giovedì 8 gennaio 2015

Il concetto di causalità


Il concetto di causalità è uno dei temi nodali della metafisica e attraversa il pensiero di filosofi come Platone, Aristotele e Tommaso. Platone prende le mosse dall’individuazione del concetto di causa, cioè dell’autentica ragione che fa sì che la realtà sia come effettivamente è. Nel Fedone, Platone fornisce due esempi, quello di Socrate in carcere e quello dell’altezza e della bassezza rispettivamente di Simmia e Cebete. Stando ai filosofi pluralisti (o “corporeisti”) la causa per cui Socrate si trovava in carcere sarebbe stato il fatto che egli possedeva delle ossa, dei muscoli e delle articolazioni, che gli consentivano di muoversi (cfr. Platone, Fedone, 98c-e). Questa tesi è assurda, soprattutto alla luce del senso di giustizia che aveva animato l’intera vita di Socrate, e, invece, dell’ingiustizia degli Ateniesi, che lo condannano. Nel secondo passo (cfr. Ivi, 100a-101d) emergono con più chiarezza le contraddizioni filosofiche dei pluralisti: se ciò che fa essere Simmia più alto di Cebete (cioè la causa del suo esser alto) è la misura della testa che essi avevano di differenza, né sarebbero scaturite due aporie: 1) una stessa cosa (la testa) sarebbe stata la causa dell’esser alto di Simmia e dell’esser basso di Cebete (cioè, una stessa cosa avrebbe avuto due conseguenze opposte); 2) una cosa di per sé piccola (considerata in rapporto a tutto il corpo) dà vita a qualcosa di grande (Simmia). Ne segue che la causa dell’essere alto di Simmia e dell’essere basso di Cebete non è la testa, ma è la relazione (più o meno stretta) che ciascuno dei due ha con l’Idea di altezza e di bassezza. Quindi la causa autentica dell’essere alto di Simmia è l’Idea di altezza, quella dell’essere basso di Cebete l’Idea di bassezza. La causa dell’esser bella della rosa bella non è il suo colore, la sua forma, il suo profumo, ma la relazione che essa ha con l’Idea di bellezza (altrimenti non potrei chiamare “belle” tutte le altre cose che hanno caratteristiche diverse da quelle della rosa bella). Dunque la causa dell’essere delle cose e del loro esser-così (esser tali) non può essere fisica, ma metafisica, cioè soprasensibile.

Interessante, a nostro avviso, è l’interpretazione che Fabro compie della causalità platonica, contenuta in gran parte nella sua dissertazione La difesa del principio di causa. In questo testo Fabro vuole difendere la sua tesi che lega il principio di causalità con l’essere partecipato. L’ente per partecipazione è ciò che dipende dall’essere per essenza e, in quest’ultimo, trova la sua causa, sostiene Fabro e prosegue evidenziando che l’essere per partecipazione non può essere tutto l’essere, dato che è imperfetto, corrotto, mutevole. Nella nostra esperienza siamo sempre in contatto con l’Essere che si partecipa, che si comunica agli enti attraverso una gradazione dell’essere stesso. Non siamo mai dinanzi all’atto o alla forma pura, che precedono, invece, quanto risulta essere imperfetto e limitato. Non possiamo rinunciare, quindi, alla dottrina platonica della partecipazione[1]. Commenta, a questo riguardo, Pangallo facendosi interprete di Fabro, che «l’attività dell’Essere che si comunica nella partecipazione (partecipazione “ontologica”) può denominarsi “causalità”; il termine di questa attività (tutto ciò che esiste) può denominarsi “effetto”. Senza questa partecipazione causale, non sarebbero intelligibili gli enti in quanto enti per partecipazione e dunque tutta la realtà resterebbe senza spiegazione e senza fondamento»[2].

Se vogliamo analizzare il concetto di causalità presente in Aristotele è bene far riferimento ai capitoli 6 – 9 del libro Λ della Metafisica, dove il nucleo teoretico principale è proprio la causa prima. Il motore immobile muove ma non è mosso e non è responsabile né di una causa materiale né di una formale, dato che in esso non vi è materia alcuna e non genera movimento. Si può trattare, allora, di una causa efficiente e anche di una causa finale. A questo altro aspetto viene dedicato da Aristotele il capitolo 7 del libro Λ della sua Metafisica. Il discorso ritorna proprio sull’importanza di trovare qualcosa che muova senza essere mosso, che sia eterno ed in atto. Il primo paragone, che lo Stagirita trova, è con l’oggetto del desiderio e della intelligenza, ossia con il bello (cfr. Met., Λ 7, 1072a25-28). Per Aristotele l’intelletto è mosso, quindi, dall’intelligibile (cfr. Met. Λ 7, 1072a30) e, trattando della prima tra le sostanze intelligibili, il Filosofo pensa al motore immobile, allontanandosi dalla sostanza prima di Platone, ossia dall’Uno.

Analizzando il pensiero di Tommaso d’Aquino, ci accorgiamo che possiamo suddividere le cause in due generi, la causa univoca e la causa analoga. La causa univoca appartiene al divenire e costituisce la causalità predicamentale; la causa analoga, invece, è propria dell’essere e va a costituire la causalità trascendentale. A questo riguardo, Pangallo approfondisce la sua analisi, affermando che la gradazione intensiva è propria della causalità trascendentale e non di quella predicamentale e, per sostenere la sua tesi, pone l’esempio della animalità[3]. Per Tommaso l’essere viene derivato in due momenti differenti, che possiamo definire uno immanente ed uno trascendente. Quello immanente è derivato dalla forma sostanziale ed è predicamentale, mentre quello trascendente proviene dalla causa efficiente.

Nella nozione di causalità aristotelica si nota la mancanza della nozione metafisica di partecipazione, di stampo prettamente platonico: ogni ente finito è un ente per partecipazione rispetto al Primo Ente, che in Tommaso è Dio. Nella nozione di Dio come Causa Prima trascendente ogni ordine di cause, l’Aquinate trova la pista risolutiva per salvaguardare l’unità dell’essere e compiere la sintesi tra il pensiero di Platone e quello di Aristotele. Commentando il libro XII della Metafisica di Aristotele, Tommaso interpreta questo pensiero evidenziando come Dio non causi soltanto dando inizio al movimento del mondo, ma comunicandogli anche l’essere e mantenendolo perpetuamente nella sua sostanza. In Dio come Causa Prima, troviamo l’unità tra l’essere, la vita e il comprendere. La Causa Prima diviene personale, perciò l’atto di essere diviene allo stesso tempo atto di amore e atto di intendere «libero, infinito, perfezione suprema, fondamento dell’esistenza di ogni ente, di ogni intelligente, e di ogni amante»[4]. Conclude così Pangallo che «Dio come Prima Causa è causa perché tutte le altre cause siano cause nell’ambito del divenire, dove l’intrecciarsi delle causalità create, nella sua contingenza, rimanda sempre all’Essere divino quanto all’intelligibilità intrinseca, pur rimanendo salva la differenza ontologica»[5]. In questo modo non possiamo ritenere che nel pensiero tomista la Causa Prima oscuri la causalità predicamentale; le cause seconde, infatti, sono anch’esse comunicazione dell’essere, sempre in relazione al loro ordine. La causalità creaturale si esprime, poi, tramite la forma od essenza o natura dell’ente, ossia per mezzo di quel principio metafisico che riceve l’essere da Dio e lo limita determinandolo nei singoli enti.



[1] Cornelio Fabro, La difesa del principio di causa”, in Esegesi tomistica, PUL, Roma 1969, 40–41.
[2] Mario Pangallo, Il principio di causalità nella metafisica di S. Tommaso. Saggio di ontologia tomista alla luce dell’interpretazione di Cornelio Fabro, LEV, Città del Vaticano 1991, 23.
[3] Cfr. Ivi, 33.
[4] Ivi, 35.
[5] Ivi, 38.

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