giovedì 20 ottobre 2016

"Dov'è Dio?" in un articolo di Enzo Bianchi

Di fronte ai totalitarismi e agli eventi tragici vissuti nel secolo scorso, ma anche a eventi disumani che si rinnovano nei nostri giorni, sembra sorgere quasi spontanea la domanda: «Dov’è Dio? Perché non interviene?». Forse anche nelle nostre vite conosciamo ore di prova in cui ci poniamo interrogativi analoghi. 
A volte queste domande appaiono anche nelle biografie di uomini e donne che accusano di attraversare una notte oscura, una notte in cui manca la luce, nella quale Dio pare assente e soprattutto taciturno, muto, come se avesse posto tra sé e il credente una spessa nuvola che impedisce ogni tipo di relazione, anche quella della parola. Dio tace, non si fa sentire, oscura il suo volto…, e il credente geme, soffre questa assenza di Dio, fino alla tentazione della disperazione, del cedere alla nientità che fa dire nel cuore: «Dio non esiste, non c’è nulla, nulla vale la pena».
Non voglio difendere Dio, voglio solo che non lo si accusi per difendere se stessi. Alla persona ordinaria, semplice, che a volte afferma di soffrire il silenzio di Dio, di non sentire Dio presente, che accusa Dio di restare lontano e muto, con molto rispetto per il suo dolore e senza nessun giudizio mi viene da chiedere: «Ma non sarà forse lei a essere sorda, a non ascoltare?». Non riesco a pensare che Dio sia capace di interrompere il suo amore, di voler essere muto o nascosto per far soffrire il credente che lo invoca e che è nella prova. Certo, nella «cantica del mare» l’espressione: «Chi è come te tra gli dèi, Signore?» (Mi kamokah ba-’elim jhwh: Esodo 15, 11) è stata anche letta da alcuni rabbini: «Chi è come te tra i muti, Signore?» (Mi kamokah ba-illelim jhwh); ma questo vuole solo significare che Dio, anche quando vede la sofferenza, la prova del suo popolo o del singolo credente, non fa nulla e tace non perché sia indifferente o irato, ma perché rispetta il mondo, la storia, rispetta la grandezza e la fragilità degli umani.
Mi piace concludere queste mie riflessioni citando un famoso testo anonimo: «Ho sognato che camminavo in riva al mare con il mio Signore e rivedevo sullo schermo del cielo tutti i giorni della mia vita passata. E per ogni giorno trascorso apparivano sulla sabbia quattro orme, le mie e quelle del Signore. Ma in alcuni tratti ho visto due sole orme, proprio nei giorni più difficili della mia vita. Allora ho detto: “Signore, io ho scelto di vivere con te e tu mi avevi promesso che saresti stato sempre con me. Perché mi hai lasciato solo proprio nei momenti più difficili?”. E lui mi ha risposto: “Figlio, tu lo sai che io ti amo e non ti ho mai abbandonato: i giorni nei quali vedi soltanto due orme sulla sabbia, sono proprio quelli in cui ti ho portato in braccio”». Sì, sempre il Signore apre per noi il cammino e proprio nelle ore più oscure è lui che ci prende in braccio!
di Enzo Bianchi

martedì 11 ottobre 2016

Jacob Neusner: deceduto il teologo dell'ebraismo


Sabato 8 ottobre 2016 è morto, all'età di 84 anni, il rabbino Jacob Neusner, uno degli storici e dei teologi americani più famoso al mondo per i suoi studi sull'ebraismo. E' stato autore di centinaia di libri.  Era stato citato da Benedetto XVI nel primo volume della sua trilogia su «Gesù di Nazaret», nella sezione dedicata al Discorso della Montagna. Neusner è stato autore del saggio «A Rabbi Talks with Jesus» (1993), edito in Italia da Piemme nel 1996 con il titolo «Disputa immaginaria tra un rabbino e Gesù».




mercoledì 14 settembre 2016

Le facoltà dei sensi

Le vie della mente si fanno via via più penetrabili. Infatti, la progressiva messa in luce dell’infinita complessità del cervello umano grazie alle neuroscienze ci fa capire quanto, nel nostro relazionarci con le varie componenti del mondo esterno, nulla sia lasciato al caso. In particolare, lo studio delle percezioni sensoriali — gradevoli o meno — è di particolare interesse per comprendere i meccanismi interattivi che collegano i cinque sensi.
A confermarlo è una ricerca recente, pubblicato nella rivista internazionale di scienze della vita «eLife». Condotto da due ricercatori italiani attivi negli Stati Uniti (Alfredo Fontanini e Roberto Vincis) lo studio esplora il processo neuronale nell’elaborazione dei gusti, dimostrando come la corteccia gustativa — area cerebrale della percezione dei sapori — rilasci stimoli prima ancora di gustare il cibo. E proprio l’interazione dei sensi si rivela fondamentale in questa predizione cerebrale, poiché tutti quanti sono coinvolti nell’attivazione dei neuroni di quest’area.
Spiega Fontanini: «Immaginate di essere al bar sotto casa, in attesa che la colazione sia pronta. Come ogni mattina, appena cessato il rumore del vapore, sentite il barista chiamarvi e dirvi che il cappuccino è pronto. Mentre lo posa sul banco davanti ai vostri occhi, vedete la densa schiuma coperta da un velo di cacao e annusate l’aroma. Potete già pregustarlo». Proprio queste percezioni sensoriali prefigurano il sapore effettivo, preparando così il nostro cervello ad accogliere e risentire il sapore da lui aspettato.
Certo non sorprende il fatto che lo studio disegni l’olfatto il senso più performante nell’attivare neuroni della corteccia gustativa, tra i diversi stimoli non-gustativi. Già Marcel Proust, anticipando l’avvento delle neuroscienze, aveva intuito l’interdipendenza del gusto e dell’olfatto e l’impatto del loro potere congiunto nello stimolare la memoria smarrita, essendo la loro combinazione capace di suscitare l’“epifania”, quella misteriosa rivelazione scaturita improvvisamente da un oggetto comune.
Di fronte alla morte e alla finitudine di ogni cosa, scrive Proust in Dalla parte di Swann, l’odore e il sapore «restano ancora a lungo come anime, a ricordare, ad attendere, a sperare, sulla rovina di tutto il resto, a reggere, senza piegarsi, sulla loro gocciolina quasi impalpabile, l’immenso edificio del ricordo». In questi ultimi anni l’intuizione dello scrittore ha avuto conferma scientifica e prese grande rilievo con la scoperta del nesso che collega il sistema olfattivo con l’ippocampo — associato alla memoria — e con l’amigdala, che fanno parte del sistema limbico, zona del cervello che gestisce le emozioni.
La celeberrima vicenda della piccola madeleine di Proust rimane quella più eloquente al riguardo: la sola vista di quello che chiamava «piccola conchiglia di pasticceria» non bastava a svegliare gli avvenimenti più profondamente radicati nella mente del giovanotto in cerca di una felice percezione risalente all’infanzia, quando era a casa di sua zia, nel villaggio di Combray. Solo dopo aver annusato e gustato quel pezzetto di madeleine infuso nel tè ebbe la rivelazione desiderata. Quando, miracolosamente, «tutti i fiori del parco di M. Swann, le ninfee della Vivonne e la brava gente del paese, le loro piccole case, la chiesa e tutta Combray e suoi dintorni, tutto questo che va prendendo forma e consistenza, è uscito, città e giardini» da quella tazza di tè. 
di Solène Tadié

giovedì 28 luglio 2016

Il giusto Abele: riflessione sul male

Dinanzi ai fatti terrificanti accaduti in questi ultimi mesi riportiamo un articolo uscito su «La Croix» del 23-24 luglio.


Bossuet scrive che la morte di Abele per mano di suo fratello Caino costituisce la “prima azione tragica” dell’umanità. Prima morte, primo omicidio, prima tragedia. Come è potuta l’umanità degli esordi giungere così rapidamente a un simile disastro? si chiedeva già il Midrash. Il racconto biblico dell’assassinio è particolarmente ellittico: «Caino alzò la mano contro il fratello Abele e lo uccise» (Genesi, 4, 8). Non si sa né esattamente perché né come. Alla concisione misteriosa delle parole risponderanno le immagini degli artisti. Fin dall’antichità l’uccisione di Abele è stata abbondantemente rappresentata. «Dal sangue del giusto Abele fino al sangue di Zaccaria» (Matteo, 23, 35), bisogna mostrare il sangue perché il sangue parli.
Quello di Abele, il primo a essere versato, proprio come il sangue di Gesù, «dalla voce più eloquente di quello di Abele» (Ebrei, 12, 24). Il sangue versato ha il peso di una parola che non si vuole mai sentire. Versare il sangue di un uomo è uccidere un fratello. «Solo mi ucciderà la mano del mio pari» ricorda il poeta (Osip Mandel’stam). Il primo peccato è l’assassinio. È in effetti proprio parlando di Caino che appare nella Bibbia per la prima volta la parola ebraica hat-tât che sarà tradotta con peccato. Rappresentare il sangue versato è essere fedeli al testo biblico nel quale Dio ricorda all’assassino che «la voce del sangue di tuo fratello grida a me dal suolo» (Genesi, 4, 10).
Il Midrash spiega così che, non essendo ancora stato sotterrato nessuno, la terra si scandalizza del sangue che si spande su di essa. Ma che cosa dice il sangue visibile per la prima volta? Testimonia il silenzio di Abele, la vittima. Lui non ha parlato, sia che non abbia fatto altro che ascoltare suo fratello, sia che la sua parola sia stata ignorata o che lui abbia ignorato l’altro. I rabbini hanno voluto dare un contenuto a questo dialogo fallito o impossibile: la discussione avrebbe riguardato la condivisione del mondo, tra l’agricoltore sedentario e il pastore nomade; o una donna; o ancora questo mondo e il mondo dell’aldilà.
Nessuna spiegazione basta. L’assassinio interviene in questo racconto come una dimostrazione al contrario di qualcosa che non era stato possibile dire prima, come un modo per evitare una parola che non si voleva sentire. Quella dell’appello alla responsabilità di sé: diventa padrone di te stesso e delle tue pulsioni. O il sangue di Abele ricadrà su di noi.
di Fréderic Boyer

martedì 12 luglio 2016

I Cinquecento anni del ghetto di Venezia

Si celebra con mostre, convegni e pubblicazioni il cinquecentesimo anniversario della nascita del ghetto di Venezia, creato il 29 marzo 1516. È allora che il Senato veneziano, dopo lunghe discussioni, accettò la presenza ebraica in città, purché relegata in un luogo chiuso dal tramonto all’alba, dove gli ebrei non avrebbero potuto vivere insieme ai cristiani. 
Ghetto Nuovo, Venezia  (Foto: ©Awakening/Xianpix)
L’esempio di Venezia sarebbe stato seguito ovunque in Italia a partire dalla metà del Cinquecento, tanto che alla fine, con poche eccezioni, tutte le città italiane dove erano presenti degli ebrei li avrebbero chiusi in un ghetto. Lo scrive Anna Foa aggiungendo che la storia del ghetto di Venezia è in realtà, al di là dell’aspetto evidente della chiusura e della separazione dei mondi che comportava, una storia vivace e vitale, che si intreccia strettamente non solo con la storia di Venezia ma anche con quella del Mediterraneo. E il ghetto veneziano, a differenza dei ghetti che nasceranno più tardi in Italia, a partire da quello di Roma, su iniziativa essenzialmente della Chiesa, è un luogo dove confluiscono e si intrecciano culture diverse (gli ebrei italiani, quelli tedeschi, i sefarditi, i portoghesi), un ghetto insomma che potremmo definire cosmopolita.
A questo ghetto dedica ora un libro (Venezia e il ghetto. Cinquecento anni del “recinto degli ebrei”, Bollati Boringhieri, Torino, 2016, pagine 187, euro 15), che copre tutto il periodo della sua durata, dal 1516 fino al 1797 e si estende anche all’oggi, una studiosa di valore, Donatella Calabi, architetto e urbanista. Il suo sguardo è attento alla struttura abitativa del ghetto, ai rapporti del ghetto, o meglio dei ghetti (perché a Venezia erano tre, edificati in periodi successivi) con la città sia dal punto di vista urbanistico che da quello dei contatti tra i due mondi, dei mestieri esercitati dagli ebrei, della vita religiosa e comunitaria.
Il ghetto di Venezia nasce nel 1516 non, come poi a Roma e in molti altri luoghi, dalla chiusura entro mura e portoni di una comunità preesistente, ma dalla scelta attuata dalla Repubblica di accogliere infine gli ebrei in città, dopo molte esitazioni e brevi periodi di tolleranza. Il luogo prescelto è periferico rispetto alla città, l’isola di Cannaregio, lontana dal cuore commerciale di Rialto, dove negli ultimi anni gli ebrei erano stati ammessi in via eccezionale a causa della guerra di Chioggia che devastava l’entroterra veneto. Erano, questi primi ebrei del ghetto, ebrei tedeschi, prestatori, che avevano a lungo esercitato il prestito a Mestre a parte brevi periodi in cui erano stati ammessi in città. Il primo ghetto è il ghetto Nuovo, dove le botteghe dei prestatori si aprivano sul vasto campo tuttora esistente.
E dall’isola, dove c’erano state in origine fonderie di rame, il ghetto trae il suo nome, geto, letto dai tedeschi con la g dura come ghetto. Ghetto è quindi un toponimo, destinato a una lunga vita e a progressive estensioni semantiche. Per il momento è usato a Venezia, e a fatica si affermerà poi come il termine più diffuso per designare i quartieri chiusi degli ebrei che nasceranno in Italia tra la metà del Cinquecento e il XVII secolo.
di Anna Foa

lunedì 4 luglio 2016

La morte di Elie Wiesel

Incarnava agli occhi del mondo il dovere di ricordare. Lo scrittore e testimone della Shoah Elie Wiesel è morto il 2 luglio a New York, all’età di 87 anni. Nato nel 1928 a Sighet, in Romania, in una famiglia ebraica ortodossa, fu deportato nel 1944 ad Auschwitz-Birkenau, e poi a Buchenwald, dove perderà i genitori e una delle tre sorelle. Dopo la terribile esperienza nei campi della morte, dedicherà la propria vita al ricordo delle vittime: «Se sono sopravvissuto, dev’esserci stata una ragione. Devo fare qualcosa della mia vita» dichiarò in un’intervista al «New York Times» nel 1981. L’essere sopravvissuto, infatti, è «una cosa troppo seria» e di conseguenza l’esistenza non può essere presa alla leggera. Affermazione, questa, che ripeteva spesso alla luce dell’inquietante consapevolezza che «qualcuno avrebbe potuto essere salvato» al posto suo.

Aveva sempre sostenuto l’idea che non si poteva vivere senza il passato. «Se dimentichiamo il passato, la nostra umanità ne viene mutilata» affermava in un’intervista a «Le Figaro» nel 1998, anno in cui organizzò un convegno internazionale sul tema «Memoria e storia», tramite l’Accademia universale delle culture che presiedette dal 1993, nell’intento di lottare contro la xenofobia, l’antisemitismo e ogni forma di discriminazione. A tale riguardo, Papa Francesco, ricevendo il premio Carlo Magno nel maggio scorso, ha richiamato il tema prediletto di Wiesel usando l’espressione «trasfusione della memoria», che gli era tanto cara. La trasfusione della memoria, ricordava il Pontefice, «ci libera da quella tendenza attuale spesso più attraente di fabbricare in fretta sulle sabbie mobili dei risultati immediati che potrebbero produrre una rendita politica facile, rapida ed effimera, ma che non costruiscono la pienezza umana».
Il comitato norvegese che gli conferì il premio Nobel per la pace nel 1986 definì Wiesel un «messaggero dell’umanità» e «una delle guide spirituali più grandi in un mondo di violenza, di repressione e di razzismo». Fu autore di più di cinquanta opere — tradotte in numerosissime lingue — tra cui La notte (1958), racconto autobiografico, primo volume di una trilogia sull’inferno concentrazionario comprendente anche L’alba e Il giorno — considerato uno dei pilastri della letteratura della Shoah. In uno dei passi più noti del volume si legge: «Mai dimenticherò quella notte, la prima notte nel campo, che ha fatto della mia vita una lunga notte e per sette volte sprangata. Mai dimenticherò quel fumo». E più avanti: «Mai dimenticherò tutto ciò, anche se fossi condannato a vivere quanto Dio stesso. Mai».
Insignito di numerose onorificenze internazionali, nel 2006 il premier Ehud Olmert gli aveva offerto l’incarico di presidente dello Stato d’Israele: offerta che declinò perché si considerava «solo uno scrittore».
In eredità ha lasciato soprattutto l’appello alla responsabilità collettiva di fronte all’orrore e l’invito a unire la capacità di ogni persona a fare il bene. 
di Solène Tadié

domenica 3 luglio 2016

I doni provenienti dall'Assoluto

«Ogni dono buono e ogni dono perfetto è dall’alto, e discende dal Padre delle luci, nel quale non c’è alterazione o ombra di cambiamento» (Giacomo 1, 17). Egli, di sua volontà, ci ha generati tramite parola di verità affinché noi potessimo essere una primizia delle sue creature. Per questo, miei cari fratelli, ogni uomo sia svelto a udire, lento a parlare, lento all’ira; dato che l’ira di un uomo non ha niente a che fare con ciò che è giusto davanti a Dio. Perciò deponete ogni lordura e ogni rimasuglio di cattiveria, ed accogliete con docilità la parola che è stata impiantata in voi e che ha la potenza di rendere beate le vostre anime.
Queste parole sono così comprensibili, così innocenti; ed allora bisogna chiedersi quanti furono quelli che le hanno veramente comprese, che compresero che esse erano monete da esposizione, da ammirare più di tutti i tesori del mondo, ma anche il contante da usare nei rapporti quotidiani della vita. Per cui ti preghiamo — o Dio! — di creare a coloro che finora non hanno prestato attenzione ad esse orecchi propensi ad accoglierle; di guarire con la comprensione della parola i cuori inclini al fraintendimento quando si tratta di comprendere la parola; di piegare sotto l’obbedienza alla parola di salvezza il pensiero che si sta smarrendo; di dare all’anima angosciata la franchezza per osare di comprendere la parola; di far sì che coloro che l’hanno compresa siano beati e sempre più beati con il comprenderla sempre di nuovo. Amen.
di Søren Kierkegaard

venerdì 1 luglio 2016

Qumran: denaro per scontare i peccati

Tornano alla ribalta i manoscritti di Qumran. E si confermano una fonte di primaria importanza per la conoscenza del giudaismo e del cristianesimo antichi. L’ennesima conferma, molto più appassionante di tante fantasie, arriva ora da nuove letture di molti frammenti, mutili o danneggiati, sinora illeggibili, letture che sono state rese possibile da una sofisticata tecnologia.
Nell’arco di quattro anni e mezzo — scrive sul quotidiano israeliano «Haaretz» il giornalista Nir Hasson — un laboratorio istituito dalla Israel Antiquities Authority come parte del progetto della Leon Levy Dead Sea Scrolls Digital Library ha proceduto alla scansione di un gran numero di manoscritti: ogni frammento — in tutto, com’è noto, sono molte migliaia — è stato fotografato ventotto volte con tecniche ad alta risoluzione, usando luci con differenti lunghezze d’onda.
In alcuni casi la macchina fotografica ha rivelato lettere che il tempo aveva cancellato e che erano illeggibili perché la parte del frammento era bruciata. L’uso di questa sofisticata tecnologia ha destato un vivo interesse, anzitutto fra gli studiosi, perché ha offerto la possibilità di allargare l’interpretazione di testi biblici, soprattutto della Genesi.
Così, la copertura dell’arca di Noè viene descritta a forma di piramide, il ptil che Giuda dà a Tamar è identificata con la sua cintura, mentre la comunità di Qumran, dove vennero trovati i rotoli del Mar Morto, pensava che con il versamento di somme di denaro si sarebbero potuto ottenere il perdono per i propri peccati.
Durante una conferenza stampa, membri del dipartimento che lavoro a un dizionario storico per conto della Academy of the Hebrew Language, hanno presentato i primi risultati di questo ambizioso progetto. I ricercatori Alexey Yuditsky e Esther Haber hanno inoltre decodificato un frammento che parla del Giorno del giudizio, dove si descrive la figura misteriosa di Melchisedek, oggetto di speculazioni esegetiche e teologiche nel giudaismo e nel cristianesimo antichi, che reca in salvo “prigionieri” in mano al malvagio Belial.
Un altro ricercatore, Chanan Ariel, ha suggerito appunto che i peccati erano perdonati in virtù dell’anno sabbatico, come venivano condonati i debiti in denaro. Da qui la credenza che un peccato potesse essere trasformato in un debito in denaro: visione non diffusa nel giudaismo, ma che si ritrova secoli più tardi nella Chiesa medievale.
Riguardo all’episodio di Giuda che giace con la nuora Tamar travestita da prostituta, per secoli — ricorda il quotidiano israeliano — traduttori ed esegeti hanno dibattuto su che cosa significasse ptil, la parola usata per indicare ciò che Giuda aveva dato alla nuora: era stato suggerito “mantello”, “velo”, “corona di perle”. Le ricerche condotte sulla base delle nuove tecnologie hanno portato ad affermare che ptil significa semplicemente «la cintura con cui Giuda stringeva i pantaloni o la lunga tunica» ha affermato Moshe Bar-Asher, presidente dell’Academy of the Hebrew Language. Tutte le nuove parole, con le annesse interpretazioni, sono consultabili sul sito (Maagarim) dell’accademia. 

di Gabriele Nicolò

giovedì 9 giugno 2016

Le opportunità offerte dal fenomeno migratorio

La questione dei migranti sta assumendo nel mondo una dimensione di vero dramma collettivo. Non si tratta più solo di persone in cerca di lavoro ma di decine di migliaia uomini e donne che fuggono dalle tragedie delle guerre, di profughi, di richiedenti asilo per ragioni sociali e politiche.

Il fenomeno non è solo europeo o mediterraneo, ma investe tutti continenti del pianeta. Dall’America centrale e meridionale si cerca in ogni modo di valicare muri e barriere di filo spinato creati per sbarrare la strada ai latinos che vogliono entrare nell’America del nord. Dall’Africa subsahariana un’intera generazione di ragazzi e ragazze guarda attraverso i media le immagini del mondo occidentale e vuole in ogni modo, anche solo per fare il lavapiatti o il lavavetri, partecipare a quello che appare il “banchetto” di una società comunque più ricca e organizzata. Tale è il desiderio che si rischia la vita per questo.
Dall’oriente poi (specie dall’Iraq e dalla Siria, ma anche dall’Afghanistan) sono in fuga milioni di persone per scampare dagli orrori di un fanatismo che strumentalizza la religione islamica. Chi si muove via terra si scontra con Paesi balcanici, come l’ex Repubblica Jugoslava di Macedonia o la Serbia, che soffrono per trovarsi ancora al di fuori dell’Unione europea. Oppure sbatte anche contro le barriere erette da altri Paesi membri come l’Ungheria, la Croazia o l’Austria. Dare giudizi sommari su queste vicende, senza lo sforzo di comprenderne le ragioni, spesso espone al rischio di non capire bene i fenomeni e, soprattutto, di non saper quindi individuare le possibili soluzioni. Anche il recente vertice g7 dei Paesi più potenti del mondo ha dovuto porre in agenda la questione delle migrazioni, senza tuttavia delineare ancora una valida strategia di azione. La portata di questo immenso movimento di persone e di genti trova un paragone solo con quello che è successo nel mondo negli anni del secondo conflitto mondiale. Per la sola Europa si parla oggi di 2 milioni di persone da accogliere in questi anni. Ma il fenomeno della mobilità non sembra destinato a fermarsi. Piuttosto si può ritenere che su questi grandi flussi in movimento si caratterizzerà la prospettiva del mondo.
Enormi problemi sociali, culturali e politici ancora impediscono una lucida comprensione di quello che accade e quindi anche di definire strategie all’altezza delle nuove sfide. Sul piano sociale il fenomeno migratorio impatta oggi con le conseguenze della crisi finanziaria ed economica che, nell’Occidente, ristagna dal 2007. Manca il lavoro in molti Paesi, i diritti sociali si restringono, è a rischio l’inclusione dei più deboli e la stessa coesione sociale. Accogliere stabilmente masse di profughi in questa situazione sembra ai più un compito arduo, al di là di tante buone volontà e generosità.
Sul piano culturale poi le distanze sono spesso percepite come incolmabili: diverse etnie, lingue e credo religiosi, stili di vita, usi familiari. Molti europei e occidentali manifestano disagio nell’accettare uomini e donne che provengono da mondi sconosciuti e che desiderano potersi trattenere nei nostri Paesi. Magari vi è anche disponibilità a un po’ di assistenza, ma non di più, perché l’idea di un vicinato permanente, di una prossimità esistenziale, di una integrazione quindi, suscita apprensione se non indisponibilità.
Per tutte queste e per altre ragioni gli aspetti politici del problema sono ancora più complessi. Negli ultimi vent’anni la debole crescita europea e occidentale, dopo il lunghissimo ciclo di benessere di massa successivo al secondo conflitto mondiale, ha smesso di ridurre le disuguaglianze sociali. Anzi le ha allargate e ne ha poi prodotte di nuove. La progressiva apertura globale dei mercati internazionali ha accresciuto le difficoltà espansive di molte economie, ha aumentato la competizione, mettendo fuori gioco molti settori tradizionali dell’industria manifatturiera occidentale a vantaggio di quella di Paesi emergenti con un più basso costo del lavoro e norme di controllo meno stringenti.
I sistemi politici in Europa, e in occidente in genere, sono divenuti così più instabili, minati da crescenti correnti nazionaliste, da movimenti xenofobi. I governi si sono progressivamente ridotti a dover cercare solo consensi nel breve termine, non potendo mai prendere decisioni strategiche per il lungo periodo, perché spesso queste avrebbero comportato sacrifici immediati poi ricompensati da vantaggi solo nel futuro lontano. Leadership progressivamente deboli, o anche apparentemente forti e decisioniste, si succedono nei diversi Paesi e anche nei sistemi istituzionali sovranazionali.
L’odierna questione delle migrazioni, ove non adeguatamente compresa e affrontata, potrebbe così divenire una forma nuova di conflitto mondiale, nel quale non si mietono migliaia vittime con le armi convenzionali, ma con le armi più sofisticate dell’indifferenza, del sospetto, dell’ignoranza, delle barriere immaginarie e di quelle realmente edificate per proteggere (rinchiudere) le comunità più sviluppate.
Se la crescita dell’Europa e del mondo occidentale segna una fase di perdurante difficoltà bisogna comprendere come una nuova stagione di sviluppo passi solo nella capacità di affrontare positivamente queste nuove straordinarie sfide poste dalle migrazioni, da nuove fasi di co-sviluppo tra Paesi forti e Paesi più deboli, di nuove e più intense integrazioni. Il nuovo progresso economico delle aree più forti potrà dunque avvenire solo con lo sviluppo e l’integrazione sociale delle aree più arretrate. Occorrono piani e programmi all’altezza di queste sfide, visioni culturali e politiche acute e lungimiranti. Occorre rovesciare la stessa prospettiva che ha sostenuto la crescita degli ultimi due secoli. L’impulso capitalista e imprenditoriale è ancora decisivo, ma è di per se stesso insufficiente. Bisogna costruire un contesto di più densa e consapevole socialità, di maggiore giustizia sociale. La persona e le sue libere formazioni essenziali — a partire dalle famiglie e dalle comunità locali — dovrebbero essere al centro della prospettiva economica. Le persone attraverso un lavoro onesto e dignitoso dovrebbero poter così evolvere, emanciparsi, integrarsi, riducendo ogni risposta meramente assistenzialistica della questione. L’impiego delle risorse dovrebbe improntarsi a una visione di sostenibilità nel lungo termine: non possiamo consumarle tutte, ma dobbiamo pensare alle generazioni future e individuare nuove sorgenti di risorse senza distruggere il pianeta. Una ecologia integrale che abbia, dunque, al centro l’uomo e le sue relazioni umane con gli altri uomini, i suoi bisogni individuali e, ancor di più, i suoi bisogni sociali.
di Michele Dau

mercoledì 8 giugno 2016

Galileo Galilei e la riflessione epistemologica

Se è noto ormai l’impegno profuso da Giovanni Paolo II durante il suo pontificato alla riapertura del ‘caso Galilei’ e alla sostanziale riabilitazione dello scienziato pisano, meno noto è il percorso che lo ha condotto a questa scelta ritenuta strategica non solo per la Chiesa ma per il mondo intero, percorso caratterizzato in un primo momento dal ruolo trainante affidato all’Accademia Pontificia delle Scienze con l’obiettivo di far dialogare fra di loro scienziati di ogni nazionalità credenti o meno e dopo dall’interesse sempre crescente verso la riflessione epistemologica. È da tenere presente che tale interesse si sviluppa e arriva a determinate prese di posizione da un lato man mano che le ricerche sulle complesse vicende del ‘caso Galilei’ si intensificavano in quanto gli hanno permesso di prendere atto del ruolo non secondario avuto dai dibattiti dell’epoca sulla natura della nuova scienza e sulle sue ‘verità’; e dall’altra la stessa attiva partecipazione alle plenarie dell’Accademia con gli incontri con scienziati di ogni tendenza gli ha consentito di verificare direttamente che la maggior parte dei dibattiti avvenivano proprio su questioni relative alla ‘verità’ delle diverse teorie scientifiche all’interno delle varie discipline. Basta, infatti, scorrere i suoi interventi a partire dai primi mesi del 1979 sino agli ultimi anni che culmineranno nella ‘Fides e ratio’ del 1998, per verificare il suo crescente interesse verso l’epistemologia sempre più ritenuta una disciplina necessaria e strategica fino a fare entrare nella stessa Accademia alcune figure di filosofi e di storici della scienza; questi interventi[1] se all’inizio erano d’occasione e di benvenuto ai partecipanti man mano arrivano a proporre dei punti di vista elaborati in funzione di un determinato obiettivo, quello di trovare una soluzione che aiuti a superare i secolari conflitti fra le verità della scienza e le verità della fede o quanto meno a fornire nuovi strumenti di dialogo critico e costruttivo fra il mondo della scienza e il mondo della Chiesa e dei credenti in genere.
A tale riguardo il pontefice polacco ritiene il ‘caso Galilei’ istruttivo per tutta una serie di fattori, da cui ritiene di dover partire per non incorrere negli stessi errori e per evitare quei dolorosi fraintendimenti che hanno costellato i non lineari rapporti della Chiesa col pensiero filosofico-scientifico moderno; come dice in una lettera del 1992 inviata all’allora Rettore dell’Università di Padova in occasione di un convegno su Galilei, «una delle conseguenze benefiche derivanti dalla ‘Questione Galileiana’ è stata quella di stimolare la riflessione epistemologica». In seguito, «il moltiplicarsi delle ricerche epistemologiche da parte degli uomini di scienza è, al riguardo, molto incoraggiante […] Quanto ai teologi, occorre riconoscere che, sotto la spinta delle scoperte scientifiche via via attuate, essi sono stati progressivamente condotti a una riflessione più approfondita circa l’ermeneutica biblica […] Nel secolo XVII gli avversari di Galilei, disorientati dalla teoria copernicana […] non seppero veder chiaro nella controversa materia»[2]. Ma ciò che mise ulteriormente in difficoltà gli ‘avversari’ di Galilei fu un fatto inedito nella storia del pensiero umano, cioè la comparsa sulla scena dei dibattiti della riflessione epistemologica da parte dello scienziato pisano come momento costitutivo e strutturale della stessa attività scientifica, come vera e propria filosofica militia nel senso propugnato da Federico Cesi quando fondò a Roma nei primi anni del ‘600 l’Accademia dei Lincei; quando si osserva il «gran theatro della natura« grazie alla «penetrazione dell’occhio della mente» come «l’oculatissima lince» è necessario «rimuovere tutti li ostacoli»[3], spazzare via pregiudizi e false verità anche se secolari e messe a base di vari saperi.
Galilei ha spiazzato i suoi ‘avversari’ già molto ‘disorientati’ con le sue penetranti analisi sul valore delle ipotesi, delle teorie e sul ruolo costitutivo della matematica; ma non si è limitato a fornirci nuovi strumenti di investigazione critica del ‘continente’ scienza col dare alla cesiana ‘filosofica militia’ una più organica valenza teoretica, ma ne ha esteso i risultati ad altri saperi ed in primis alla stessa teologia spiazzandola ed obbligandola a rivedere il proprio statuto. Questo è stato il primo ‘miracolo’ ottenuto dalla ‘filosofica militia’, dalla riflessione epistemologica; la riflessione critica, condotta da parte di Galilei, sulla struttura concettuale della nuova scienza e soprattutto sulle modalità con cui nuove ‘verità’ sono venute a galla, è stata coscientemente utilizzata per rivedere altre ‘verità’, quelle bibliche, liberandole definitivamente da quella che Giovanni Paolo II ha chiamato ‘la tirannia del letteralismo bibllico’, su cui si attardavano ancora i teologi del ‘600, grazie a quel «piccolo trattato di ermeneutica biblica»[4] costituito dalle Lettere copernicane. Per questo motivo il pontefice polacco ritiene la riflessione epistemologica sempre più necessaria per le varie discipline, proprio per le ulteriori conoscenze che esse continuano incessantemente a produrre sempre più bisognose di essere chiarite nei loro aspetti storico-concettuali; i benefici, poi, ottenuti dalla filosofia e dalla storia della scienza si ripercuotono sugli altri saperi costringendoli ad essere più critici, ad allargare i propri orizzonti conoscitivi e ad aprirsi a diverse prospettive, a ridefinire i rispettivi ambiti ed ad evitare riduzionismi sempre in agguato.
L’altro ‘miracolo’ della riflessione epistemologica è stato quello di ridare a Galilei il suo giusto ruolo, di ammettere gli errori compiuti nei suoi confronti e di riaprire il mondo della Chiesa al mondo della scienza[5]; tutti i suoi interventi all’Accademia Pontificia delle Scienze sono un invito costante a non sottovalutare la riflessione filosofica in generale e quella epistemologica in particolare, ritenute in grado di affrontare su nuove basi il dialogo fra verità della scienza e verità bibliche, e soprattutto di dare strumenti in grado di individuare i travisamenti ideologici che a volte subiscono le teorie scientifiche, soprattutto alcune interpretazioni della teoria dell’evoluzione. Uno degli insegnamenti di natura più generale che il pontefice polacco trae dalle contraddittorie vicende storiche dei rapporti fra scienza e fede è di finirla una volta per tutte con quelle che egli chiama nella lettera a Padre Coyne ‘insidie epistemologiche’, posizioni di cui sono vittime credenti ed non credenti: concordismo da parte dei credenti e contrapposizione netta da parte dei non credenti. Il concordismo, cioè quella posizione venuta prima a maturazione fra ‘700 e ‘800 da parte di alcuni scienziati e poi divenuta quasi ovvia per il credente, è quella di cercare delle conferme delle verità di fede in alcune teorie; la contrapposizione netta è quella opposta portata avanti da scienziati atei e da non credenti in genere che in nome di alcune teorie scientifiche ritengono infondate e se senza senso per l’uomo le verità dell’esperienza di fede. Per Giovanni Paolo II, la comprensione storico-critica del ‘Caso Galilei’ rende arretrate e ingenue, per non dire infantili queste due posizioni contrapposte, sino a diventare vere e proprie ‘insidie’ nel senso che portano entrambe al conflitto fra le verità della scienza e quelle della fede; per questo motivo egli si ritiene su questi argomenti un galileiano, certamente sui generis, nel senso che accetta l’autonomia di questi ambiti, ma nello stesso tempo essi vengono ritenuti interdipendenti perché soprattutto possono arricchirsi a vicenda senza sovrapporsi, come nel caso di Galilei. Questo ‘miracolo’, inoltre, porta dall’epistemologia all’ermeneutica e potremmo dire, sulla scia di Dario Antiseri, che «epistemologia ed ermeneutica ‘unum et idem sunt’»[6]. La lezione storico-epistemologica del ‘Caso Galilei’ ha innescato quindi queste riflessioni da parte di Giovanni Paolo II, che certamente non si vuole far passare per un epistemologo, ma solo far vedere come l’interesse costante per la filosofia della scienza abbia avuto un ruolo non secondario nelle scelte strategiche di un pontificato.
Mario Castellana

[1] Cfr. Giovanni Paolo II, Scienza e verità, a cura di M. Castellana, Lecce-Brescia, Pensa Multimedia, 2010; è da notare che molti incontri su sua espressa volontà sono stati volutamente dedicati a grandi scienziati del passato e del ‘900 come Galilei, Newton, Darwin, Mendel, Einstein, Grossman, ecc. Altri incontri vertevano su problemi dell’astrofisica, della biologia, delle neuroscienze, delle scienze della complessità, delle scienze applicate come anche delle scienze sociali ed economiche.
[2] Tale lettera di Giovanni Paolo II si trova nel ns. «Epistemologia ed ermeneutica. Le benefiche conseguenze del ‘Caso Galilei’ per Giovanni Paolo II», in Foedus, 39, 2014, pp. 58-69.
[3] F. Cesi, Il natural desiderio di sapere. The Natural Desir for Knowledge, a cura di C. Vinti, Vatican City, Pontificia Academia Scientiarum, 2003, p. 126.
[4] Cfr. Giovanni Paolo II, «Lettera al Rettore dell’Università di Padova» e «Lettera a Padre Coyne» (1998), in Scienza e verità, op. cit., pp. 107-118.
[5] Significativa a tale riguardo il fatto che nei primi anni del nuovo secolo l’introduzione contestuale nei seminari degli insegnamenti di ‘Epistemologia’ e di ‘Ermeneutica’, come è significativo il fatto che col successivo pontificato tali insegnamenti sono scomparsi sostituiti da insegnamenti più tradizionali.
[6] D. Antiseri, «Quando, come e perché epistemologia ed ermeneutica ‘unum et ideem sunt’», in H. Albert-D. Antiseri, Epistemologia, ermeneutica e scienze sociali, Roma, Ed. LUISS, 2002, pp. 51-109.

domenica 29 maggio 2016

Maria Signora della Premura



1.      A. Cura, sollecitudine verso persona, cosa, affare o problema che sta molto a cuore. Con senso concr., atto di attenzione affettuosa con cui tale sollecitudine si manifesta; spesso al plur.

B. estens. Urgenza, fretta: aver p., avere fretta: ho p. di arrivare, di sbrigare questa faccenda; sollecitare mostrando di aver fretta, di avere urgenza di qualche cosa; insistere, raccomandare caldamente. Di premura, come locuz. avv., di fretta: andare, lavorare di p.; come locuz. agg., urgente o, anche, importante, che preme, che sta a cuore: è un affare di premura.

2.      Scrive Franco Giulio Brambilla: «La premura è segno di una libertà ritrovata, di una scioltezza che ha liberato il proprio desiderio dalle pastoie di una ricerca ripiegata su di sé e l’ha immesso nel mare aperto della testimonianza» (Il Crocifisso risorto. Risurrezione di Gesù e fede dei discepoli, 19992, p.287).

3.      Nell’esortazione apostolica Evangelii gaudium sull’annuncio del vangelo nel mondo attuale (24 novembre 2013) papa Francesco fa riferimento a Maria usando il titolo di “Madre dell’Evangelizzazione” (nn. 284-287) e di “Signora della Premura” (n. 288) alla fine del quinto ed ultimo capitolo dedicato agli “evangelizzatori con Spirito”.

Ø  Maria è Signora della premura:

ü  Maria è colei che trasforma una grotta per animali nella casa di Gesù con alcune fasce e una montagna di tenerezza (n. 286)
ü  Maria è l’amica sempre attenta perché non venga a mancare il vino nella nostra vita
ü  Maria è colei che, avendo il cuore trafitto da una spada, comprende tutte le pene
ü  Maria è la donna della fede, che cammina nella fede (n. 287)
ü  Maria è la donna del nascondimento e della fatica negli anni trascorsi a Nazaret mentre Gesù cresceva
ü  In Maria l’umiltà e la tenerezza si mostrano non come virtù dei deboli, ma dei forti, ossia di coloro che non hanno bisogno di maltrattare gli altri per sentirsi importanti (n. 288)
ü  Maria è “Signora della Premura” in quanto parte senza indugio (Lc 1, 39), “di fretta”  e “con inquietudine” per aiutare la cugina Elisabetta (cfr. meditazione del 15.06.2013 a santa Marta intitolata “La fretta del cristiano”)

Ø  Maria è Madre dell’evangelizzazione con Spirito:

o   perché prega e lavora (n. 262) senza guardare ai suoi doveri come un pesante obbligo da tollerare (n. 261)
§  fa esperienza di essere salvata da Dio e prova l’intenso desiderio di comunicarlo (n. 264)
§  nutre il desiderio di rimanere vicino alle piaghe di suo Figlio e della gente del suo popolo, toccandone la miseria umana
·         fuggire dagli altri è un lento suicidio
·         ogni uomo è immensamente sacro
§  vive la risurrezione e il senso del mistero
·         Dio può agire in qualsiasi circostanza anche in mezzo ad apparenti fallimenti
·         E’ Lui che rende fecondi i suoi sforzi

4.      Il 19 marzo 2013 nella omelia di inizio del ministero petrino papa Francesco parla della premura come custodia attraverso la figura di san Giuseppe. Su di lui tornerà il 21 dicembre 2013 nel discorso di augurio natalizio alla curia romana.

5.      Il 10 settembre 2013 nel discorso tenuto nel Centro Astalli per i rifugiati a Roma papa Francesco evidenzia come la solidarietà faccia paura al mondo sviluppato, a tal punto da considerarla quasi una “parolaccia” da non pronunciare.

6.      Il 16 gennaio 2014 salutando gli addetti di anticamera con i loro familiari evidenzia come la premura sia testimoniata dallo spirito di accoglienza e dall’amore per la Chiesa.


7.      Il 7 febbraio 2014 papa Francesco raccomanda in un suo discorso ai Pastori della Polonia, alla vigilia della canonizzazione del beato Giovanni Paolo II, di coltivare l’unità nella premura per il bene dei fedeli come punto di riferimento per coloro che cercano orientamento nel cammino di fede. La premura diviene bussola.

8.      Il 24 febbraio 2014 nel motu proprio Fidelis dispensator et prudens con il quale costituisce una nuova struttura di coordinamento degli affari economici e amministrativi della Santa Sede e dello Stato della Città del Vaticano, papa Franscesco raccomanda la premura nei confronti dei bisognosi come fine della responsabilità e dell’attenzione nella custodia dei propri beni.

9.      Il 15 giugno 2014 nel discorso di visita alla Comunità di Sant’Egidio a Trastevere il papa Francesco evidenzia la premura nei confronti degli stranieri contrassegnata dalla conoscenza e dall’aiuto.

10.  Il 23 novembre 2014 papa Francesco tiene una omelia per la canonizzazione di alcuni beati ed evidenzia quali siano i verbi che rimandano alla premura del pastore: cercare, passare in rassegna, radunare dalla dispersione, condurre al pascolo, far riposare, cercare la pecora perduta, ricondurre quella smarrita, fasciare la ferita, curare la malata, avere cura, pascere.

11.  Il 17 dicembre 2014 nell’udienza generale dedicata alla famiglia papa Francesco entra nel mistero di Nazaret e sostiene come tutti (madri, padri e figli) hanno da apprendere molto guardando alla premura vissuta all’interno della Sacra Famiglia.


12.  Nella enciclica Laudato sì sulla cura della casa comune (24 maggio 2015) il termine “premura” non compare neanche una volta sostituito da quello di “cura” presente ben 92 volte. Possiamo sostenere che in questo caso i termini “premura” e “cura” indichino la stessa cosa dato che papa Francesco, il 14 giugno 2013, in un suo discorso, aveva raccomandato alla comunità degli scrittori de La civiltà cattolica di avere una particolare attenzione nei confronti della verità, della bontà e della bellezza di Dio come alleati nel “custodire con cura il creato” (nella lingua spagnola “custodiar con premura la creación”).

13.  Nell’esortazione apostolica Amoris laetitia sull’amore nella famiglia (19 marzo 2016) papa Francesco sottolinea come:
Ø  la verginità sia una forma di amore che rimanda alla premura per il Regno e all’urgenza di dedicarsi senza riserve al servizio della evangelizzazione (n. 159);
Ø  la premura sia indice del grado di fraternità che è presente nella famiglia (n. 195);
Ø  la premuta sia lo stile con cui la Chiesa deve accompagnare i suoi figli più fragili feriti nell’amore (n. 291)

* La mancanza di premura porta all’indifferenza, ossia all’atteggiamento di chiusura sistematica verso ogni generosità senza remore e senza rimorsi (Luciano Eusebi p. 90)
**Premura è misericordia, la quale è “il cuore pulsante del Vangelo” (Misericordiae vultus, n. 12)
*** La misericordia comporta (Luciano Eusebi, pp. 90-91):
-          giustizia di inclusione che giustifica il penitente progettando un percorso di recupero non finalizzato alla semplice condanna, che il più delle volte non fa altro che riprodurre il male
-          perdono, non inteso come ignorare il male ricevuto ma come superamento del male
**** L’amore non elimina la giustizia: la giustizia è la misura minima dell’amore mentre l’amore è il massimo dell’impegno sociale (Benedetto XVI, Lettera enciclica sullo sviluppo umano integrale nella carità e nella verità Caritas in veritate (2009), n.6.

Scrive il teologo Piero Coda nel suo Diario l’11 maggio 1995:
Mamma:
parola di luce
prima e spesso ultima,
che dell’esistere
disvela il segreto
in Colei che per noi
tutto racchiude
nell’unico Verbo della Vita,
Madre celeste
del Bell’Amore.