Si tratta in questo faccia a faccia, che sembra in effetti sproporzionato, in quanto tra un uomo (o un libro) e un Paese, non di una lite, ma di un incontro. Non di una muraglia da difendere, ma di una nuova frontiera da abitare. Non sono un sinologo e il mio recente soggiorno di tre mesi a Shanghai, come professore invitato dalle facoltà di filosofia di Fudan e Jiao Tong non mi conferisce alcun titolo per cui io possa ragionevolmente parlare dell’argomento Cina. Sono un sacerdote cattolico, insegnante di filosofia e di teologia, che ha imparato al collegio dei Bernardini a Parigi a trasmettere la fede ai giovani di oggi ascoltando la voce dello Spirito Santo nell’esperienza dei ricercatori e nel sapere dei professionisti di qualsiasi provenienza. L’esperienza di vita e di insegnamento che ho fatto, per la seconda volta quest’anno, presso giovani studenti e insegnanti cinesi, a Shanghai, mi ha aperto gli occhi su alcune realtà che mi sembrano troppo trascurate, se non ignorate dal pubblico anche colto dei nostri Paesi europ ei. Sebbene il territorio cinese, le radici di questa civiltà e la storia recente della Cina siano profondamente diversi dai nostri, come sanno e rivendicano gli studenti che ho incontrato, i ragazzi hanno scelto di accompagnare l’entrata della Cina nel mondo contemporaneo internazionalizzandosi. Quando, dunque, un professore coreano sessantenne raccomanda loro di approfondire le risorse tradizionali del pensiero cinese, questi stessi giovani si appassionano. E quando chiede loro di non occidentalizzarsi, non osano rispondere che questo non è in discussione. Come mi ha detto un professore di storia di una quarantina d’anni: la Cina ha gestito in modo molto diverso in passato le relazioni con l’Occidente, chiudendosi a volte alla sua influenza, a volte sottomettendosi alla sua dominazione militare e industriale. Oggi si tratta di fare esperienza di un vero incontro. Certamente, il mondo internazionale è stato modellato, sul piano culturale, politico ed economico, da coloro che lo abitavano prima di noi. La storia recente dimostra che abbiamo bisogno di aprirci al mondo. Intendiamo entrarci e dare il nostro apporto. L’élite studentesca di Shanghai appartiene già a molti mondi diversi, trasferendosi oggi un anno o due all’estero per il tempo del master o oltre, per un dottorato, tracciando così in anticipo il cammino che prenderanno più o meno velocemente le università delle altre megalopoli cinesi. Come ho potuto fare lezione a studenti dai quali tutto sembra separarmi, il passato, come il presente e il futuro? I nostri rispettivi Paesi sembrano così stanchi di impegnarsi, così impauriti di andare incontro all’ignoto e abitare il futuro. In realtà dall’anno scorso ho scoperto che la ricerca compiuta a Parigi sulle frontiere della Chiesa e della società contemporanea mi aveva insegnato a scoprire questioni e sentieri di riflessione che non sono propri di una cultura, ma di tutte le culture quando sono messe alla prova dai mutamenti tecnologici e dalla globalizzazione del mondo di oggi. Più che di una cultura internazionalizzata, ciò di cui è testimone e agente questa giovane élite è un’internazionalizzazione delle questioni, questioni che si pongono a una profondità umana quasi transculturale, a causa dell’imp ortanza dei cambiamenti già in corso. La globalizzazione del mondo è prima di tutto una globalizzazione delle questioni antropologiche. Non serve a nulla lamentarsi delle difficoltà presenti, ma bisogna prendere misura del loro carattere globale e trarne profitto per creare utili reti di incontri e di ricerca. Mi sembra vitale che la Chiesa ne prenda coscienza, come è vitale per i responsabili del mondo secolare. Soggiornare in Cina vale il viaggio, perché lì si comprende, osservando i cinesi, che ciò che è immobile si sgretola e ciò che è mobile permane. I tanti cambiamenti profondi nella condizione umana non devono immobilizzarci come fossero un’inestricabile matassa di problemi. I nostri dati previsionali non servono a nulla se la paura ci paralizza. Devono piuttosto aiutarci a riflettere, alla luce delle nostre convinzioni più profonde, la fede, la speranza e la carità, e incoraggiarci all’azione. Non è, del resto, ciò che fa Papa Francesco in merito alla crisi ecologica, e in tutti gli atti e le parole del suo ministero? Quali questioni, per esempio, si pongono gli studenti che ho conosciuto? Ho già citato quelle che nascono dalla globalizzazione: sono meno cinese perché ascolto le soap opera coreane e scrivo la tesi in Inghilterra? No, perché il mio Paese è già attivo nel mondo e voglio che lo sia ancora di più. Emerge già in loro il concetto di individualismo moderno e di contratto sociale: sono cinese, con tutto me stesso, o me stessa, liberamente, e dispongo dei miei impegni culturali, grazie ai quali faccio crescere ciò che significa la mia appartenenza. Un’altra questione frequente, insistente, è quella della tensione tra i valori della famiglia, assimilati alla tradizione, e quelli dell’università, dell’adulto che sono divenuto. Nel corso di un seminario etico, ciò può dare adito a fertili scambi di questo tenore: «Perché dovrei seguire l’etica che ha segnato la mia infanzia: amare i figli e onorare gli anziani?»; «Devo scegliere tra i valori del sapere e della critica e quelli della trasmissione dell’autorità?»; «Qual è il principio dell’etica? La massimizzazione del profitto come vuole Bentham?». Sulle problematiche dell’erudizione, siamo in pieno dibattito postmoderno tra fede e sapere, da una parte e dall’altra della muraglia cinese. Gli studenti cinesi che ho conosciuto uniscono più facilmente, rispetto ai loro omologhi occidentali, il livello scientifico e quello esistenziale delle questioni. Senza concessioni per l’obiettività del lavoro di documentazione e di ricerca, come ho visto durante un convegno accademico organizzato dagli studenti sugli «eventi di Charlie Hebdo», il sapere è ancora per loro una posta personale in gioco, al di là delle necessità amministrative relative agli esami e agli obblighi dell’erudizione accademica. Forse anche in questo caso ci aiuteranno a ripensare il progetto dell’università? La Cina insegna ai suoi studenti la cultura del mondo in cui è entrata. I numerosi ricercatori americani o europei, delle migliori università, fanno la fila per intervenire a convegni o offrire seminari in questo Paese. Quanti sono coloro che possono fare di più che insegnare lì le proprie conoscenze? Se gli universitari e gli studenti del mondo occidentale non si aprono allo studio approfondito dei tesori del pensiero cinese non beneficeranno dello scambio di doni che entra in gio co. La questione del comunismo è certamente sempre presente, se non altro per l’esistenza di centri di studio scientifico del marxismo. È stato quindi difficile spiegare ciò che intende fare il Social Business nelle economie di mercato in un Paese che vive sotto la legge del «poco importa che un gatto sia nero o bianco, basta che acchiappi i topi» (Deng Xiao Ping). Il Social Business è veramente una soluzione durevole e generalizzabile?. La questione del cristianesimo emerge anche in modo naturale, sia per ragioni storiche — di cultura letteraria, di etica — sia per questioni personali. Quando si è molto in confidenza, può arrivare la domanda, strappata alla storia dolorosa delle missioni del XIX secolo in Cina, come anche originata dalle domande della cultura postcristiana contemporanea: «È vero che voi cristiani volete convertire tutti gli uomini al cristianesimo?». Bisogna essere franchi nella risposta, perché non si scherza in Cina con un falso universale: «No, sarebbe imperialismo. Ma noi crediamo che Dio conosce il cammino di ciascuno e veglia su di lui». La Cina è sicuramente un Paese di contraddizioni, ma è soprattutto un Paese che si adatta. Nulla lo mostra meglio della circolazione dei pedoni, delle due ruote di tutti i tipi e delle automobili, spesso enormi a Shanghai, nelle strade e sui marciapiedi. Il rispetto della legge e del codice della strada non intralciano in nulla ciò che Aristotele chiamerebbe epikie: l’adattamento della legge generale al caso particolare è affidata al buon senso dell’uomo prudente. Semaforo rosso, semaforo verde, l’importante è non ferire né urtare nessuno in quella densa folla. Riflessione profonda: e se la nostra intelligenza della libertà cristiana e della legge morale avesse qualcosa di grande da guadagnare dal pensiero cinese, che evita il più possibile i dualismi devastanti, quando ostacolano indebitamente la circolazione del respiro e della vita? Inconsciamente avevo ancora in testa, venendo qui, le folle cinesi compatte, con le loro uniformi e le loro biciclette, apparentemente riproducibili all’infinito, come le si vedeva nei reportage degli anni Settanta e Ottanta. O le scodelle di riso di quaresima, che mangiavamo per solidarietà verso i bambini cinesi affamati da Mao. Queste immagini hanno dai 35 ai 45 anni Sono per i miei studenti ciò che erano per me, alla loro età, le immagini degli anni intorno al 1945: la storia del mio Paese e non il mio presente. Lo stato d’animo degli studenti cinesi che ho incontrato e con i quali ho a lungo lavorato è quello dei figli e delle figlie di un Paese che in trent’anni si è trasformato, che ha vissuto la tragedia memorabile della rivoluzione culturale, cinquant’anni fa, senza dimenticare la rivoluzione anti-confuciana, cent’anni fa. La Cina viene da lontano e porta il segno dei suoi traumi. Ritrova, o piuttosto “inventa” in maniera inedita il proprio essere profondo di Paese grande e molto antico. Da questi avvenimenti storici, di cui i giovani studenti che ho conosciuto hanno più o meno coscienza, nasce per loro non un destino, ma le condizioni di un futuro. La Cina è uno dei rari Paesi in cui uno sa perché è lì. Avevo provato la stessa sensazione a Gerusalemme. Comprendo meglio quanto bene può fare il cristianesimo quando partecipo qui alla messa o alle altre celebrazioni liturgiche cristiane: a Shanghai sono numerose. Le celebrazioni presbiteriane, per esempio, sebbene forse non le più coerenti, per un cattolico romano, dal punto di vista liturgico, non sembrano meno provvidenzialmente adattate a un annuncio riflettuto e dinamico della fede cristiana in Cina. Che strana assemblea pre-democratica che è l’assemblea religiosa dei cristiani, “popolo di Dio”! La presenza di alcuni studenti cristiani nei seminari universitari ai quali ho partecipato, in scienza delle religioni o in etica, mi ha mostrato ogni volta l’imp ortanza della comunione ecumenica che ci riunisce e la profondità della trasformazione umana da parte dello Spirito di Cristo. Come tale rinnovamento si incarna nei cuori! Perché vi si incarni, ne adotta lo spirito. L’antropologia cinese del respiro-spirito, che non isola il pensiero e l’amore dalla respirazione e dalla vita, non realizza a suo modo la verità a cui mira il cuore-spirito dei profeti della nuova Alleanza? Quale profitto potremmo trarne nella nostra lettura di san Paolo! La “carne” è “pietra” senza lo “spirito”, che è allora “orgoglio”, perché ciò che è più in alto tocca ciò che più in basso. La divisione o la confusione tra i due non è forse il peccato e il frutto del peccato? “Anima”, “corpo”, tali concetti insuperabili e inseparabili del cristianesimo, non designano forse ciascuno, sia nella Bibbia che alla luce del pensiero cinese, l’uomo intero, nella sua complessità, sotto i tratti dell’una e dell’altra delle dimensioni? Oggi, l’entrata inaudita della Cina nelle relazioni internazionali permette un incontro inedito con le sue risorse intellettuali e spirituali, approfondite e messe a disposizione di tutti nelle sue università. L’energia presente del suo popolo, la speranza fondata del suo futuro, invitano il cristianesimo, che condivide già una lunga storia con la Cina, con le sue pagine gloriose e le sue pagine oscure, a osare l’incontro, a sedersi al tavolo apparecchiato dalla saggezza ospitale, che cerca ovunque e in ogni generazione le anime dei giusti ai quali trasmettersi.
di Antoine Guggenheim
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