Il concetto di
causalità è uno dei temi nodali della metafisica e attraversa il pensiero di
filosofi come Platone, Aristotele e Tommaso. Platone prende le mosse
dall’individuazione del concetto di causa, cioè dell’autentica ragione che fa
sì che la realtà sia come effettivamente è. Nel Fedone, Platone fornisce due esempi, quello di Socrate in carcere e
quello dell’altezza e della bassezza rispettivamente di Simmia e Cebete. Stando
ai filosofi pluralisti (o “corporeisti”) la causa per cui Socrate si trovava in
carcere sarebbe stato il fatto che egli possedeva delle ossa, dei muscoli e
delle articolazioni, che gli consentivano di muoversi (cfr. Platone, Fedone, 98c-e). Questa tesi è assurda, soprattutto
alla luce del senso di giustizia che aveva animato l’intera vita di Socrate, e,
invece, dell’ingiustizia degli Ateniesi, che lo condannano. Nel secondo passo
(cfr. Ivi,
100a-101d) emergono
con più chiarezza le contraddizioni filosofiche dei pluralisti: se ciò che fa
essere Simmia più alto di Cebete (cioè la causa del suo esser alto) è la misura
della testa che essi avevano di differenza, né sarebbero scaturite due aporie:
1) una stessa cosa (la testa) sarebbe stata la causa dell’esser alto di Simmia
e dell’esser basso di Cebete (cioè, una stessa cosa avrebbe avuto due
conseguenze opposte); 2) una cosa di per sé piccola (considerata in rapporto a
tutto il corpo) dà vita a qualcosa di grande (Simmia). Ne segue che la causa
dell’essere alto di Simmia e dell’essere basso di Cebete non è la testa, ma è
la relazione (più o meno stretta) che ciascuno dei due ha con l’Idea di altezza
e di bassezza. Quindi la causa autentica dell’essere alto di Simmia è l’Idea di
altezza, quella dell’essere basso di Cebete l’Idea di bassezza. La causa
dell’esser bella della rosa bella non è il suo colore, la sua forma, il suo
profumo, ma la relazione che essa ha con l’Idea di bellezza (altrimenti non
potrei chiamare “belle” tutte le altre cose che hanno caratteristiche diverse
da quelle della rosa bella). Dunque la causa dell’essere delle cose e del loro
esser-così (esser tali) non può essere fisica, ma metafisica, cioè soprasensibile.
Interessante, a nostro
avviso, è l’interpretazione che Fabro compie della causalità platonica,
contenuta in gran parte nella sua dissertazione La difesa del principio di causa. In questo testo Fabro vuole
difendere la sua tesi che lega il principio di causalità con l’essere
partecipato. L’ente per partecipazione è ciò che dipende dall’essere per
essenza e, in quest’ultimo, trova la sua causa, sostiene Fabro e prosegue
evidenziando che l’essere per partecipazione non può essere tutto l’essere,
dato che è imperfetto, corrotto, mutevole. Nella nostra esperienza siamo sempre
in contatto con l’Essere che si partecipa, che si comunica agli enti attraverso
una gradazione dell’essere stesso. Non siamo mai dinanzi all’atto o alla forma
pura, che precedono, invece, quanto risulta essere imperfetto e limitato. Non
possiamo rinunciare, quindi, alla dottrina platonica della partecipazione[1].
Commenta, a questo riguardo, Pangallo facendosi interprete di Fabro, che
«l’attività dell’Essere che si comunica nella partecipazione (partecipazione
“ontologica”) può denominarsi “causalità”; il termine di questa attività (tutto
ciò che esiste) può denominarsi “effetto”. Senza questa partecipazione causale,
non sarebbero intelligibili gli enti in quanto enti per partecipazione e dunque
tutta la realtà resterebbe senza spiegazione e senza fondamento»[2].
Se vogliamo analizzare
il concetto di causalità presente in Aristotele è bene far riferimento ai
capitoli 6 – 9 del libro Λ della Metafisica,
dove il nucleo teoretico principale è proprio la causa prima. Il motore
immobile muove ma non è mosso e non è responsabile né di una causa materiale né
di una formale, dato che in esso non vi è materia alcuna e non genera
movimento. Si può trattare, allora, di una causa efficiente e anche di una
causa finale. A questo altro aspetto viene dedicato da Aristotele il capitolo 7
del libro Λ della sua Metafisica. Il
discorso ritorna proprio sull’importanza di trovare qualcosa che muova senza
essere mosso, che sia eterno ed in atto. Il primo paragone, che lo Stagirita
trova, è con l’oggetto del desiderio e della intelligenza, ossia con il bello
(cfr. Met., Λ 7, 1072a25-28). Per
Aristotele l’intelletto è mosso, quindi, dall’intelligibile (cfr. Met. Λ 7, 1072a30) e,
trattando della prima tra le sostanze intelligibili, il Filosofo pensa al
motore immobile, allontanandosi dalla sostanza prima di Platone, ossia
dall’Uno.
Analizzando il pensiero
di Tommaso d’Aquino, ci accorgiamo che possiamo suddividere le cause in due
generi, la causa univoca e la causa analoga. La causa univoca appartiene al
divenire e costituisce la causalità predicamentale; la causa analoga, invece, è
propria dell’essere e va a costituire la causalità trascendentale. A questo
riguardo, Pangallo approfondisce la sua analisi, affermando che la gradazione
intensiva è propria della causalità trascendentale e non di quella
predicamentale e, per sostenere la sua tesi, pone l’esempio della animalità[3].
Per Tommaso l’essere viene derivato in due momenti differenti, che possiamo
definire uno immanente ed uno trascendente. Quello immanente è derivato dalla
forma sostanziale ed è predicamentale, mentre quello trascendente proviene
dalla causa efficiente.
Nella nozione di
causalità aristotelica si nota la mancanza della nozione metafisica di
partecipazione, di stampo prettamente platonico: ogni ente finito è un ente per
partecipazione rispetto al Primo Ente, che in Tommaso è Dio. Nella nozione di
Dio come Causa Prima trascendente ogni ordine di cause, l’Aquinate trova la
pista risolutiva per salvaguardare l’unità dell’essere e compiere la sintesi
tra il pensiero di Platone e quello di Aristotele. Commentando il libro XII della
Metafisica di Aristotele, Tommaso
interpreta questo pensiero evidenziando come Dio non causi soltanto dando
inizio al movimento del mondo, ma comunicandogli anche l’essere e mantenendolo
perpetuamente nella sua sostanza. In Dio come Causa Prima, troviamo l’unità tra
l’essere, la vita e il comprendere. La Causa Prima diviene personale, perciò
l’atto di essere diviene allo stesso tempo atto di amore e atto di intendere
«libero, infinito, perfezione suprema, fondamento dell’esistenza di ogni ente, di
ogni intelligente, e di ogni amante»[4]. Conclude
così Pangallo che «Dio come Prima Causa è causa perché tutte le altre cause
siano cause nell’ambito del divenire, dove l’intrecciarsi delle causalità
create, nella sua contingenza, rimanda sempre all’Essere divino quanto
all’intelligibilità intrinseca, pur rimanendo salva la differenza ontologica»[5].
In questo modo non possiamo ritenere che nel pensiero tomista la Causa Prima
oscuri la causalità predicamentale; le cause seconde, infatti, sono anch’esse
comunicazione dell’essere, sempre in relazione al loro ordine. La causalità
creaturale si esprime, poi, tramite la forma od essenza o natura dell’ente,
ossia per mezzo di quel principio metafisico che riceve l’essere da Dio e lo
limita determinandolo nei singoli enti.
[1] Cornelio Fabro, “La difesa del principio di
causa”, in Esegesi tomistica,
PUL, Roma 1969, 40–41.
[2] Mario Pangallo, Il principio
di causalità nella metafisica di S. Tommaso. Saggio di ontologia tomista alla
luce dell’interpretazione di Cornelio Fabro, LEV, Città del Vaticano 1991,
23.
[3] Cfr. Ivi, 33.
[5] Ivi, 38.
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