martedì 27 gennaio 2015

Etty Hillesum: per non dimenticare

Ricordare la figura di Etty Hillesum in occasione del 70° anniversario dell'apertura dei cancelli da parte delle truppe sovietiche significa far memoria di una giovane donna la quale ha saputo portare a compimento un cammino di crescita e maturazione umana in soli tre anni ed avendo come sfondo la crudeltà nazista. Etty, infatti, partendo dall'essere una "moribonda legata a mezzo chilo di aspirine all'anno", giunge a divenire adulta e capace di scegliere  di donare la propria vita senza paura di perderla.
Pur non possedendo una coscienza della fede cristiana, la Hillesum va dall'amore all'amore, percependo ed accogliendo quello che stava accadendo intorno a lei non con dei nervi di acciaio ma molto sensibili. Lei sa guardare in faccia la realtà, ma non vuole che l'odio e la crudeltà si impadronissero del suo cuore. Compie così un cammino di verità in sé che la porta ad assumere su di sé il dramma della shoah senza preoccuparsi troppo di stare al sicuro per offrire ai posteri un nuovo senso della storia e della realtà. Etti abita la realtà, non smette di sognare ed incontra nel profondo di quel pozzo che è il suo cuore Dio. Non si crea un mondo alternativo, bensì vuole entrare sempre più in quella tragica realtà per essere un "balsamo per molte ferite".
La fede appartiene all'umanità, è per lei il frutto di uno scavo interiore perseverante e costante e non tanto un dono della grazia divina. Etty inizia un dialogo ininterrotto con quella Realtà che viene chiamata Dio per trarre da Lui forza e sostentamento. Lei non cerca un mago capace di cambiare la storia, bensì un potente intercessore che è in grado di sostenerla dandole fortezza e misericordia.
Quale è allora il testamento che la Hillesum ci lascia? Lei ci esorta a non smettere mai di sognare, ad impegnarci responsabilmente nella costruzione di un mondo "diverso", ossia sempre più abitato dalla fratellanza e da piccolissimi atomi di amore, senza dei quali vi sarebbe solo odio e vendetta.

giovedì 22 gennaio 2015

Etty Hillesum. Umanità radicata in Dio


Riporto l'intervista fatta allo scrittore Michael Davide Semeraro da parte del giornalista Arnaldo Casali oggi pomeriggio presso la libreria Paoline di Terni in occasione della presentazione del suo libro Etty Hillesum: umanità radicata in Dio, Paoline, Milano 2013.
 
Casali: primo sentimento curiosità…poi guardando la vita mi è sembrata una donna molto emancipata. Molto apprezzata dalla Chiesa anche se non ho visto in lei né conversione né risentimento per ciò che ha fatto. Una spiritualità della ricerca interiore, molto individualista che fino vent’anni fa stata definita new age. Quello di Etty è un libro che ti cambia e che produce una crescita interiore in chi legge. Etty sembra una amica che ti dà dei consigli. Ricerca dell’Assoluto e fame di vita e dell’umanità caratterizzano il suo percorso. Come è possibile allora che la Chiesa l’abbia tanto apprezzata?

Semeraro: Etty Hillesum è un personaggio particolare. Il suo Diario a differenza di Frank, Weil… è stato chiuso in un cassetto fino al 1981. 11 quaderni giudicati non interessanti. Il suo percorso, brevissimo (2 anni), è profetico: una ragazza molto emancipata, fin troppo emancipata secondo le sue amiche, molto più prossima alla nostra sensibilità postmoderna che all’epoca a lei coeva. Etty Hillesum capovolge i fattori: è l’esperienza di trascendenza ad averla portata alla conversione morale (ma non alla morale!!!). Dalla bulimia (quello che mi piace me lo prendo) e dalla costipazione sui propri dolori e desideri all’essere una donna totalmente aperta agli altri fino alla scelta di morire (cosa che gli ebrei non lo hanno mai perdonato a lei). Etty Hillesum è la grande scommessa di un cammino spirituale che inglobi la complessità e la ambiguità (cfr. Thomas Merton). Lo spirito può animare anche una antropologia difettosa (modernità assoluta di questo personaggio!!!). Lei ci è vicina per aver accolto la drammaticità della sua struttura umana più l’inferno nazista. La sua esperienza ha un livello di compatibilità cristologica che raramente troviamo nei cristiani canonizzati. Basti pensare al perdono per il nemico: è riuscita a metabolizzare il problema del male senza scadere nella violenza. Non c’è nessun male attorno a noi che possa essere assolutizzato.

Casali: la Hillesum e la Stein…

Semeraro: si sono incontrate a Westerbork insieme alla sorella della Stein Rose e si intrattennero a parlare della loro infanzia. Sono morti in campo di sterminio il 75% degli ebrei olandesi. Etty vede le monache umiliate e private del loro abito ma rimane molto impressionata dalla loro calma…sembra che non abbiano mai lasciato il loro chiostro. Etty faceva parte del Consiglio ebraico poiché secondo la Gestapo il lavoro sporco con gli ebrei lo dovevano fare gli stessi ebrei. Ogni ebreo aveva diritto ad un solo zaino per partire (generalmente il mercoledì) ed infatti Etty si assilla nel domandarsi cosa mettere in questo zaino. Lei è cosciente dello sterminio ma non smette di pensare al dopo.

Casali: cosa ha vissuto il nazista per divenire così? Questa è la domanda che lei si pone dinanzi all’atroce spettacolo che vede.

Semeraro: il male ha il potere di farci girare intorno al male, divenendo preda del male (se ho un mal di denti divento un dente). Hitler non è il male ma secondo lei la maschera di turno del male. Lei non identifica il male con l’esperienza del male. Il male è una diminuzione del bene; lei vuole contestualizzare il male aumentando il bene. Etty cerca di stare dove la situazione la pone e di starci al meglio mettendoci del suo. Etty non identifica il male patito con il male assoluto.

Casali: ad Auschwitz ciò che veniva tolta era la dignità della persona…dove l’ha preso questo amore per tutti?

Semeraro: per Etty la questione della fede è una questione di pozzo e non di cisterna, come invece fa il catechismo. Devi scavare fino a che non trovi l’acqua dentro di te e non devi importarla da fuori. Quella di Etty è una esperienza molto personale senza essere individualistica, tanto che manifesta una grande apertura all’altro. Quando i suoi amici organizzano un finto rapimento per portarla in Inghilterra lei rifiuta poiché afferma che la sua vita non vale più degli altri (la Stein ha cercato invece di salvarsi sapendo di essere una grande filosofa). La propria unicità non deve superare le unicità degli altri. L’unica esperienza di unità interiore è scavare e così di unità con gli altri, poiché prima o poi ci incontreremo. Restringe la spazialità per guadagnare in profodità e, quindi, in condivisione con tutti.

Casali: come Pasolini…

Semeraro: sono personaggi che hanno saputo portare a compimento il loro percorso. Queste persone hanno avuto dei cammini in cui si sono fracassati e sgualciti e dai quali tutti però in seguito hanno potuto goderne in seguito. Il nazismo ha fatto sembrare che non ci fosse pericolo in quello che stava avvenendo…ha preso tutti alla sprovvista!

Casali: Etty ci richiama alla responsabilità. La vita è bella…

Semeraro: …anche se non la sperimento come tale, come è stato per Etty Hillesum.

Etty Hillesum è la negazione del primato della morale sulla mistica e noi siamo il frutto di questi qui.

 

Chiedo io:

Quale è il nuovo senso che la Hillesum vuole dare alle cose?

-          Il primo dovere per Etty è trasmettere che il male non ha vinto. È partita cantando per il campo di sterminio. Si deve trasmettere la luce e non il dolore vissuto…vorrei essere un balsamo per molte ferire. Con il male si scherza poiché prendere sul serio il male è già farlo vincere (ironia).

L’esperienza dell’inginocchiarsi…

-          L’inginocchiarsi in bagno. Lei fa l’esperienza fisica di poter entrare in contatto con lo spirito. L’inginocchiarsi è tutta la preghiera credendo che attraverso la terra si possa far esperienza dell’azione di Dio. La preghiera è il mezzo del contatto con la propria interiorità per non lasciarsi coinvolgere dal reale senza negare quello che sta avvenendo. La mia vita non è inutile ma irrilevante rispetto a ciò di cui facciamo parte ma di cui non siamo il centro.

lunedì 12 gennaio 2015

Quando la libertà non è sinonimo di dialogo



Gli eventi accaduti in questi giorni a Parigi hanno portato il mondo intero a focalizzare la propria attenzione su due termini, “libertà” e “paura”. L’Europa multietnica e multiculturale si è trovata d’un tratto costretta a fare i conti con il lato peggiore della globalizzazione, ossia quello di aver portato il vuoto, il disorientamento e la disumanizzazione, dopo aver reso il mondo più piccolo e tutti più vicini. Come scriveva qualche anno fa lo storico Andrea Riccardi, la società globalizzata si mostra essere «una società dove il pluralismo religioso genera relativismo o il suo contrario, l’estremismo». L’Europa si sente minacciata dall’altro, dal diverso, si guarda attorno con paura e preoccupazione, quasi vorrebbe rialzare quelle frontiere e quelle mura che ha da tempo abbattuto per favorire gli scambi economici.
Oltre la paura, la libertà. Parigi, e non solo, si è trovata improvvisamente tappezzata da striscioni di vari colori su cui era scritta questa parola, come se fosse essa la vera fonte della pace e della sicurezza di un popolo o, peggio ancora, come se essa fosse il fine a cui un essere umano deve anelare. Ma Parigi ha dimenticato che la libertà non è il fine ma solo un mezzo utile per la realizzazione del bene comune. Parigi ha dimenticato che la libertà di espressione, tanto osannata, non può mai contraddire la libertà per il bene.
Non ci si può allora considerare liberi di essere blasfemi ed offensivi, come non ci si può ritenere liberi di uccidere gli altri. Parigi, allora, ci esorta a ripensare il termine “libertà”, che, a mio giudizio, deve essere legato a quello di “incontro” e “dialogo”. Siamo all’interno di un mondo al plurale, sempre più a rischio di fratture e collassi, ma all’interno del quale il tema del dialogo emerge come prioritario per accogliere la diversità. Come affermava nel 2008 il papa Benedetto XVI, «occorre fare in modo che le persone accettino non soltanto l’esistenza della cultura dell’altro, ma desiderino anche riceverne un arricchimento». Solo un’educazione al dialogo può salvare l’Europa, in quanto esso è apportatore di incontro e di vicinanza tra popoli e culture, ma per essere autentico deve fondarsi sul rispetto per gli altri ed essere animato da uno spirito di riconciliazione e fraternità. Se manca questo, le tante “libertà al genitivo” (di stampa, si espressione, di parola, di studio, di lavoro, di circolazione…) non porteranno mai la pace e la felicità tra uomini, i quali sono nati liberi per amare. La libertà non può contraddire l’amore e si è liberi solo nella misura in cui si ama e si rispetta l’altro e la sua cultura.
Scriveva, durante la Seconda Guerra Mondiale, nel suo Diario l’ebrea Etty Hillesum: «Non ci sono confini tra gli uomini sofferenti, si patisce sempre da una parte e dall’altra». Le atroci e disumane immagini che hanno, dall’Europa come dall’Africa e dall’Oriente, tempestato i nostri televisori ci hanno reso ancora una volta purtroppo attuali queste sue parole nell’attesa che ci sia, come lei amava dire, «una nuova fioritura».

giovedì 8 gennaio 2015

Il concetto di causalità


Il concetto di causalità è uno dei temi nodali della metafisica e attraversa il pensiero di filosofi come Platone, Aristotele e Tommaso. Platone prende le mosse dall’individuazione del concetto di causa, cioè dell’autentica ragione che fa sì che la realtà sia come effettivamente è. Nel Fedone, Platone fornisce due esempi, quello di Socrate in carcere e quello dell’altezza e della bassezza rispettivamente di Simmia e Cebete. Stando ai filosofi pluralisti (o “corporeisti”) la causa per cui Socrate si trovava in carcere sarebbe stato il fatto che egli possedeva delle ossa, dei muscoli e delle articolazioni, che gli consentivano di muoversi (cfr. Platone, Fedone, 98c-e). Questa tesi è assurda, soprattutto alla luce del senso di giustizia che aveva animato l’intera vita di Socrate, e, invece, dell’ingiustizia degli Ateniesi, che lo condannano. Nel secondo passo (cfr. Ivi, 100a-101d) emergono con più chiarezza le contraddizioni filosofiche dei pluralisti: se ciò che fa essere Simmia più alto di Cebete (cioè la causa del suo esser alto) è la misura della testa che essi avevano di differenza, né sarebbero scaturite due aporie: 1) una stessa cosa (la testa) sarebbe stata la causa dell’esser alto di Simmia e dell’esser basso di Cebete (cioè, una stessa cosa avrebbe avuto due conseguenze opposte); 2) una cosa di per sé piccola (considerata in rapporto a tutto il corpo) dà vita a qualcosa di grande (Simmia). Ne segue che la causa dell’essere alto di Simmia e dell’essere basso di Cebete non è la testa, ma è la relazione (più o meno stretta) che ciascuno dei due ha con l’Idea di altezza e di bassezza. Quindi la causa autentica dell’essere alto di Simmia è l’Idea di altezza, quella dell’essere basso di Cebete l’Idea di bassezza. La causa dell’esser bella della rosa bella non è il suo colore, la sua forma, il suo profumo, ma la relazione che essa ha con l’Idea di bellezza (altrimenti non potrei chiamare “belle” tutte le altre cose che hanno caratteristiche diverse da quelle della rosa bella). Dunque la causa dell’essere delle cose e del loro esser-così (esser tali) non può essere fisica, ma metafisica, cioè soprasensibile.

Interessante, a nostro avviso, è l’interpretazione che Fabro compie della causalità platonica, contenuta in gran parte nella sua dissertazione La difesa del principio di causa. In questo testo Fabro vuole difendere la sua tesi che lega il principio di causalità con l’essere partecipato. L’ente per partecipazione è ciò che dipende dall’essere per essenza e, in quest’ultimo, trova la sua causa, sostiene Fabro e prosegue evidenziando che l’essere per partecipazione non può essere tutto l’essere, dato che è imperfetto, corrotto, mutevole. Nella nostra esperienza siamo sempre in contatto con l’Essere che si partecipa, che si comunica agli enti attraverso una gradazione dell’essere stesso. Non siamo mai dinanzi all’atto o alla forma pura, che precedono, invece, quanto risulta essere imperfetto e limitato. Non possiamo rinunciare, quindi, alla dottrina platonica della partecipazione[1]. Commenta, a questo riguardo, Pangallo facendosi interprete di Fabro, che «l’attività dell’Essere che si comunica nella partecipazione (partecipazione “ontologica”) può denominarsi “causalità”; il termine di questa attività (tutto ciò che esiste) può denominarsi “effetto”. Senza questa partecipazione causale, non sarebbero intelligibili gli enti in quanto enti per partecipazione e dunque tutta la realtà resterebbe senza spiegazione e senza fondamento»[2].

Se vogliamo analizzare il concetto di causalità presente in Aristotele è bene far riferimento ai capitoli 6 – 9 del libro Λ della Metafisica, dove il nucleo teoretico principale è proprio la causa prima. Il motore immobile muove ma non è mosso e non è responsabile né di una causa materiale né di una formale, dato che in esso non vi è materia alcuna e non genera movimento. Si può trattare, allora, di una causa efficiente e anche di una causa finale. A questo altro aspetto viene dedicato da Aristotele il capitolo 7 del libro Λ della sua Metafisica. Il discorso ritorna proprio sull’importanza di trovare qualcosa che muova senza essere mosso, che sia eterno ed in atto. Il primo paragone, che lo Stagirita trova, è con l’oggetto del desiderio e della intelligenza, ossia con il bello (cfr. Met., Λ 7, 1072a25-28). Per Aristotele l’intelletto è mosso, quindi, dall’intelligibile (cfr. Met. Λ 7, 1072a30) e, trattando della prima tra le sostanze intelligibili, il Filosofo pensa al motore immobile, allontanandosi dalla sostanza prima di Platone, ossia dall’Uno.

Analizzando il pensiero di Tommaso d’Aquino, ci accorgiamo che possiamo suddividere le cause in due generi, la causa univoca e la causa analoga. La causa univoca appartiene al divenire e costituisce la causalità predicamentale; la causa analoga, invece, è propria dell’essere e va a costituire la causalità trascendentale. A questo riguardo, Pangallo approfondisce la sua analisi, affermando che la gradazione intensiva è propria della causalità trascendentale e non di quella predicamentale e, per sostenere la sua tesi, pone l’esempio della animalità[3]. Per Tommaso l’essere viene derivato in due momenti differenti, che possiamo definire uno immanente ed uno trascendente. Quello immanente è derivato dalla forma sostanziale ed è predicamentale, mentre quello trascendente proviene dalla causa efficiente.

Nella nozione di causalità aristotelica si nota la mancanza della nozione metafisica di partecipazione, di stampo prettamente platonico: ogni ente finito è un ente per partecipazione rispetto al Primo Ente, che in Tommaso è Dio. Nella nozione di Dio come Causa Prima trascendente ogni ordine di cause, l’Aquinate trova la pista risolutiva per salvaguardare l’unità dell’essere e compiere la sintesi tra il pensiero di Platone e quello di Aristotele. Commentando il libro XII della Metafisica di Aristotele, Tommaso interpreta questo pensiero evidenziando come Dio non causi soltanto dando inizio al movimento del mondo, ma comunicandogli anche l’essere e mantenendolo perpetuamente nella sua sostanza. In Dio come Causa Prima, troviamo l’unità tra l’essere, la vita e il comprendere. La Causa Prima diviene personale, perciò l’atto di essere diviene allo stesso tempo atto di amore e atto di intendere «libero, infinito, perfezione suprema, fondamento dell’esistenza di ogni ente, di ogni intelligente, e di ogni amante»[4]. Conclude così Pangallo che «Dio come Prima Causa è causa perché tutte le altre cause siano cause nell’ambito del divenire, dove l’intrecciarsi delle causalità create, nella sua contingenza, rimanda sempre all’Essere divino quanto all’intelligibilità intrinseca, pur rimanendo salva la differenza ontologica»[5]. In questo modo non possiamo ritenere che nel pensiero tomista la Causa Prima oscuri la causalità predicamentale; le cause seconde, infatti, sono anch’esse comunicazione dell’essere, sempre in relazione al loro ordine. La causalità creaturale si esprime, poi, tramite la forma od essenza o natura dell’ente, ossia per mezzo di quel principio metafisico che riceve l’essere da Dio e lo limita determinandolo nei singoli enti.



[1] Cornelio Fabro, La difesa del principio di causa”, in Esegesi tomistica, PUL, Roma 1969, 40–41.
[2] Mario Pangallo, Il principio di causalità nella metafisica di S. Tommaso. Saggio di ontologia tomista alla luce dell’interpretazione di Cornelio Fabro, LEV, Città del Vaticano 1991, 23.
[3] Cfr. Ivi, 33.
[4] Ivi, 35.
[5] Ivi, 38.

mercoledì 7 gennaio 2015

Essere ed essenza


Tommaso d’Aquino, nella storia della metafisica, affronta nel De ente et essentia la fondamentale questione del rapporto tra essere ed essenza sia in relazione a Dio che agli spiriti finiti. Tra essenza ed essere vi è infatti una interessante differenza. L’essenza è ciò per cui ogni cosa possiede il suo essere, è ciò che fa in modo che ogni cosa sia quella determinata cosa e non un’altra. L’essenza viene espressa dalla definizione e la si può indicare con il nome di quiddità nel momento in cui diviene un ente, ossia un essere in atto. Infatti per essenza Tommaso intende propriamente ciò  per mezzo del quale e nel quale un ente possiede l’essere (cfr. De ente et essentia, 1,79)[1]. L’essere è il tutto, la totalità che viene studiata da quella scienza che è la metafisica. Nelle creature l’essere viene distinto grazie all’essenza, che per Tommaso è atto d’essere.

L’essenza è la verità di cui si predica l’essere e coincide usualmente con una definizione. A sua volta l’essere è ciò di cui si predica tale definizione. In questo modo sembra abbastanza chiaro che l’essenza si predica di ciò che è, di un ente, che è participio presente del verbo essere. L’ente è tutto ciò di cui si predica l’atto d’essere, cioè che esso esiste ed è qualcosa. Questo qualcosa che l’ente è in atto, ossia in un modo determinato che fa  sì che sia quella cosa e non altro, è l’essenza. L’ente è allora l’essere in quanto atto. L’ente e l’essenza sono, quindi, presenti in tutte le sostanze, sia che queste sono composte sia che sono semplici.

Quando Tommaso tratta di sostanze composte (cfr. De ente et essentia, 2, 81ss) fa riferimento a quelle che sono frutto della combinazione della forma con la materia e la cui essenza comprende sia la forma che la materia. Infatti, a differenza di Averroè, l’Aquinate sostiene che «l’essenza è ciò che viene espresso attraverso la definizione della cosa, e la definizione delle sostanze naturali contiene non soltanto la forma, ma anche la materia […]. È chiaro dunque che l’essenza comprende la materia e la forma», altrimenti «tra le definizioni naturali e quelle matematiche non ci sarebbe alcuna differenza» (De ente et essentia, 2, 83). Ma perché si produca un individuo ci deve essere una materia signata quantitate, ossia una determinata quantità di materia che, componendosi con la forma, comporti l’attuazione dell’ente. Questo è abbastanza evidente se pensiamo alla differenza tra Socrate e la definizione di un uomo: Socrate lo consideriamo un individuo in quanto la forma entra in composizione con una porzione quantitativamente signata di materia; nella definizione di uomo non stiamo in presenza di un individuo, poiché la forma entra in composizione con una materia non signata. Socrate ed uomo sono entrambi un’essenza, ma solo Socrate è un ente, ossia una quiddità determinata in atto (cfr. De ente et essentia, 2, 85.87).

Nelle sostanze separate (cfr. De ente et essentia, 4, 107ss), come l’anima e le intelligenze, la distinzione tra essere ed essenza è più significativa, poiché per Tommaso esse posseggono una capacità intellettiva che è il loro stesso modo di essere e che se fosse affetta dalla materia non sarebbe in grado di cogliere l’universalità. Al tempo stesso, però, non possono essere considerate al pari della Causa prima. Secondo l’Aquinate esse devono essere il risultato della composizione tra la forma e l’essere aventi come essenza solo la forma. Per questo motivo esse non possono totalmente realizzare in atto la loro essenza, a causa della presenza in esse della potenzialità e quindi del divenire. Infatti, a differenza della Causa prima, possiedono un essere non altrettanto semplice, ma limitato e finito poiché derivato dall’Essere.

Generalmente, come abbiamo detto sopra, nelle creature essere ed essenza sono ben distinti, anche se evidenzia Tommaso l’essenza sia priva di materia. In Dio le cose sono ben diverse, dato che in Lui essere ed essenza coincidono. Per l’Aquinate la Causa prima ha il privilegio di possedere un essere che è in grado di realizzare pienamente in atto la propria essenza. Essa è ente in forma totale ed assoluta, senza la presenza della minima potenzialità e quindi del più piccolo divenire. Dio non possiede, quindi, una quiddità, una misura di essere, la sua essenza non rientra in un genere. La cosiddetta deità, infatti, non può essere considerata come un genere che si realizza in atto in un individuo, bensì è l’essere stesso in atto. Proprio per questo motivo a Dio si attribuiscono tutte le perfezioni che si possono realizzare in atto nell’essere. Scrive Tommaso verso la conclusione del suo saggio: «le perfezioni […] in Lui formano un’unità, mentre nelle altre cose rimangono distinte tra loro» (De ente et essentia, 5, 121).

Per questo motivo possiamo sostenere che l’unità e l’identità riguardano l’essere, mentre la diversità e la molteplicità la determinazione dell’essere, ossia l’essenza. Questa distinzione tra essere ed essenza permette all’ente di essere al tempo stesso interamente uno ed interamente diverso senza subire contraddizione. L’ente, infatti, è una sintesi di essere ed essenza e l’essenza non è concepibile se non in rapporto all’essere. L’essere si determina nell’essenza, ma in questo processo di determinazione esso si mantiene in se stesso, si mantiene nella sua unità.

Dal rapporto tra essere ed essenza è possibile riconoscere all’ente il suo essere uno come tutti gli altri enti ed il suo essere molteplice e, quindi, diverso da tutti gli altri enti. L’ente è interamente essere come è interamente determinazione.

La distinzione fra essenza ed essere non riguarda però solo la sostanza. Per il Doctor Angelicus essa concerne anche gli accidenti. Questi, infatti, sono definibili e, quindi, possono avere una essenza, anche se in maniera diversa rispetto alle sostanze. Gli accidenti esistono sempre in relazione ad una sostanza, per cui nella definizione di un accidente deve sempre comparire un soggetto a cui esso fa riferimento. Per questo motivo l’essenza degli accidenti deve essere pensata incompleta (cfr. De ente et essentia, 6, 127ss). Causa degli accidenti, infatti, è la sostanza, che rappresenta la realtà prima e suprema del genere dell’ente.

Intorno alla questione del rapporto tra essenza ed essere Tommaso ha saputo rileggere tutto il reale, sia nella sua prospettiva metafisica (semplicità divina, composizione di essenza ed esistenza negli enti creati, composizione fisica di materia e forma nelle sostanze composte, composizione tra soggetto ed accidente) che in quella logica.




[1] Con il termine "natura" Tommaso intende l’essenza della cosa per la quale essa ha una relazione con la propria operazione. In questo modo, per esempio, dalla proprietà di attirare il ferro riconosco la natura del magnete (cfr. De ente et essentia, 1, 79).

venerdì 2 gennaio 2015

La metafisica

La filosofia prima o metafisica è quella parte della filosofia che si occupa del problema dei fondamenti dell’essere. In questo modo questa disciplina si interessa delle cause e dei principi primi. Tutte le scienze, infatti, indagano intorno a delle cause specifiche, mentre la metafisica si occupa della struttura causale della realtà. Questa spiegazione per cause permette alla filosofia prima di concludere che la realtà è razionale, in quanto spiegabile a partire dalle cause e non da elementi ad essa estranei. A differenza delle altre scienze, allora, la metafisica non si interessa di studiare un essere particolare, ma si pone la domanda circa l’esistenza di un essere generico, un essere in quanto essere. Aristotele, per esempio, riprende il problema parmenideo intorno all’essere, dichiarandone  l’inconsistenza. Oltre a ciò è sua materia di indagine anche la sostanza con i suoi vari significati. Aristotele, in questo caso, analizza la sostanza in quanto forma o essenza e si concentra, in questo modo, soprattutto sul significato che è più utile alla conoscenza. Inoltre la metafisica studia il principio primo e il fine ultimo e la sostanza soprasensibile, essendo essa stessa teologia.
Come ebbe modo di affermare Aniceto Molinaro, la filosofia prima può essere considerata come la scienza che studia l’ ‘è’, l’essere della cosa. Uno studio, dunque, veramente filosofico e che, per il fatto che esso si occupa dell’essere, si identifica proprio con la metafisica, la quale si attiene all’identità, senza escludere la distinzione, fra essere e verità. La filosofia, infatti, è l’essere nella espressione della sua verità[1].
Quindi, ricapitolando, possiamo giustamente affermare che la metafisica sia una scienza dell’ente in quanto ente, o in maniera equivalente, dell’ente in quanto essere. Essa studia l’ente precisamente in ciò che lo determina come ente, in ciò che permette all’ente di essere propriamente ente. Ossia la metafisica studia l’essere dell’ente, dato che l’essere è ciò per cui l’ente è ente.
Come dicevamo sopra la metafisica è quella scienza che si occupa del fondamento dell’ente. E l’essere è il fondamento dell’ente. Infatti l’essere è il fondamento incondizionato dell’ente: non possiede condizioni previe, ma condiziona tutto. Per essere maggiormente precisi, se questa incondizionatezza è immediata, la metafisica tratterà dell’essere dell’ente, mentre se è assoluta, essa si occuperà dell’Essere Assoluto, fondamento ultimo dell’essere dell’ente.
La metafisica rimanda anche alla sfera della totalità, in quanto essa ha proprio come oggetto la totalità dell’ente a partire dall’essere. In questo modo è inevitabile che la metafisica, se considera l’ente nel suo essere, debba considerare l’ente nella sua totalità. Dire ciò significa sottolineare come al di fuori dell’essere non vi sia che il nulla, che è appunto non-essere. L’essere, che è oggetto della metafisica, ha come caratteristiche quelle di essere illimitato, inoltrepassabile ed insuperabile. Come afferma Molinaro, «l’essere è […] l’orizzonte assoluto, l’apertura totale, e cioè l’unità e la totalità in cui ogni ente, tutto l’ente, l’ente in quanto tale, consiste. E la metafisica è la scienza dell’ente in questa sua unità e totalità e, quindi, scienza della totalità»[2].
Affinché, allora, si possa parlare di metafisica, si deve intendere una scienza che abbia come oggetto la totalità, che abbracci l’intero, in quanto studio dell’ente in quanto ente ed, in particolar modo, dell’essere come fondamento della totalità dell’ente. In questo modo, tanto è esteso il suo oggetto di studio, tanto deve estendersi la metafisica, che diviene, così, la scienza totale. Il suo oggetto, infatti, è la totalità dell’essere e la totalità della scienza.
Se poi il pensiero è sempre e solo pensiero dell’essere, la totalità dell’essere riguarda la totalità del pensiero. Vi è metafisica nella misura in cui vi sia il suo oggetto, l’essere nella sua totalità. Proprio a partire dall’oggetto, di quella che dicevamo essere la filosofia prima, possiamo capire allora come sia importante evidenziare la differenza che intercorre tra la metafisica come scienza e le scienze determinate. Quest’ultime sono appunto determinate, in quanto si occupano di un determinato settore della realtà e, quindi, la loro natura è di essere parziali e controvertibili. Sono cioè scienze capaci di errore, di revisione e di falsificazione. L’oggetto di cui si occupa, invece, la metafisica, fa sì che la sua scienza sia incontrovertibile, non soggetta all’errore o ad essere smentita.
Trattando dell’oggetto di studio della filosofia prima è necessaria un’ulteriore precisazione. Il fatto che la metafisica sia scienza totale non significa che essa sia una scienza di tutto, bensì che è la scienza del tutto. Questo è importante, poiché non si deve confondere la filosofia prima con il sapere enciclopedico, intendendo il tutto cioè in modo quantitativo, ossia legato alla conoscenza determinata di ogni cosa però nella sua determinatezza. Il tutto, invece, è da intendersi proprio come lo stesso essere, nel quale trova posto ogni singola determinazione. Per cui studiando il tutto non equivale a dire che la metafisica sappia ogni singola determinazione.
Per quanto il termine ‘metafisica’ abbia avuto un’origine estrinseca, designando i libri ‘successivi a quelli di fisica’ (metà tà physikà) nell’ordinamento del corpus aristotelico operato nel I sec. d.C. da Andronico, esso esprime adeguatamente la natura di questa scienza, in quanto essa procede al di là della fisica (la prima delle scienze particolari), per raggiungere il fondamento comune su cui tutte le scienze particolari si fondano e determinarne l’ordinamento. La denominazione di ‘filosofia prima’, che è quella data da Aristotele, mostra con chiarezza questo carattere: la metafisica è prima perché tratta dell’oggetto cui tutte le scienze particolari si riferiscono, e delinea i principi da cui tutte discendono. Nell’opera di Aristotele, la concezione della metafisica come teologia, cioè come scienza dell’essere più alto e perfetto dal quale tutti gli altri esseri dipendono, si intreccia con quella della metafisica come ontologia, cioè come scienza che studia i caratteri fondamentali dell’essere in quanto essere (teoria della sostanza), che nelle sue determinazioni è oggetto di tutte le altre scienze.




[1] Aniceto Molinaro, Metafisica. Corso sistematico, San Paolo, Cinisello Balsamo 1994, 8.
[2] Ivi, 10.