Si sacrifica l'essenza della fede ogni volta che si smarrisce la convinzione razionale del suo fondamento. La fede viene così ridotta ad essere una cieca credulità (Wolfhart Pannenberg)
venerdì 28 agosto 2015
"Incontrare Dio all'inferno": le parole di Saverio Monitillo
Riporto qui di seguito il testo scritto dal dottorando in filosofia presso l'Università di Tor Vergata Saverio Monitillo, al quale esprimo tutta la mia gratitudine ed amicizia:
" Introduzione
" Introduzione
Penso che per
guidare la lettura di questo libro scritto con interesse, da Riccardo Beltrami,
dovremmo partire da due domande:
1)
È possibile, nonostante la guerra, la
violenza, la shoà poter scoprire ancora qualcosa dell’esistenza?
2)
È
possibile, nonostante un comunismo che riduce il pensiero della persona
imbruttendolo, trovare il coraggio di parlare di bellezza?
La prima domanda
riguarda la vicenda di Etty Hillesum la quale vede nell’inumana esperienza del
secondo conflitto mondiale qualcosa ancora di umano e ancor più di Divino che
superano e travolgono il male.
Mentre la
seconda domanda riguarda Pavel Florenskij il quale supera il comunismo per
giungere alla comunione con Dio e gli uomini tramite la bellezza.
Etty Hillesum
1) L’IO DEL PROPRIO IO. Cosa significa? Significa che se pur la vita
ci porta a compiere scelte non buone oppure se il nostro modo di vivere non
segue la via maestra del bene questo non significa che non siamo ri-legati al
bene, al contrario ci permette di cogliere il senso del bene e dunque il senso
del re-ligioso proprio lì dove noi non ce lo saremmo aspettati: nella parte più
ad intra di noi stessi (settima stanza Teressa d’Avila, Edith Stein). La setssa
cosa che fanno sia la mamma che la zia Pet della Nostra quando affermano che in
fondo sono religiose; oppure è il segno evidente di un papà ebreo non
praticante ma che ha pià copie della Bibbia e per di più in diverse lingue.
La vita
dissoluta della Hillesum trova la sua fine grazie al terapeuta Spier che la
conduce nell’io profondo per poi far si che questo venga allo scoperto, alla
luce. E’ quasi il ritorno dell’ars maieutica dei greci solo che nel nostro caso
per una finalità diversa da quella greca. Infatti per i greci si portava fuori
la ratio qui si porta fuori la fides, il Divino, il senso religioso, che per
molti è stato nascosto e forse represso. Ecco il punto: il problema non è
essere credenti o no (forse dopo) ma far venire fuori di noi il religioso a cui
credere o meno. Riscoprire l’arte maieutica della fede e di conseguenza quella
della ragione. Per far questo Spier insegna alla Hillesum la preghiera e il
contatto con la Bibbia.Questa sarà il percorso che compirà la N. come lei
stessa afferma: “ Ascoltarsi dentro. Non lasciarsi più guidare da quello che si
avvicina da fuori, ma da quello che si innalza dentro”
2) …PER SCOPRIRE. Dopo aver scoperto la presenza del religioso in se da
qui vi sono, di volta in volta, varie scoperte che Beltrami descrive con profondità
e chiarezza e che potremmo far nostre:
a) DIO: “dentro di me c’è una sorgente
molto profonda. E in quella sorgente c’è Dio”. La sorgente produce acqua in
noi. Vi è una sorgente che produce la verità ma nel contempo si identifica con
la verità stessa: Dio. C’è una particolarità, meglio due. La prima è la
capacità di ascoltare la verità per poi annunciarla. Se non la si ascolta non
la si può neanche sussurrare nella sua essenza! Poi va vista dal basso e non
dall’alto. Hillesum scopre il mettersi in ginocchio per poterla cogliere. Solo
mettendoci in ginocchio vediamo la verità.
b) Bellezza e silenzio. Cosa è la bellezza?
Ci sono tante risposte, ma la bellezza non è fine a se stessa cioè non è tale
in quanto tale bensì riporta sempre ad un Altro ad un Essere Bello che è al di
sopra della umana bellezza. La bellezza
è il mistero. Quel mistero che si trova nei piccoli elementi (gelsomino) come
nei grandi eventi. Ed è proprio dalla bellezza che scaturisce il silenzio
dinanzi al mistero. Di fronte alla bellezza non ci sono
parole…(Thaumazein=meraviglia). Le molte parole, come sostiene Hillesum,
conducono a equivoci. La loquacità del silenzio rende la bellezza del bello e
dunque di Dio.
c) Preghiera. Chissà quanto volte abbiamo
pregato o abbiamo cercato di definire la preghiera ma penso che una possibile
definizione esperienziale della preghiera la offre la nostra pensatrice. La
preghiera è cioò che permette di stare in mezzo agli orrori, ai dolori, non
facendosi travolgere da questi, ma, al contrario, facendoci comprendere che la
vità è bella. La preghiera permette al
nostro cuore di custodire Dio affinchè Dio lo cambi. Per la H. non è tanto
importante che Dio esaudisca la nostra supplica quanto che lui compia in noi una
metanoia che ci dia la possibilità di una nuova welteschaung.
d) Sacra Scrittura. La fonte della
preghiera è la Bibbia che, come dice Hillesum, ci permette di conoscere non
solo le cose in esa scritte ma anche il suo Autore. E’ un po il richiamo a
quanto diceva san Girolamo: L’ignoranza delle Scritture è l’ignoranza di
Cristo”. Sarà proprio la Bibbia ad accompagnarla fino agli ultimi giorno nel
campo di concentramento.
3) L’INFERNO
UMANO PER IL PARADISO DI DIO. Nell’umanità accade l’incontro tra Dio e l’uomo.
E’ la risposta al famoso interrogativo se si potesse ancora parlare di Dio dopo
l’olocausto. Certo che si può, anzi si deve, perché in quell’esperienza brutale
dove la cattiveria e la crudeltà umana hanno raggiunto il massimo dell’espressione
ha permesso che si scoprisse il senso dello stare insieme, della comunione,
della solidarietà. Lei stessa ci dice di queste forme di solidarietà virtuale
quando afferma che vorrebbe esser in tutti i campi dove si trova internata la
sua gente e aiutar loro a leggere quell’esperienza dalla parte di Dio. E’ la
grandezza dell’amore che ci riporta al grande sacrificio per amore che è la
croce. La grandezza dell’amore addolcisce anche la crudeltà. Come? Quando, come
lei stessa afferma, dinanzi a tanto odio non si risponde con l’odio ma vedere
come nel cuore di chi distrugge l’altro
non vi è più spazio per la bellezza della vita e magari con il proprio
non agire si agisce in modo più efficace: perché per amore si perdona anche
questo perché l’amore è al di sopra di ogni umana crudeltà. L’amore: è il
paradiso all’interno dell’inferno creato dall’uomo.
Pavel Florenskij
“Colmare ogni
istante di un contenuto sostanziale”. Parto da questa frase di Florenskij per
parlare di ciò che lui è stato ed è per
il nostro oggi . Ritroviamo un elemento in comune con la Hiellsum: anche qui un
campo di concentramento non nazista ma comunista. Ancora una volta la perdita
della libertà. Ma proprio la perdita della libertà rende rende paradossale l’esistenza
di Florenskij: il vedere, nonostante tutto, il bello. Lui che aveva studiato la
matematica e dal numero compie il passaggio a Dio. Lui che voleva creare un
legame tra la fede, la scienza e la cultura non può non essere un pensatore
contemporaneo.
Il tema ,potremo
dire, che caratterizza il pensiero di Florenskij è quello della bellezza. Ma
sulla scia di quanto scritto da Beltrami, prima di parlare della bellezza
vorrei presentarvi alcuni passaggi previ ad essa: il fanciullo e la natura
1)
IL
FANCIULLO. Per il N. è necessario andare oltre il qui e ora, cioè, andare oltre
la nostra realtà in una realtà superiore. (Idealismo florenskijano). Ma per
comprendere questo oltre è necessario uscire dal pensiero e dal mondo degli
adulti per entrare in quello dei bambini. Perché questo cambio di visione?
Perché gli adulti cercano di capire il come dei fenomeni mentre il bambino, con
la sua curiosità(n on dimentichiamo che la curiosità sta all’origine del
pensiero umano) e genialità, entra nel fenomeno in se. (Es. il mare per lui è
l’immagine dell’eternità). Ed entrando nel fenomeno in quanto tale il
conoscente si fa uno con l’oggetto della sua conoscenza e questo unione è per
il N. il simbolo. Florenski farà propria la filosofia del simbolo perché questo
ci permette di conoscere e di entrare nel mistero del mondo senza violare il
mistero stesso. [Un altro autore che parla del fanciullo e del simbolo e
Giovanni Pasoli con la poetica del fanciullino. Egli dicev che in ogni persona
(indipendentemente dal lavoro che svolge) c’è un fanciullino. E’ uno spirito
sensibile che consiste nella capacità di meravigliarsi delle piccole cose, come
fanno i bambini. Il poeta per il Pascoli è un uomo umile e semplice che vede la
vita quotidiana con gli occhi del fanciullo. La poetica del fanciullino consta
di due elementi. 1) L’Impressionismo: l’artista non deve rappresentare il mondo
e la natura così come si presentano ma deve offrire uno stimolo di
rappresentazione. Deve tratteggiare la realtà ma non definirla. 2) Il
simbolismo: il simbolo non è immediato ma rimanda ad Altro, al mistero].
2)
LA
NATURA. Altro elemento che permette l’esperienza mistica di F. è proprio la
natura. La contemplazione della realtà “naturale” permette di comprendere il
divino. Egli stesso parla di una esperienza mistica a partire da alcuni
elementi della natura (la montagna, il freddo, etc..). troviamo qui un richiamo
a S. Agostino i “Mirabilia Dei” e se vogliamo troviamo anche una visione della
natura diversa dal Contratto Sociale di J. J. Rosseau. La natura per F. crea
uno stile di comunione partendo dalla natura stessa. La comprensione e la
simbiosi con la natura permette anche la comunione tra gli uomini.
3)
LA
BELLEZZA. L’ARTE. Per comprendere il concetto di bellezza e di arte non
possiamo dimenticare l’origine di F. che è orientale. Lui è in prete ortodosso
e dunque il richiamo primo è l’icona. L’icona è ciò che permette all’invisibile
di rendersi presente nel visibile. L’iconografo è colui che tramite la
preghiera (anche qui ritroviamo il richiamo alla preghiera che non è un
semplice sussurrare delle formule ma è un evento e un accadimento esistenziale
e dunque la preghiera è una esperienza detta con la vita) rende presente
l’Assoluto e per fare ciò è necessaria la quiete interiore (l’hesichia).
Tramite l’arte l’anima passa dalle cose terrene alle cose celesti. Vedere il
bello è fare esperienza della divinità. Dunque se l’anima è presso le cose
celesti non interessa più ciò che è nel mondo e tutto ciò che il Nostro subisce
nel campo di concentramento comunista viene superato dalla bellezza che già è
presente in se. La bellezza richiede il silenzio per esser fatta viva in
ciascuno di noi e se, come dice Dostoevskij, che “la bellezza salverà il mondo”
può farlo solo se prima noi stessi diamo alla bellezza, meglio al Bello, la
facoltà di salvare la nostra anima.
Conclusione per l’oggi
Hillesum: Non si
può non fare esperienza di Dio nonostante la bruttura che l’uomo crea nel
mondo.
Florenskij:
Ri-dare al mondo il bello ci permette di vedere in forma velata, già e non
ancora, il paradiso sede della Verità".
giovedì 27 agosto 2015
Comunicato stampa da Bisceglie
COMUNICATO STAMPA
Libri nel
Borgo Antico, al via la sesta edizione
Più di
cento conversazioni con gli autori nelle piazze del centro storico di Bisceglie
Bisceglie,
26 agosto 2015 – Dopo cinque edizioni di grande successo, anche
quest’anno Libri nel Borgo Antico renderà per tre giorni Bisceglie capitale
della cultura. E’ tutto pronto per la fortunata rassegna di conversazioni con
gli autori promossa dall’Associazione Borgo Antico.
Oltre
cento gli ospiti della sesta edizione, provenienti da tutta la Puglia e non
solo, che popoleranno le più suggestive piazze del borgo medievale dal 28 al 30
agosto. Venerdì 28 la manifestazione prenderà il via alle 18:15. In via
Gugliemo Marconi Nicola Mascellaro
presenterà “Filippo Cifariello. La vita l’arte e gli amori”; a seguire alle
18:45 Francesca Digioia con “La
leonessa lasciva”; alle 19:15 Paolo
Cilfone sarà presente con “Babel Theos. Narrazioni di teatro e di strada”.
Proseguendo nel programma della serata, Gladis
Alicia Pereyra presenterà “I panni del saracino”, a seguire Antonia Chiara Scardicchio con “Madri…
voglio vederti danzare” alle ore 20:15. Successivamente, alle 20:45, con “Ti
strappo e ti getto in pasto ai cani” Alessio
Viola. Alle 21:15 la piazza ospiterà
Pippo Corigliano con “Cartoline dal
Paradiso”. In chiusura di serata, dalle 21:45, Piero Rossi e Vito Signorile
presenteranno “Due tre croci sopra” ed infine, alle 22:15 con “Nel profumo
degli iris viola” Marta Mizzi
chiuderà il programma per Via Marconi.
Altro
palcoscenico di questa giornata sarà Palazzo Ammazzalorsa, dove ad aprire il
programma sarà Franca Pinto Minerva
alle 18:30 con il suo libro “Una scuola per il Duemila. L’avventura del
conoscere tra banchi e mondi ecologici”. A seguire, alle 19.00, Michele
Illiceto con “Il talamo e la tela”. Alle 19:30 Cosimo Bagnulo presenterà il suo libro “Dalla mucca pazza
all’Alzheimer”; alle 20:00, Riccardo
Beltrami chiacchiererà con il
pubblico a proposito del suo “Incontrare Dio all’inferno. L’esperienza mistica
nel pensiero di Etty Hillesum e Pavel Florenskij”, a seguire alle 20:30, Davide Potente presenterà “Qualcosa da
perdere”. Carmine Castoro alle 21:00 parlerà di “Clinica
della tv. I dieci virus del tele capitalismo”. Alle 21:30 Michele Tarallo con “Il regalo rotto”. A chiudere il programma Michi D’Elce con “Grano Rosso” alle
22:00.
Il
suggestivo scorcio di via Giulio Frisari farà da sfondo alle presentazioni di Bianca Rita Cataldi con “Isolde non c’è
più” alle ore 18:15, a seguire Vito
Palumbo alle 18:45 presenterà “La terra delle Fontane”. Cesare Veronico alle 19:15 dialogherà
con il pubblico a proposito di “La bellezza disarmante. Dalle servitù militari
all’economia verde”; alle 19:45 Ferdinando
Scavran con “Non sono tuo”. Gianni
Spinelli con “Settanta volte donna” alle ore 20:15; a seguire, alle 20:45
“Volò il grifo sul teatro” di Franco
Vangi. Agostino Picicco con “La
semplicità delle piccole cose. Ricordi ed emozioni” alle 21:15; a seguire alle
21:45 Marco Papagni presenterà
“Racconti dall’interno”. A chiudere il programma alle 22:15 Enza Piccolo con “La partenza”.
Luogo
clou della serata sarà piazza Duomo, che vedrà l’alternanza di quattro autori
di fama nazionale: apre il programma Davide
Rondoni alle 20:15 con “E se brucia anche il cielo”. A seguire Paolo Crepet con “Il caso della donna
che smise di mangiare” alle 21:00. Con “Il romanzo di Londra”il giornalista Antonio Caprarica incontrerà il
pubblico alle 22.00. Infine Rosanna
Lambertucci chiuderà la serata in bellezza con “E sono corsa da te” dalle
22:45.
L’ufficio stampa
La delusione di Origene
L’avvenimento centrale, nell’ambito dell’intera attività di
Origene, fu il trasferimento da Alessandria a Cesarea di Palestina a seguito
della condanna che Demetrio, il vescovo della metropoli egizia, gli aveva fatto
infliggere per essere stato ordinato presbitero intorno al 233 da Teoctisto,
vescovo di quella città palestinese, senza che egli lo avesse previamente
autorizzato. In effetti Origene, maestro nella scuola catechetica di
Alessandria, aspirava al presbiterato, al fine di poter predicare in chiesa e
perciò allargare di molto l’ambito di quanti potessero fruire del suo
insegnamento.
E proprio questo Demetrio non voleva, già a disagio a causa
del prestigio che aureolava la fama di Origene, in quanto studioso della
Scrittura, ben al di là di Alessandria, e che perciò dava ombra a quel vescovo
autoritario e accentratore. La condanna inflitta a Origene dalla Chiesa di
Alessandria non fu considerata valida dai vescovi della Palestina e di altre
regioni di oriente, sì che a Cesarea Origene poté affiancare all’insegnamento
scolastico anche la predicazione rivolta all’intera comunità, presente a volte
anche il vescovo.
La predicazione si esplicava soprattutto nell’ambito di assemblee liturgiche infrasettimanali, la cui finalità era di istruire i fedeli nella conoscenza della Scrittura che la Chiesa aveva ereditato e accolto dai giudei (in sostanza l’attuale Antico Testamento), ma la cui validità era fortemente contestata da fedeli di origine pagana, i più radicali dei quali — gli gnostici — si erano separati, anche se non solo per questo motivo, dalla Chiesa. In queste assemblee, che si riunivano con grande frequenza, a volte addirittura in giorni contigui, venivano proclamati libri interi della Scrittura, o ampie parti di essi, e di volta in volta uno dei testi previamente letti era oggetto di una omelia, che ne illustrava i significati.
In questo ambito Origene predicò sistematicamente, e svariate raccolte di sue omelie furono allora messe per scritto e sono a giunte a noi. Stante la perdita di gran parte dei suoi scritti nell’originale greco, provocata dalle varie condanne che gli furono comminate post mortem, queste raccolte omiletiche sono giunte a noi quasi tutte in latino nelle traduzioni di Girolamo e Rufino (su Genesi, Esodo, Levitico e così via). Nell’originale greco conosciamo soltanto una raccolta di omelie su Geremia, alla quale di recente si è aggiunta un’altra sui Salmi, da poco individuata nel codice Monacensis Graecus 314 e pubblicata a opera di un’équipe di studiosi italiani diretta da Lorenzo Perrone.
Origene aveva addirittura sfidato la condanna pur di poter entrare in contatto con l’intera comunità dei fedeli tramite la predicazione, ma essa a Cesarea non incontrò affatto l’incontrastato successo che, data la sua già ben affermata fama di maestro e scrittore, ci si sarebbe potuto attendere. Da vari spunti polemici che si leggono in alcune omelie, per esempio, sulla Genesi, appare chiaro che una parte degli ascoltatori, non quantitativamente rilevabile ma per certo tutt’altro che trascurabile, non gradiva il modo di predicare di Origene.
Nella prima omelia sul Levitico egli stesso sintetizza le critiche che gli venivano rivolte nell’espressione «contorcimenti (strophài) di parole e nebbia di allegorie». Il secondo appunto coglie l’aspetto più specifico dell’esegesi di Origene, che in questo continuava la tradizione esegetica giudeoellenistica di Alessandria, da noi conosciuta soprattutto grazie agli scritti di Filone. Finalità di questa esegesi alessandrina era la ricerca della congruenza tra Scrittura ebraica e filosofia greca, il che era realizzabile soltanto grazie a una massiccia interpretazione allegorica del testo: i fiumi del paradiso sono simbolo delle virtù, Abramo dell’uomo sapiente e così via.
La predicazione si esplicava soprattutto nell’ambito di assemblee liturgiche infrasettimanali, la cui finalità era di istruire i fedeli nella conoscenza della Scrittura che la Chiesa aveva ereditato e accolto dai giudei (in sostanza l’attuale Antico Testamento), ma la cui validità era fortemente contestata da fedeli di origine pagana, i più radicali dei quali — gli gnostici — si erano separati, anche se non solo per questo motivo, dalla Chiesa. In queste assemblee, che si riunivano con grande frequenza, a volte addirittura in giorni contigui, venivano proclamati libri interi della Scrittura, o ampie parti di essi, e di volta in volta uno dei testi previamente letti era oggetto di una omelia, che ne illustrava i significati.
In questo ambito Origene predicò sistematicamente, e svariate raccolte di sue omelie furono allora messe per scritto e sono a giunte a noi. Stante la perdita di gran parte dei suoi scritti nell’originale greco, provocata dalle varie condanne che gli furono comminate post mortem, queste raccolte omiletiche sono giunte a noi quasi tutte in latino nelle traduzioni di Girolamo e Rufino (su Genesi, Esodo, Levitico e così via). Nell’originale greco conosciamo soltanto una raccolta di omelie su Geremia, alla quale di recente si è aggiunta un’altra sui Salmi, da poco individuata nel codice Monacensis Graecus 314 e pubblicata a opera di un’équipe di studiosi italiani diretta da Lorenzo Perrone.
Origene aveva addirittura sfidato la condanna pur di poter entrare in contatto con l’intera comunità dei fedeli tramite la predicazione, ma essa a Cesarea non incontrò affatto l’incontrastato successo che, data la sua già ben affermata fama di maestro e scrittore, ci si sarebbe potuto attendere. Da vari spunti polemici che si leggono in alcune omelie, per esempio, sulla Genesi, appare chiaro che una parte degli ascoltatori, non quantitativamente rilevabile ma per certo tutt’altro che trascurabile, non gradiva il modo di predicare di Origene.
Nella prima omelia sul Levitico egli stesso sintetizza le critiche che gli venivano rivolte nell’espressione «contorcimenti (strophài) di parole e nebbia di allegorie». Il secondo appunto coglie l’aspetto più specifico dell’esegesi di Origene, che in questo continuava la tradizione esegetica giudeoellenistica di Alessandria, da noi conosciuta soprattutto grazie agli scritti di Filone. Finalità di questa esegesi alessandrina era la ricerca della congruenza tra Scrittura ebraica e filosofia greca, il che era realizzabile soltanto grazie a una massiccia interpretazione allegorica del testo: i fiumi del paradiso sono simbolo delle virtù, Abramo dell’uomo sapiente e così via.
di Manlio Simonetti
mercoledì 26 agosto 2015
Se la Shoah modifica il DNA
Una ricerca che farà molto discutere e aprirà nuove prospettive tanto agli scienziati che al più vasto pubblico è quella condotta al Mount Sinai Hospital di New York dall’équipe guidata da Rachel Yehuda, professore di psichiatria e neuroscienza e affermata ricercatrice degli effetti dei traumi ambientali sulla genetica umana (studi simili erano invero stati condotti sugli animali ma non sull’uomo). La ricerca è stata oggetto di un ampio articolo su «The Guardian» ed è stata ripresa dal «Corriere della Sera» del 23 agosto in un articolo di Anna Meldolesi. In sostanza, questa è la domanda che la dottoressa Yehuda si è posta: gli stress e i traumi, fattori ambientali per eccellenza, hanno effetti anche sui geni, tali quindi da continuare nelle generazioni successive, o si limitano alla sfera psicologica? La risposta della scienziata è positiva, e tanto più significativa in quanto la ricerca si è svolta analizzando il Dna di trentadue sopravvissuti alla Shoah, uomini e donne, e dei loro figli. I risultati sono molto rilevanti: tanto nei sopravvissuti che nei loro figli si sono rilevate modificazioni genetiche che non si trovano nei geni di altri ebrei che non sono passati attraverso l’esperienza della Shoah. Insomma, il trauma per eccellenza del Novecento, il campo di sterminio, non si è limitato a lasciare tracce indelebili nell’animo di chi lo ha vissuto, ma ha anche portato a modifiche del suo Dna, rafforzando le difese di fronte al trauma, e si è trasmesso ai figli. E chissà, forse, alle successive generazioni.Che la Shoah sia stata in grado di influenzare non solo la mente di quanti l’avevano sperimentata sulla loro pelle ma anche quella dei loro figli e nipoti, è qualcosa che si sapeva da molto tempo e su cui ci sono molti lavori di psichiatri e psicoanalisti. Dal libro di Helen Epstein, Figli dell’Olocausto. Conversazioni con i figli dei sopravvissuti (1979), uno dei primi lavori che prendevano in considerazione l’idea di una trasmissione intergenerazionale del trauma della Shoah, allo studio di Dina Wardi, psicoterapeuta israeliana di origine italiana che si è occupata a lungo dei figli dei sopravvissuti: fra l’altro nel suo splendido Le candele della memoria (tradotto in italiano nel 2013) ha elaborato l’affascinante teoria che in ogni famiglia sia uno soltanto dei figli a prendersi il compito di trasmettere la memoria. Vi sono poi molti altri lavori, tutti però centrati su un approccio psicoanalitico e non genetico. Ora, invece, lo studio condotto al Mount Sinai Hospital di New York travolge completamente il sapere acquisito, e sembra seppellire definitivamente le teorie freudiane. È la domanda chiave di ogni studio di questo genere: siamo di fronte a fattori psicologici o neurologici?Bisogna però chiarire — a parziale approfondimento e correzione di un’immagine puramente «fisica» — che almeno una parte degli scienziati distingue tra quella che viene chiamata «eredità epigenetica», cioè basata sulle trasformazioni indotte sui geni dall’ambiente, e il resto del patrimonio genetico: una via, insomma, per conciliare la genetica con l’apporto ambientale. Il team guidato da Yehuda ha analizzato in particolare un gene legato allo stress, individuando proprio in questo le modifiche indotte dall’esperienza dei campi nei sopravvissuti e nei loro figli, e non reperibili in altri gruppi. È uno studio estremamente importante, che induce evidentemente molte domande. Esso è stato condotto sul confronto tra ebrei sopravvissuti ed ebrei che non hanno vissuto la Shoah, e che quindi non ne hanno memoria genetica diretta. Ma Yehuda e la sua équipe hanno lavorato su molti altri gruppi esposti a traumi, come i sopravvissuti dell’11 settembre. E, allora, la teoria della modificazione genetica e della sua trasmissione intergenerazionale si applica alla sola Shoah o a molti gruppi sottoposti a stress e disastri di grande entità? Che dire dei sopravvissuti agli altri genocidi o a tragedie collettive di grandi dimensioni? Ne risulterà un rafforzamento della teoria ormai molto rivisitata dell’unicità della Shoah o una sua ulteriore revisione critica? E che spazio sarà allora riservato alla memoria storica, che certo non è assente nei gruppi ebraici che non hanno avuto rapporti diretti con lo sterminio, come gli ebrei emigrati negli Stati Uniti, ma che lo conoscono, lo rivivono, ne trasmettono la memoria? Dovremo distinguere tra memoria storica e memoria genetica, tra quello che l’individuo porta iscritto nel suo Dna, indipendentemente dalle sue conoscenze, e la consapevolezza, il sapere, l’immedesimazione? Insomma, i quesiti che si aprono se queste ricerche troveranno conferma sono tali da mettere in discussione molte delle nostre nozioni e delle nostre concezioni. E da farci tremare le vene e i polsi.
di Anna Foa
domenica 23 agosto 2015
Il dilemma di Blaise Pascal
«Mosè o la Cina», si domanda Blaise Pascal. «Chi è più credibile?»
(Pensées, Brunschvicg 593). Non si tratta di capire chi ha ragione, tra
Mosè o gli archivisti cinesi, sulla cronologia dei primi avvenimenti
della storia del mondo, di cui gli uni e gli altri si proclamano
testimoni. Dietro alla querelle storiografica, che permette al libertino
di diventare seguace di Pascal e della sua Apologia del cristianesimo
si profila il più profondo dialogo mai intrattenuto dal cristianesimo
con una cultura non biblica: «Mosè o la Cina»? Propongo di cambiare una
sola parola a questa frase per comprenderla oggi in tutta la sua forza:
«Mosè “e” la Cina».
Si tratta in questo faccia a faccia, che sembra in effetti sproporzionato, in quanto tra un uomo (o un libro) e un Paese, non di una lite, ma di un incontro. Non di una muraglia da difendere, ma di una nuova frontiera da abitare. Non sono un sinologo e il mio recente soggiorno di tre mesi a Shanghai, come professore invitato dalle facoltà di filosofia di Fudan e Jiao Tong non mi conferisce alcun titolo per cui io possa ragionevolmente parlare dell’argomento Cina. Sono un sacerdote cattolico, insegnante di filosofia e di teologia, che ha imparato al collegio dei Bernardini a Parigi a trasmettere la fede ai giovani di oggi ascoltando la voce dello Spirito Santo nell’esperienza dei ricercatori e nel sapere dei professionisti di qualsiasi provenienza. L’esperienza di vita e di insegnamento che ho fatto, per la seconda volta quest’anno, presso giovani studenti e insegnanti cinesi, a Shanghai, mi ha aperto gli occhi su alcune realtà che mi sembrano troppo trascurate, se non ignorate dal pubblico anche colto dei nostri Paesi europ ei. Sebbene il territorio cinese, le radici di questa civiltà e la storia recente della Cina siano profondamente diversi dai nostri, come sanno e rivendicano gli studenti che ho incontrato, i ragazzi hanno scelto di accompagnare l’entrata della Cina nel mondo contemporaneo internazionalizzandosi. Quando, dunque, un professore coreano sessantenne raccomanda loro di approfondire le risorse tradizionali del pensiero cinese, questi stessi giovani si appassionano. E quando chiede loro di non occidentalizzarsi, non osano rispondere che questo non è in discussione. Come mi ha detto un professore di storia di una quarantina d’anni: la Cina ha gestito in modo molto diverso in passato le relazioni con l’Occidente, chiudendosi a volte alla sua influenza, a volte sottomettendosi alla sua dominazione militare e industriale. Oggi si tratta di fare esperienza di un vero incontro. Certamente, il mondo internazionale è stato modellato, sul piano culturale, politico ed economico, da coloro che lo abitavano prima di noi. La storia recente dimostra che abbiamo bisogno di aprirci al mondo. Intendiamo entrarci e dare il nostro apporto. L’élite studentesca di Shanghai appartiene già a molti mondi diversi, trasferendosi oggi un anno o due all’estero per il tempo del master o oltre, per un dottorato, tracciando così in anticipo il cammino che prenderanno più o meno velocemente le università delle altre megalopoli cinesi. Come ho potuto fare lezione a studenti dai quali tutto sembra separarmi, il passato, come il presente e il futuro? I nostri rispettivi Paesi sembrano così stanchi di impegnarsi, così impauriti di andare incontro all’ignoto e abitare il futuro. In realtà dall’anno scorso ho scoperto che la ricerca compiuta a Parigi sulle frontiere della Chiesa e della società contemporanea mi aveva insegnato a scoprire questioni e sentieri di riflessione che non sono propri di una cultura, ma di tutte le culture quando sono messe alla prova dai mutamenti tecnologici e dalla globalizzazione del mondo di oggi. Più che di una cultura internazionalizzata, ciò di cui è testimone e agente questa giovane élite è un’internazionalizzazione delle questioni, questioni che si pongono a una profondità umana quasi transculturale, a causa dell’imp ortanza dei cambiamenti già in corso. La globalizzazione del mondo è prima di tutto una globalizzazione delle questioni antropologiche. Non serve a nulla lamentarsi delle difficoltà presenti, ma bisogna prendere misura del loro carattere globale e trarne profitto per creare utili reti di incontri e di ricerca. Mi sembra vitale che la Chiesa ne prenda coscienza, come è vitale per i responsabili del mondo secolare. Soggiornare in Cina vale il viaggio, perché lì si comprende, osservando i cinesi, che ciò che è immobile si sgretola e ciò che è mobile permane. I tanti cambiamenti profondi nella condizione umana non devono immobilizzarci come fossero un’inestricabile matassa di problemi. I nostri dati previsionali non servono a nulla se la paura ci paralizza. Devono piuttosto aiutarci a riflettere, alla luce delle nostre convinzioni più profonde, la fede, la speranza e la carità, e incoraggiarci all’azione. Non è, del resto, ciò che fa Papa Francesco in merito alla crisi ecologica, e in tutti gli atti e le parole del suo ministero? Quali questioni, per esempio, si pongono gli studenti che ho conosciuto? Ho già citato quelle che nascono dalla globalizzazione: sono meno cinese perché ascolto le soap opera coreane e scrivo la tesi in Inghilterra? No, perché il mio Paese è già attivo nel mondo e voglio che lo sia ancora di più. Emerge già in loro il concetto di individualismo moderno e di contratto sociale: sono cinese, con tutto me stesso, o me stessa, liberamente, e dispongo dei miei impegni culturali, grazie ai quali faccio crescere ciò che significa la mia appartenenza. Un’altra questione frequente, insistente, è quella della tensione tra i valori della famiglia, assimilati alla tradizione, e quelli dell’università, dell’adulto che sono divenuto. Nel corso di un seminario etico, ciò può dare adito a fertili scambi di questo tenore: «Perché dovrei seguire l’etica che ha segnato la mia infanzia: amare i figli e onorare gli anziani?»; «Devo scegliere tra i valori del sapere e della critica e quelli della trasmissione dell’autorità?»; «Qual è il principio dell’etica? La massimizzazione del profitto come vuole Bentham?». Sulle problematiche dell’erudizione, siamo in pieno dibattito postmoderno tra fede e sapere, da una parte e dall’altra della muraglia cinese. Gli studenti cinesi che ho conosciuto uniscono più facilmente, rispetto ai loro omologhi occidentali, il livello scientifico e quello esistenziale delle questioni. Senza concessioni per l’obiettività del lavoro di documentazione e di ricerca, come ho visto durante un convegno accademico organizzato dagli studenti sugli «eventi di Charlie Hebdo», il sapere è ancora per loro una posta personale in gioco, al di là delle necessità amministrative relative agli esami e agli obblighi dell’erudizione accademica. Forse anche in questo caso ci aiuteranno a ripensare il progetto dell’università? La Cina insegna ai suoi studenti la cultura del mondo in cui è entrata. I numerosi ricercatori americani o europei, delle migliori università, fanno la fila per intervenire a convegni o offrire seminari in questo Paese. Quanti sono coloro che possono fare di più che insegnare lì le proprie conoscenze? Se gli universitari e gli studenti del mondo occidentale non si aprono allo studio approfondito dei tesori del pensiero cinese non beneficeranno dello scambio di doni che entra in gio co. La questione del comunismo è certamente sempre presente, se non altro per l’esistenza di centri di studio scientifico del marxismo. È stato quindi difficile spiegare ciò che intende fare il Social Business nelle economie di mercato in un Paese che vive sotto la legge del «poco importa che un gatto sia nero o bianco, basta che acchiappi i topi» (Deng Xiao Ping). Il Social Business è veramente una soluzione durevole e generalizzabile?. La questione del cristianesimo emerge anche in modo naturale, sia per ragioni storiche — di cultura letteraria, di etica — sia per questioni personali. Quando si è molto in confidenza, può arrivare la domanda, strappata alla storia dolorosa delle missioni del XIX secolo in Cina, come anche originata dalle domande della cultura postcristiana contemporanea: «È vero che voi cristiani volete convertire tutti gli uomini al cristianesimo?». Bisogna essere franchi nella risposta, perché non si scherza in Cina con un falso universale: «No, sarebbe imperialismo. Ma noi crediamo che Dio conosce il cammino di ciascuno e veglia su di lui». La Cina è sicuramente un Paese di contraddizioni, ma è soprattutto un Paese che si adatta. Nulla lo mostra meglio della circolazione dei pedoni, delle due ruote di tutti i tipi e delle automobili, spesso enormi a Shanghai, nelle strade e sui marciapiedi. Il rispetto della legge e del codice della strada non intralciano in nulla ciò che Aristotele chiamerebbe epikie: l’adattamento della legge generale al caso particolare è affidata al buon senso dell’uomo prudente. Semaforo rosso, semaforo verde, l’importante è non ferire né urtare nessuno in quella densa folla. Riflessione profonda: e se la nostra intelligenza della libertà cristiana e della legge morale avesse qualcosa di grande da guadagnare dal pensiero cinese, che evita il più possibile i dualismi devastanti, quando ostacolano indebitamente la circolazione del respiro e della vita? Inconsciamente avevo ancora in testa, venendo qui, le folle cinesi compatte, con le loro uniformi e le loro biciclette, apparentemente riproducibili all’infinito, come le si vedeva nei reportage degli anni Settanta e Ottanta. O le scodelle di riso di quaresima, che mangiavamo per solidarietà verso i bambini cinesi affamati da Mao. Queste immagini hanno dai 35 ai 45 anni Sono per i miei studenti ciò che erano per me, alla loro età, le immagini degli anni intorno al 1945: la storia del mio Paese e non il mio presente. Lo stato d’animo degli studenti cinesi che ho incontrato e con i quali ho a lungo lavorato è quello dei figli e delle figlie di un Paese che in trent’anni si è trasformato, che ha vissuto la tragedia memorabile della rivoluzione culturale, cinquant’anni fa, senza dimenticare la rivoluzione anti-confuciana, cent’anni fa. La Cina viene da lontano e porta il segno dei suoi traumi. Ritrova, o piuttosto “inventa” in maniera inedita il proprio essere profondo di Paese grande e molto antico. Da questi avvenimenti storici, di cui i giovani studenti che ho conosciuto hanno più o meno coscienza, nasce per loro non un destino, ma le condizioni di un futuro. La Cina è uno dei rari Paesi in cui uno sa perché è lì. Avevo provato la stessa sensazione a Gerusalemme. Comprendo meglio quanto bene può fare il cristianesimo quando partecipo qui alla messa o alle altre celebrazioni liturgiche cristiane: a Shanghai sono numerose. Le celebrazioni presbiteriane, per esempio, sebbene forse non le più coerenti, per un cattolico romano, dal punto di vista liturgico, non sembrano meno provvidenzialmente adattate a un annuncio riflettuto e dinamico della fede cristiana in Cina. Che strana assemblea pre-democratica che è l’assemblea religiosa dei cristiani, “popolo di Dio”! La presenza di alcuni studenti cristiani nei seminari universitari ai quali ho partecipato, in scienza delle religioni o in etica, mi ha mostrato ogni volta l’imp ortanza della comunione ecumenica che ci riunisce e la profondità della trasformazione umana da parte dello Spirito di Cristo. Come tale rinnovamento si incarna nei cuori! Perché vi si incarni, ne adotta lo spirito. L’antropologia cinese del respiro-spirito, che non isola il pensiero e l’amore dalla respirazione e dalla vita, non realizza a suo modo la verità a cui mira il cuore-spirito dei profeti della nuova Alleanza? Quale profitto potremmo trarne nella nostra lettura di san Paolo! La “carne” è “pietra” senza lo “spirito”, che è allora “orgoglio”, perché ciò che è più in alto tocca ciò che più in basso. La divisione o la confusione tra i due non è forse il peccato e il frutto del peccato? “Anima”, “corpo”, tali concetti insuperabili e inseparabili del cristianesimo, non designano forse ciascuno, sia nella Bibbia che alla luce del pensiero cinese, l’uomo intero, nella sua complessità, sotto i tratti dell’una e dell’altra delle dimensioni? Oggi, l’entrata inaudita della Cina nelle relazioni internazionali permette un incontro inedito con le sue risorse intellettuali e spirituali, approfondite e messe a disposizione di tutti nelle sue università. L’energia presente del suo popolo, la speranza fondata del suo futuro, invitano il cristianesimo, che condivide già una lunga storia con la Cina, con le sue pagine gloriose e le sue pagine oscure, a osare l’incontro, a sedersi al tavolo apparecchiato dalla saggezza ospitale, che cerca ovunque e in ogni generazione le anime dei giusti ai quali trasmettersi.
Si tratta in questo faccia a faccia, che sembra in effetti sproporzionato, in quanto tra un uomo (o un libro) e un Paese, non di una lite, ma di un incontro. Non di una muraglia da difendere, ma di una nuova frontiera da abitare. Non sono un sinologo e il mio recente soggiorno di tre mesi a Shanghai, come professore invitato dalle facoltà di filosofia di Fudan e Jiao Tong non mi conferisce alcun titolo per cui io possa ragionevolmente parlare dell’argomento Cina. Sono un sacerdote cattolico, insegnante di filosofia e di teologia, che ha imparato al collegio dei Bernardini a Parigi a trasmettere la fede ai giovani di oggi ascoltando la voce dello Spirito Santo nell’esperienza dei ricercatori e nel sapere dei professionisti di qualsiasi provenienza. L’esperienza di vita e di insegnamento che ho fatto, per la seconda volta quest’anno, presso giovani studenti e insegnanti cinesi, a Shanghai, mi ha aperto gli occhi su alcune realtà che mi sembrano troppo trascurate, se non ignorate dal pubblico anche colto dei nostri Paesi europ ei. Sebbene il territorio cinese, le radici di questa civiltà e la storia recente della Cina siano profondamente diversi dai nostri, come sanno e rivendicano gli studenti che ho incontrato, i ragazzi hanno scelto di accompagnare l’entrata della Cina nel mondo contemporaneo internazionalizzandosi. Quando, dunque, un professore coreano sessantenne raccomanda loro di approfondire le risorse tradizionali del pensiero cinese, questi stessi giovani si appassionano. E quando chiede loro di non occidentalizzarsi, non osano rispondere che questo non è in discussione. Come mi ha detto un professore di storia di una quarantina d’anni: la Cina ha gestito in modo molto diverso in passato le relazioni con l’Occidente, chiudendosi a volte alla sua influenza, a volte sottomettendosi alla sua dominazione militare e industriale. Oggi si tratta di fare esperienza di un vero incontro. Certamente, il mondo internazionale è stato modellato, sul piano culturale, politico ed economico, da coloro che lo abitavano prima di noi. La storia recente dimostra che abbiamo bisogno di aprirci al mondo. Intendiamo entrarci e dare il nostro apporto. L’élite studentesca di Shanghai appartiene già a molti mondi diversi, trasferendosi oggi un anno o due all’estero per il tempo del master o oltre, per un dottorato, tracciando così in anticipo il cammino che prenderanno più o meno velocemente le università delle altre megalopoli cinesi. Come ho potuto fare lezione a studenti dai quali tutto sembra separarmi, il passato, come il presente e il futuro? I nostri rispettivi Paesi sembrano così stanchi di impegnarsi, così impauriti di andare incontro all’ignoto e abitare il futuro. In realtà dall’anno scorso ho scoperto che la ricerca compiuta a Parigi sulle frontiere della Chiesa e della società contemporanea mi aveva insegnato a scoprire questioni e sentieri di riflessione che non sono propri di una cultura, ma di tutte le culture quando sono messe alla prova dai mutamenti tecnologici e dalla globalizzazione del mondo di oggi. Più che di una cultura internazionalizzata, ciò di cui è testimone e agente questa giovane élite è un’internazionalizzazione delle questioni, questioni che si pongono a una profondità umana quasi transculturale, a causa dell’imp ortanza dei cambiamenti già in corso. La globalizzazione del mondo è prima di tutto una globalizzazione delle questioni antropologiche. Non serve a nulla lamentarsi delle difficoltà presenti, ma bisogna prendere misura del loro carattere globale e trarne profitto per creare utili reti di incontri e di ricerca. Mi sembra vitale che la Chiesa ne prenda coscienza, come è vitale per i responsabili del mondo secolare. Soggiornare in Cina vale il viaggio, perché lì si comprende, osservando i cinesi, che ciò che è immobile si sgretola e ciò che è mobile permane. I tanti cambiamenti profondi nella condizione umana non devono immobilizzarci come fossero un’inestricabile matassa di problemi. I nostri dati previsionali non servono a nulla se la paura ci paralizza. Devono piuttosto aiutarci a riflettere, alla luce delle nostre convinzioni più profonde, la fede, la speranza e la carità, e incoraggiarci all’azione. Non è, del resto, ciò che fa Papa Francesco in merito alla crisi ecologica, e in tutti gli atti e le parole del suo ministero? Quali questioni, per esempio, si pongono gli studenti che ho conosciuto? Ho già citato quelle che nascono dalla globalizzazione: sono meno cinese perché ascolto le soap opera coreane e scrivo la tesi in Inghilterra? No, perché il mio Paese è già attivo nel mondo e voglio che lo sia ancora di più. Emerge già in loro il concetto di individualismo moderno e di contratto sociale: sono cinese, con tutto me stesso, o me stessa, liberamente, e dispongo dei miei impegni culturali, grazie ai quali faccio crescere ciò che significa la mia appartenenza. Un’altra questione frequente, insistente, è quella della tensione tra i valori della famiglia, assimilati alla tradizione, e quelli dell’università, dell’adulto che sono divenuto. Nel corso di un seminario etico, ciò può dare adito a fertili scambi di questo tenore: «Perché dovrei seguire l’etica che ha segnato la mia infanzia: amare i figli e onorare gli anziani?»; «Devo scegliere tra i valori del sapere e della critica e quelli della trasmissione dell’autorità?»; «Qual è il principio dell’etica? La massimizzazione del profitto come vuole Bentham?». Sulle problematiche dell’erudizione, siamo in pieno dibattito postmoderno tra fede e sapere, da una parte e dall’altra della muraglia cinese. Gli studenti cinesi che ho conosciuto uniscono più facilmente, rispetto ai loro omologhi occidentali, il livello scientifico e quello esistenziale delle questioni. Senza concessioni per l’obiettività del lavoro di documentazione e di ricerca, come ho visto durante un convegno accademico organizzato dagli studenti sugli «eventi di Charlie Hebdo», il sapere è ancora per loro una posta personale in gioco, al di là delle necessità amministrative relative agli esami e agli obblighi dell’erudizione accademica. Forse anche in questo caso ci aiuteranno a ripensare il progetto dell’università? La Cina insegna ai suoi studenti la cultura del mondo in cui è entrata. I numerosi ricercatori americani o europei, delle migliori università, fanno la fila per intervenire a convegni o offrire seminari in questo Paese. Quanti sono coloro che possono fare di più che insegnare lì le proprie conoscenze? Se gli universitari e gli studenti del mondo occidentale non si aprono allo studio approfondito dei tesori del pensiero cinese non beneficeranno dello scambio di doni che entra in gio co. La questione del comunismo è certamente sempre presente, se non altro per l’esistenza di centri di studio scientifico del marxismo. È stato quindi difficile spiegare ciò che intende fare il Social Business nelle economie di mercato in un Paese che vive sotto la legge del «poco importa che un gatto sia nero o bianco, basta che acchiappi i topi» (Deng Xiao Ping). Il Social Business è veramente una soluzione durevole e generalizzabile?. La questione del cristianesimo emerge anche in modo naturale, sia per ragioni storiche — di cultura letteraria, di etica — sia per questioni personali. Quando si è molto in confidenza, può arrivare la domanda, strappata alla storia dolorosa delle missioni del XIX secolo in Cina, come anche originata dalle domande della cultura postcristiana contemporanea: «È vero che voi cristiani volete convertire tutti gli uomini al cristianesimo?». Bisogna essere franchi nella risposta, perché non si scherza in Cina con un falso universale: «No, sarebbe imperialismo. Ma noi crediamo che Dio conosce il cammino di ciascuno e veglia su di lui». La Cina è sicuramente un Paese di contraddizioni, ma è soprattutto un Paese che si adatta. Nulla lo mostra meglio della circolazione dei pedoni, delle due ruote di tutti i tipi e delle automobili, spesso enormi a Shanghai, nelle strade e sui marciapiedi. Il rispetto della legge e del codice della strada non intralciano in nulla ciò che Aristotele chiamerebbe epikie: l’adattamento della legge generale al caso particolare è affidata al buon senso dell’uomo prudente. Semaforo rosso, semaforo verde, l’importante è non ferire né urtare nessuno in quella densa folla. Riflessione profonda: e se la nostra intelligenza della libertà cristiana e della legge morale avesse qualcosa di grande da guadagnare dal pensiero cinese, che evita il più possibile i dualismi devastanti, quando ostacolano indebitamente la circolazione del respiro e della vita? Inconsciamente avevo ancora in testa, venendo qui, le folle cinesi compatte, con le loro uniformi e le loro biciclette, apparentemente riproducibili all’infinito, come le si vedeva nei reportage degli anni Settanta e Ottanta. O le scodelle di riso di quaresima, che mangiavamo per solidarietà verso i bambini cinesi affamati da Mao. Queste immagini hanno dai 35 ai 45 anni Sono per i miei studenti ciò che erano per me, alla loro età, le immagini degli anni intorno al 1945: la storia del mio Paese e non il mio presente. Lo stato d’animo degli studenti cinesi che ho incontrato e con i quali ho a lungo lavorato è quello dei figli e delle figlie di un Paese che in trent’anni si è trasformato, che ha vissuto la tragedia memorabile della rivoluzione culturale, cinquant’anni fa, senza dimenticare la rivoluzione anti-confuciana, cent’anni fa. La Cina viene da lontano e porta il segno dei suoi traumi. Ritrova, o piuttosto “inventa” in maniera inedita il proprio essere profondo di Paese grande e molto antico. Da questi avvenimenti storici, di cui i giovani studenti che ho conosciuto hanno più o meno coscienza, nasce per loro non un destino, ma le condizioni di un futuro. La Cina è uno dei rari Paesi in cui uno sa perché è lì. Avevo provato la stessa sensazione a Gerusalemme. Comprendo meglio quanto bene può fare il cristianesimo quando partecipo qui alla messa o alle altre celebrazioni liturgiche cristiane: a Shanghai sono numerose. Le celebrazioni presbiteriane, per esempio, sebbene forse non le più coerenti, per un cattolico romano, dal punto di vista liturgico, non sembrano meno provvidenzialmente adattate a un annuncio riflettuto e dinamico della fede cristiana in Cina. Che strana assemblea pre-democratica che è l’assemblea religiosa dei cristiani, “popolo di Dio”! La presenza di alcuni studenti cristiani nei seminari universitari ai quali ho partecipato, in scienza delle religioni o in etica, mi ha mostrato ogni volta l’imp ortanza della comunione ecumenica che ci riunisce e la profondità della trasformazione umana da parte dello Spirito di Cristo. Come tale rinnovamento si incarna nei cuori! Perché vi si incarni, ne adotta lo spirito. L’antropologia cinese del respiro-spirito, che non isola il pensiero e l’amore dalla respirazione e dalla vita, non realizza a suo modo la verità a cui mira il cuore-spirito dei profeti della nuova Alleanza? Quale profitto potremmo trarne nella nostra lettura di san Paolo! La “carne” è “pietra” senza lo “spirito”, che è allora “orgoglio”, perché ciò che è più in alto tocca ciò che più in basso. La divisione o la confusione tra i due non è forse il peccato e il frutto del peccato? “Anima”, “corpo”, tali concetti insuperabili e inseparabili del cristianesimo, non designano forse ciascuno, sia nella Bibbia che alla luce del pensiero cinese, l’uomo intero, nella sua complessità, sotto i tratti dell’una e dell’altra delle dimensioni? Oggi, l’entrata inaudita della Cina nelle relazioni internazionali permette un incontro inedito con le sue risorse intellettuali e spirituali, approfondite e messe a disposizione di tutti nelle sue università. L’energia presente del suo popolo, la speranza fondata del suo futuro, invitano il cristianesimo, che condivide già una lunga storia con la Cina, con le sue pagine gloriose e le sue pagine oscure, a osare l’incontro, a sedersi al tavolo apparecchiato dalla saggezza ospitale, che cerca ovunque e in ogni generazione le anime dei giusti ai quali trasmettersi.
di Antoine Guggenheim
martedì 18 agosto 2015
Madeleine Delbrel, Città marxista terra di missione
Cosa può aver da dire, oggi, un libro uscito la prima volta in Francia
nel 1957, nell’epoca dei preti-operai, al culmine del confronto-
scontro tra cristianesimo e comunismo? Non siamo davanti a
testimonianza commovente ma irrimediabilmente anacronistica? No. Il
libro in questione è Città marxista, terra di missione, che
torna ora in una nuova edizione arricchita di un epistolario inedito.
L’autrice quella Madeleine Delbrêl - attivista sociale, scrittrice,
protofemminista cristiana e mistica che, morta poco più di cinquant’anni
fa (ottobre 1964), non cessa di rivelarsi sorprendentemente attuale.
Per questa ragione c’è di che esser grati alle edizioni Gribaudi che
stanno conducendo la pubblicazione dell’opera omnia della Delbrêl. Il
nuovo libro (quinto della serie), sebbene non sia notissimo è,
tuttavia, uno dei più importanti e presenta pagine che richiamano
indicazioni sull’evangelizzazione che sentiamo spesso sulle labbra di
papa Francesco.
Così come Bergoglio, la Delbrêl è tutta tesa a ridare cittadinanza a Dio nelle Ninive di oggi. Scrive: «Se degli uomini possono giungere ad affermare 'Dio è morto' nella mia e nelle altre città, se dei cristiani ne furono responsabili, coscienti o no, io che vivo oggi, sono anch’io
una responsabile: infatti i cristiani di tutti i tempi sono una cosa sola». La città di Madeleine era la Ivry degli anni ’30, periferia operaia di Parigi, «con 300 officine piccole e medie»: un contesto profondamente proletario, intriso di marxismo, dove, per annunciare il Vangelo, Madeleine e compagne scelgono di dar vita a una forma di presenza nuova, disarmata e povera. È in quell’ambiente che prende forma
Città marxista, terra di missione: Madeleine nel 1954 invia a monsignor Veuillot, allora membro della Segreteria di Stato vaticana, un primo abbozzo, accompagnato da una lettera, in cui ricorda l’udienza concessale da Pio XII a Castel Gandolfo nell’agosto 1953, durante la quale il Papa le aveva ripetuto per tre volte la parola 'apostolato'. Quell’incontro avrebbe innescato una serie di reazioni a catena, compreso il volume di cui stiamo parlando. Nei suoi 22 anni di lavoro a Ivry, Madeleine si troverà a vincere diffidenza e resistenze. «Gente che mi era ignota - scrive mi salutava per strada con il lancio di qualche ciottolo, ma ancor più spesso con ingiurie. Ogni nuovo arrivato era costretto a dichiararsi o cattolico o comunista». Ma di lì a poco si accorge che «la separazione ufficialmente proclamata tra cattolici e comunisti ricopriva una rete di relazioni inevitabili». Lo stesso accadrà per lei: da operatrice sociale, non può non avere frequenti contatti con i funzionari della municipalità 'rossa'.
Ebbene: la Delbrêl intuisce che deve calarsi in profondità in quell’«ambiente impenetrabile alla Chiesa». Capirlo, anzitutto. Perché «le zone marxiste della Francia a differenza di certe nazioni perseguitate, non devono al marxismo il fatto di essere atee; al contrario, il marxismo deve a loro un ateismo realista». Entrare dentro la trama dei rapporti con i marxisti diventa una priorità. Davanti alla scristianizzazione - osserva nella prefazione al volume monsignor Claude Dagens, vescovo di Angoulême - «lei non si perde in critiche. Non si lamenta dei danni già molto visibili della secolarizzazione. Non sogna 'soluzioni pastorali'. Ha compreso l’importanza di un’opera di 'trivellazione'», ossia di scavo in profondità alle sorgenti della fede autentica.
Infatti, il dialogo con i comunisti - franco e rispettoso mai cede il passo al compromesso sull’essenziale: «Pur assicurando i marxisti che rispettiamo certi loro eroismi e la massa dei loro sacrifici, dobbiamo dire loro che il mondo e il tempo altro non sono se non un frammento di realtà mediante la quale facciamo noi la storia insieme a loro. Ma il 'divenire della storia' (…) è l’eternità». Ancora: «A noi la conquista del mondo come tale non interessa, a noi interessa che ogni uomo possa come noi incontrarsi con un Dio che noi amiamo e che per primo ama ciascun uomo». Per quanto paradossale possa apparire, la fedeltà al Vangelo - coraggiosa e tenace - fa sì che i marxisti suoi amici
continuino a stimarla, come testimonia il brano che qui sotto pubblichiamo. Ebbene: qui troviamo una fondamentale ragione di attualità della Delbrêl, la quale ha insegnato, con la vita, che la premessa per un dialogo autentico è la precisa consapevolezza della propria identità. Ed è forse anche per questa ragione che tanti si augurano che presto Madeleine sia proclamata beata, da un Papa che, come direbbe lei, si sta mostrando ogni giorno di più «missionario senza battello».
Così come Bergoglio, la Delbrêl è tutta tesa a ridare cittadinanza a Dio nelle Ninive di oggi. Scrive: «Se degli uomini possono giungere ad affermare 'Dio è morto' nella mia e nelle altre città, se dei cristiani ne furono responsabili, coscienti o no, io che vivo oggi, sono anch’io
una responsabile: infatti i cristiani di tutti i tempi sono una cosa sola». La città di Madeleine era la Ivry degli anni ’30, periferia operaia di Parigi, «con 300 officine piccole e medie»: un contesto profondamente proletario, intriso di marxismo, dove, per annunciare il Vangelo, Madeleine e compagne scelgono di dar vita a una forma di presenza nuova, disarmata e povera. È in quell’ambiente che prende forma
Città marxista, terra di missione: Madeleine nel 1954 invia a monsignor Veuillot, allora membro della Segreteria di Stato vaticana, un primo abbozzo, accompagnato da una lettera, in cui ricorda l’udienza concessale da Pio XII a Castel Gandolfo nell’agosto 1953, durante la quale il Papa le aveva ripetuto per tre volte la parola 'apostolato'. Quell’incontro avrebbe innescato una serie di reazioni a catena, compreso il volume di cui stiamo parlando. Nei suoi 22 anni di lavoro a Ivry, Madeleine si troverà a vincere diffidenza e resistenze. «Gente che mi era ignota - scrive mi salutava per strada con il lancio di qualche ciottolo, ma ancor più spesso con ingiurie. Ogni nuovo arrivato era costretto a dichiararsi o cattolico o comunista». Ma di lì a poco si accorge che «la separazione ufficialmente proclamata tra cattolici e comunisti ricopriva una rete di relazioni inevitabili». Lo stesso accadrà per lei: da operatrice sociale, non può non avere frequenti contatti con i funzionari della municipalità 'rossa'.
Ebbene: la Delbrêl intuisce che deve calarsi in profondità in quell’«ambiente impenetrabile alla Chiesa». Capirlo, anzitutto. Perché «le zone marxiste della Francia a differenza di certe nazioni perseguitate, non devono al marxismo il fatto di essere atee; al contrario, il marxismo deve a loro un ateismo realista». Entrare dentro la trama dei rapporti con i marxisti diventa una priorità. Davanti alla scristianizzazione - osserva nella prefazione al volume monsignor Claude Dagens, vescovo di Angoulême - «lei non si perde in critiche. Non si lamenta dei danni già molto visibili della secolarizzazione. Non sogna 'soluzioni pastorali'. Ha compreso l’importanza di un’opera di 'trivellazione'», ossia di scavo in profondità alle sorgenti della fede autentica.
Infatti, il dialogo con i comunisti - franco e rispettoso mai cede il passo al compromesso sull’essenziale: «Pur assicurando i marxisti che rispettiamo certi loro eroismi e la massa dei loro sacrifici, dobbiamo dire loro che il mondo e il tempo altro non sono se non un frammento di realtà mediante la quale facciamo noi la storia insieme a loro. Ma il 'divenire della storia' (…) è l’eternità». Ancora: «A noi la conquista del mondo come tale non interessa, a noi interessa che ogni uomo possa come noi incontrarsi con un Dio che noi amiamo e che per primo ama ciascun uomo». Per quanto paradossale possa apparire, la fedeltà al Vangelo - coraggiosa e tenace - fa sì che i marxisti suoi amici
continuino a stimarla, come testimonia il brano che qui sotto pubblichiamo. Ebbene: qui troviamo una fondamentale ragione di attualità della Delbrêl, la quale ha insegnato, con la vita, che la premessa per un dialogo autentico è la precisa consapevolezza della propria identità. Ed è forse anche per questa ragione che tanti si augurano che presto Madeleine sia proclamata beata, da un Papa che, come direbbe lei, si sta mostrando ogni giorno di più «missionario senza battello».
di Gerolamo Fazzini
venerdì 7 agosto 2015
La malamovida
Quasi tutti gli adolescenti, prima o poi, si lasciano andare
a qualche forma di trasgressione. Se vivono in stagioni storiche di lotte
politiche magari gridano slogan rivoluzionari alle manifestazioni, se sono
inghiottiti da quello che negli anni Ottanta i sociologi chiamavano il
“riflusso nel privato” sfidano le regole dei padri. Qualche volta le due cose
coincidono.
Nella maggior parte dei casi cercano solamente di dimostrare che
esistono in quanto entità autonome. E pare sia anche un percorso necessario a
diventare adulti consapevoli. Le preoccupazioni devono intervenire quando
questi comportamenti oltrepassano il livello dalla sana affermazione della
propria identità. Le notizie degli ultimi giorni portano all’attenzione
generale la degenerazione in condotte illegali e autolesionistiche di un
fenomeno che circoscritto in opportuni
confini sarebbe di normale amministrazione. L’uso di sostanze stupefacenti e
l’abuso di alcol, in particolare, sembrano diventati il principale interesse in
alcune fasce delle ultime generazioni. Ovviamente pretendere il rispetto della
legge all’interno dei locali della movida notturna, come in qualsiasi altro
luogo, è un dovere delle istituzioni. Chiudere un occhio davanti allo spaccio
di stupefacenti o all’abuso di alcolici da parte di minori, magari per evitare
di danneggiare gli interessi economici degli esercenti, non solo è un reato ma
anche un grave passo indietro rispetto alle responsabilità che una qualsiasi
amministrazione ha il dovere di assumersi. Al tempo stesso, però, pensare che
si possa affrontare un problema di questa portata solamente attraverso misure
di ordine pubblico rischia di spostare l’attenzione sugli effetti e di far
perdere di vista le cause. Senza scadere nel facile moralismo sempre in
agguato, ci si può chiedere perché sempre più giovani cerchino strumenti per
evadere dalle realtà piuttosto che idee per cambiarla. Se da una parte abbiamo
il dovere di esigere il rispetto delle regole della convivenza civile, dall’altro
dovremmo interrogare noi stessi sui motivi per cui ai nostri ai figli proprio
non piace il mondo che gli stiamo lasciando.
di Marcello Filotei
martedì 4 agosto 2015
L'uomo tra terra e cielo
«Noi non siamo Dio. La terra ci precede e ci è stata data». Con questa espressione Papa Francesco introduce nella Laudato si’ (67)
una riflessione sulla relazione di reciprocità responsabile tra essere
umano e natura, nella quale l’intreccio tra uomo, terra e cielo
costituisce l’originaria vocazione all’armonia iscritta nella creazione,
variamente interpretata dalle culture e dalle religioni. A questo
riguardo occorre interrogarsi sul senso e sul limite delle potenzialità
umane, costantemente tentate di prendere il posto di Dio.
Il diritto a esistere stabilmente in questo mondo e a elevarsi da esso non è di per sé contro Dio né contro l’umanità, ma può diventarlo. Ciò avviene quando si vuole ridurre l’unità del genere umano a uniformità, e cercando il cielo si tradisce la terra. Questo è il senso essenziale del racconto biblico della torre di Babele (cfr. Genesi, 11, 1-9), che ci orienta a una non indifferente attualità. Volendo quindi leggere la tensione tra umanità e natura alla luce della fede, non si può rinunciare all’indicazione di Babele come immagine della pluralità donata da Dio e non come frutto disgregato dell’umana superbia.
La via che l’umanità vuole percorrere verso il cielo, ovvero alla ricerca del superamento dei propri limiti, passa attraverso la terra, le sue impegnative contraddizioni, le difficoltà a dominarla, a trasformarla, a farla fruttificare. Cercare Dio nella consapevolezza di non poterlo raggiungere corrisponde, in un certo senso, a stare sulla terra con l’impegno a trarne frutto senza distruggerla.
Vi è come un singolare parallelismo tra rapporto con la terra e rapporto con il cielo — la natura e il suo oltre, potremmo dire — che rende l’umanità consapevole e responsabile delle proprie aspirazioni e dei relativi limiti. Come se, da una parte, pur portando nel cuore l’anelito alla trascendenza, fossimo costretti a riconoscerne l’irraggiungibilità, ma anche quindi a doverla riconoscere al di là di noi. D’altra parte, la più immediata possibilità di trasformare la natura si scontra con le sue incontrollabili reazioni, che la dichiarano anch’essa in qualche modo sfuggente.
L’umanità, dunque, si trova racchiusa tra cielo e terra, tra l’impenetrabilità di Dio e l’indomabilità della terra, e ciò che sembra condanna alla prigione, in realtà, è lo spazio della libertà. Siamo liberi di progettare, d’ingegnarci, di costruire, ma tutto questo esige responsabilità, per non diventare sforzo inutile, se non fallimento. «Non possiamo — si legge nella Laudato si’ (75) — sostenere una spiritualità che dimentichi Dio onnipotente e creatore. In questo modo, finiremmo per adorare altre potenze del mondo, o ci collocheremmo al posto del Signore, fino a pretendere di calpestare la realtà creata da Lui senza conoscere limite».
La fede cristiana, mentre riconosce l’evoluzione della natura coerente con la creazione continua di Dio, si fa carico di annunciare quanto avvenuto nella storia: il ponte tra cielo e terra lo ha gettato Dio stesso, venendo ad abitare in mezzo a noi. Per amore di tutti Gesù Cristo ha compiuto il suo salto nell’abisso della terra — fin nel più oscuro antro di essa, la morte — e, grazie al suo Spirito effuso nella Pasqua, ognuno può ancora parlare la propria lingua, può ancora abitare lo spazio e il tempo della libertà.
Dio, senza ridurre la propria trascendenza alla sua incarnazione, continua a offrirsi come il principio e la fine di quel libero “muoversi verso” che egli ha impresso alla creazione. In tale movimento è possibile che chi ama la terra raggiunga il cielo, e chi cerca l’uomo incontri Dio.
Il diritto a esistere stabilmente in questo mondo e a elevarsi da esso non è di per sé contro Dio né contro l’umanità, ma può diventarlo. Ciò avviene quando si vuole ridurre l’unità del genere umano a uniformità, e cercando il cielo si tradisce la terra. Questo è il senso essenziale del racconto biblico della torre di Babele (cfr. Genesi, 11, 1-9), che ci orienta a una non indifferente attualità. Volendo quindi leggere la tensione tra umanità e natura alla luce della fede, non si può rinunciare all’indicazione di Babele come immagine della pluralità donata da Dio e non come frutto disgregato dell’umana superbia.
La via che l’umanità vuole percorrere verso il cielo, ovvero alla ricerca del superamento dei propri limiti, passa attraverso la terra, le sue impegnative contraddizioni, le difficoltà a dominarla, a trasformarla, a farla fruttificare. Cercare Dio nella consapevolezza di non poterlo raggiungere corrisponde, in un certo senso, a stare sulla terra con l’impegno a trarne frutto senza distruggerla.
Vi è come un singolare parallelismo tra rapporto con la terra e rapporto con il cielo — la natura e il suo oltre, potremmo dire — che rende l’umanità consapevole e responsabile delle proprie aspirazioni e dei relativi limiti. Come se, da una parte, pur portando nel cuore l’anelito alla trascendenza, fossimo costretti a riconoscerne l’irraggiungibilità, ma anche quindi a doverla riconoscere al di là di noi. D’altra parte, la più immediata possibilità di trasformare la natura si scontra con le sue incontrollabili reazioni, che la dichiarano anch’essa in qualche modo sfuggente.
L’umanità, dunque, si trova racchiusa tra cielo e terra, tra l’impenetrabilità di Dio e l’indomabilità della terra, e ciò che sembra condanna alla prigione, in realtà, è lo spazio della libertà. Siamo liberi di progettare, d’ingegnarci, di costruire, ma tutto questo esige responsabilità, per non diventare sforzo inutile, se non fallimento. «Non possiamo — si legge nella Laudato si’ (75) — sostenere una spiritualità che dimentichi Dio onnipotente e creatore. In questo modo, finiremmo per adorare altre potenze del mondo, o ci collocheremmo al posto del Signore, fino a pretendere di calpestare la realtà creata da Lui senza conoscere limite».
La fede cristiana, mentre riconosce l’evoluzione della natura coerente con la creazione continua di Dio, si fa carico di annunciare quanto avvenuto nella storia: il ponte tra cielo e terra lo ha gettato Dio stesso, venendo ad abitare in mezzo a noi. Per amore di tutti Gesù Cristo ha compiuto il suo salto nell’abisso della terra — fin nel più oscuro antro di essa, la morte — e, grazie al suo Spirito effuso nella Pasqua, ognuno può ancora parlare la propria lingua, può ancora abitare lo spazio e il tempo della libertà.
Dio, senza ridurre la propria trascendenza alla sua incarnazione, continua a offrirsi come il principio e la fine di quel libero “muoversi verso” che egli ha impresso alla creazione. In tale movimento è possibile che chi ama la terra raggiunga il cielo, e chi cerca l’uomo incontri Dio.
di Maurizio Gronchi
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