" Tommaso intende
l’essenza della cosa per la quale essa ha una relazione con la propria
operazione. In questo modo, per esempio, dalla proprietà di attirare il ferro
riconosco la natura del magnete (cfr. De
ente et essentia, 1, 79).
venerdì 2 gennaio 2015
La metafisica
La filosofia prima o
metafisica è quella parte della filosofia che si occupa del problema dei
fondamenti dell’essere. In questo modo questa disciplina si interessa delle
cause e dei principi primi. Tutte le scienze, infatti, indagano intorno a delle
cause specifiche, mentre la metafisica si occupa della struttura causale della
realtà. Questa spiegazione per cause permette alla filosofia prima di
concludere che la realtà è razionale, in quanto spiegabile a partire dalle
cause e non da elementi ad essa estranei. A differenza delle altre scienze,
allora, la metafisica non si interessa di studiare un essere particolare, ma si
pone la domanda circa l’esistenza di un essere generico, un essere in quanto
essere. Aristotele, per esempio, riprende il problema parmenideo intorno
all’essere, dichiarandone
l’inconsistenza. Oltre a ciò è sua materia di indagine anche la sostanza
con i suoi vari significati. Aristotele, in questo caso, analizza la sostanza
in quanto forma o essenza e si concentra, in questo modo, soprattutto sul
significato che è più utile alla conoscenza. Inoltre la metafisica studia il
principio primo e il fine ultimo e la sostanza soprasensibile, essendo essa
stessa teologia.
Come ebbe modo di
affermare Aniceto Molinaro, la filosofia prima può essere considerata come la
scienza che studia l’ ‘è’, l’essere della cosa. Uno studio, dunque, veramente
filosofico e che, per il fatto che esso si occupa dell’essere, si identifica proprio
con la metafisica, la quale si attiene all’identità, senza escludere la distinzione,
fra essere e verità. La filosofia, infatti, è l’essere nella espressione della
sua verità[1].
Quindi, ricapitolando,
possiamo giustamente affermare che la metafisica sia una scienza dell’ente in
quanto ente, o in maniera equivalente, dell’ente in quanto essere. Essa studia
l’ente precisamente in ciò che lo determina come ente, in ciò che permette
all’ente di essere propriamente ente. Ossia la metafisica studia l’essere
dell’ente, dato che l’essere è ciò per cui l’ente è ente.
Come dicevamo sopra la
metafisica è quella scienza che si occupa del fondamento dell’ente. E l’essere
è il fondamento dell’ente. Infatti l’essere è il fondamento incondizionato
dell’ente: non possiede condizioni previe, ma condiziona tutto. Per essere
maggiormente precisi, se questa incondizionatezza è immediata, la metafisica
tratterà dell’essere dell’ente, mentre se è assoluta, essa si occuperà
dell’Essere Assoluto, fondamento ultimo dell’essere dell’ente.
La metafisica rimanda
anche alla sfera della totalità, in quanto essa ha proprio come oggetto la
totalità dell’ente a partire dall’essere. In questo modo è inevitabile che la
metafisica, se considera l’ente nel suo essere, debba considerare l’ente nella
sua totalità. Dire ciò significa sottolineare come al di fuori dell’essere non
vi sia che il nulla, che è appunto non-essere. L’essere, che è oggetto della
metafisica, ha come caratteristiche quelle di essere illimitato,
inoltrepassabile ed insuperabile. Come afferma Molinaro, «l’essere è […]
l’orizzonte assoluto, l’apertura totale, e cioè l’unità e la totalità in cui
ogni ente, tutto l’ente, l’ente in quanto tale, consiste. E la metafisica è la
scienza dell’ente in questa sua unità e totalità e, quindi, scienza della
totalità»[2].
Affinché, allora, si
possa parlare di metafisica, si deve intendere una scienza che abbia come
oggetto la totalità, che abbracci l’intero, in quanto studio dell’ente in
quanto ente ed, in particolar modo, dell’essere come fondamento della totalità
dell’ente. In questo modo, tanto è esteso il suo oggetto di studio, tanto deve
estendersi la metafisica, che diviene, così, la scienza totale. Il suo oggetto,
infatti, è la totalità dell’essere e la totalità della scienza.
Se poi il pensiero è
sempre e solo pensiero dell’essere, la totalità dell’essere riguarda la
totalità del pensiero. Vi è metafisica nella misura in cui vi sia il suo
oggetto, l’essere nella sua totalità. Proprio a partire dall’oggetto, di quella
che dicevamo essere la filosofia prima, possiamo capire allora come sia
importante evidenziare la differenza che intercorre tra la metafisica come
scienza e le scienze determinate. Quest’ultime sono appunto determinate, in
quanto si occupano di un determinato settore della realtà e, quindi, la loro
natura è di essere parziali e controvertibili. Sono cioè scienze capaci di
errore, di revisione e di falsificazione. L’oggetto di cui si occupa, invece,
la metafisica, fa sì che la sua scienza sia incontrovertibile, non soggetta
all’errore o ad essere smentita.
Trattando dell’oggetto
di studio della filosofia prima è necessaria un’ulteriore precisazione. Il
fatto che la metafisica sia scienza totale non significa che essa sia una
scienza di tutto, bensì che è la
scienza del tutto. Questo è
importante, poiché non si deve confondere la filosofia prima con il sapere
enciclopedico, intendendo il tutto cioè in modo quantitativo, ossia legato alla
conoscenza determinata di ogni cosa però nella sua determinatezza. Il tutto,
invece, è da intendersi proprio come lo stesso essere, nel quale trova posto
ogni singola determinazione. Per cui studiando il tutto non equivale a dire che
la metafisica sappia ogni singola determinazione.
Per quanto il termine
‘metafisica’ abbia avuto un’origine estrinseca, designando i libri ‘successivi
a quelli di fisica’ (metà tà physikà) nell’ordinamento del corpus aristotelico
operato nel I sec. d.C. da Andronico, esso esprime adeguatamente la natura di
questa scienza, in quanto essa procede al di là della fisica (la prima delle
scienze particolari), per raggiungere il fondamento comune su cui tutte le
scienze particolari si fondano e determinarne l’ordinamento. La denominazione
di ‘filosofia prima’, che è quella data da Aristotele, mostra con chiarezza
questo carattere: la metafisica è prima perché tratta dell’oggetto cui tutte le
scienze particolari si riferiscono, e delinea i principi da cui tutte
discendono. Nell’opera di Aristotele, la concezione della metafisica come
teologia, cioè come scienza dell’essere più alto e perfetto dal quale tutti gli
altri esseri dipendono, si intreccia con quella della metafisica come ontologia,
cioè come scienza che studia i caratteri fondamentali dell’essere in quanto
essere (teoria della sostanza), che nelle sue determinazioni è oggetto di tutte
le altre scienze.
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