martedì 24 novembre 2015

L'infinitamente complesso

Nel 1980, Douglas Hofstadter vinceva il Premio Pulitzer per il best seller Gödel, Escher, Bach: un’eterna ghirlanda brillante. Il figlio del premio Nobel per la fisica Robert Hofstadter (1915-1990) aveva avuto l’intuizione geniale di proporre un approccio squisitamente creativo sulle origini del pensiero umano. 
Maurits Cornelis Escher, «Giorno e notte» (1938)
Attraverso dei paragoni incrociati fra discipline tanto diverse come la matematica,l’architettura e la musica, Hofstadter era riuscito a delucidare alcuni meccanismi basilari della formazione della conoscenza e, persino, della coscienza. Nel libro Micro e macro. Viaggio avventuroso tra atomi e galassie che Il Mulino ha deciso di pubblicare quest’anno, il matematico Werner Kinnebrock non ha sicuramente avuto la presunzione di uguagliare il classico dell’accademico newyorchese, ma ha comunque offerto un’opera scientifica, gradevolmente accessibile che, pagina dopo pagina, conduce il lettore a porsi domande fondamentali sulla percezione che l’uomo ha dell’universo e sul posto che l’uomo stesso occupa nell’universo.
Il matematico tedesco non è sconosciuto al pubblico italiano. Nel 2013, in Dove va il tempo che passa? Fisica, filosofia e vita quotidiana, Kinnebrock partiva dalla domanda rivolta da Albert Einstein (1879-1955) a Kurt Gödel (1906-1978) per analizzare le ultime scoperte della cosmologia moderna attraverso la lente interpretativa di grandi pensatori, come sant’Agostino, e di eminenti artisti come Luís de Góngora.
In dieci accattivanti capitoli il divulgatore tedesco riusciva a dimostrare come teologi, filosofi, artisti e scienziati avevano tutti contribuito a rispondere al dilemma che tormentava proprio il doctor gratiae che nelle Confessioni (XI, 14) scriveva: Quid est ergo tempus? Si nemo ex me quaerat, scio; si quaerenti explicare velim, nescio («Cos’è quindi il tempo? Lo so, quando nessuno me lo chiede; ma, non saprei spiegarlo se qualcuno me lo chiedesse». Il divulgatore tedesco riesce quindi ad illustrare una paradossale verità che il grande esperto di geometria frattale — quella che, contrariamente a quella euclidea, meglio rappresenta le forme che si riscontrano in natura — Benoît Mandelbrot (1924-2010) aveva avvertito, ossia che il creato è una «sorprendente combinazione di estrema semplicità e di impressionante complessità».
di Carlo Maria Polvani

venerdì 20 novembre 2015

La cura

«Tutti possiamo collaborare come strumenti di Dio per la cura della creazione, ognuno con la propria
cultura ed esperienza, le proprie iniziative e capacità», ha spiegato Papa Francesco nella sua enciclica Laudato si’ sulla cura della casa comune, rimandando anche al mistero dell’universo: «Per la tradizione giudeo-cristiana, dire “creazione” è più che dire natura, perché ha a che vedere con un progetto dell’amore di Dio, dove ogni creatura ha un valore e un significato». In particolare il Papa ha evidenziato la «responsabilità dell’essere umano, che è parte del mondo con il compito di coltivare le proprie capacità per proteggerlo e svilupparne le potenzialità». Lo scrive Herbert Schambeck aggiungendo che nell’uomo si coniugano la responsabilità individuale e quella sociale. Poiché avere una responsabilità esige che si diano delle risposte, in questa responsabilità verso il creato l’uomo ha l’obbligo di agire e di fare.

domenica 15 novembre 2015

Parigi: la fine dei miti?



Quello che è avvenuto a Parigi in questi giorni non è altro che il frutto dell’ateismo e di una società che pur di dirsi laica, o meglio laicista, si è voluta rendere priva di ogni riferimento e legame con l’Assoluto, con Dio. Ormai in più campi stiamo assistendo alle derive di un primato dell’essere umano vissuto come dominio e non come servizio o custodia, un primato imposto con la forza e l’esercizio della potenza su di un ambiente inerme ed indifeso come gli esseri viventi che lo popolano. Ma la storia ci insegna che il vivere come se Dio non ci fosse, significa, in realtà, porre al suo posto un idolo fatto da mani di uomo. È stato così per il popolo di Israele con il vitello d’oro, durante i grandi totalitarismi del Novecento ed anche ora. Si vuole aver fede in un “paradiso terrestre” che non ha Dio come salvatore, bensì l’essere umano con la sua tecnica e la sua scienza.

Così l’Europa, per porre il primato della sola ragione, ha ritenuto “ragionevole” rinchiudere la religione dentro la sfera mitologica, oppio dei popoli o proiezione dei bisogni inconsci ed irraggiungibili degli esseri umani, soprattutto dei più deboli e poco intelligenti. Ma, facendo ciò, la nostra vecchia Europa si è fatta essa stessa promotrice di ben altri  miti, ai cui dogmi ha manifestato e testimoniato fedeltà incondizionata. Primo fra tutti, oltre al mito gnostico e scientista, che ha riempito le menti ma svuotato i cuori, vi è il mito economico. Si è cercato in questi anni di conquistare il mondo attraverso la logica della finanza, producendo così uno sfrenato arricchimento e benessere di pochi a scapito di molti. In nome del guadagno e del profitto si sono abbattute le frontiere, subito rialzate dinanzi alla sfida dell’accoglienza dell’altro, di quell’impoverito accusato delle peggiori nefandezze ed avente l’unica colpa di essere nato nel posto sbagliato. L’Europa ha così perseguito e proclamato il mito del guadagno e del successo, liberandosi come una mongolfiera, da quelle zavorre che le impedivano di spiccare il volo, tra esse la più pesante è quella che ritenevano essere l’opprimente giogo della fede in un Dio che costringeva l’uomo a vivere in uno stato buio di non maggiore età.

Ma il mito della ricchezza, ci insegna la storia, ha una sorella gemella. Essa è il mito della potenza, il quale però sta ora tradendo i suoi genitori, invertendo i ruoli di vittime e carnefici. Si è sempre voluti essere i padroni della vita altrui, anzi i detentori di quella sapienza che dice ciò che può essere ritenuta vita e ciò che non è tale. Lo si è fatto con la tratta degli schiavi, lo si fa in medicina con convegni, ricerche e studi, non finalizzati alla guarigione delle persone, bensì alla veloce eliminazione di quelle ingombranti da sopportare, zavorre che non permettono di far volare in alto la mongolfiera della nostra falsa libertà. Ma la potenza è un personaggio strano. Essa non possiede occhi, è cieca, e, addirittura, priva di un volto. Essa, per affermare se stessa, corre sulle strade della vendetta, della violenza, della sofferenza e della morte e si vende al miglior offerente.

Parigi così grida il bisogno e la necessità di porre fino a queste mitologie, e sembra dire, con voce sprezzante, all’essere umano del XI secolo di imparare nuovamente a rileggere la grammatica con cui è scritto il senso ed il significato della sua esistenza. È il grande racconto della creazione che oggi si fa vivo in mezzo a noi, quel mito tanto disprezzato dalla civiltà contemporanea, nel quale la dignità della persona come essere creato consisteva nel mettersi a servizio di quella “ecologia integrale”, tanto cara a papa Francesco, apportatrice di rispetto, uguaglianza, solidarietà. In essa e attraverso essa non pochi ma tutti possono trovare risposta ai loro bisogni.

Nella vicenda terribile di Parigi, infatti, vi è un altro grido che rimane inascoltato e soffocato dalle logiche del mondo, disprezzanti del sacro come del profano. È il grido di papa Francesco innalzato durante l’incontro con i membri dell’Assemblea Generale dell’Organizzazione delle Nazioni Unite lo scorso 25 settembre. Basta con la guerra, con il proliferare delle armi e, in special modo, di quelle nucleari!!! Un grido non soffocato dagli applausi ma dal silenzio gelido di un’Assemblea che non condivideva quanto si andava affermando.
Ed allora quanto accaduto a Parigi non è altro che il figlio di questo silenzio, una “Terza Guerra Mondiale” generata dal perseguimento di un mito contrassegnato dalla volontà di ricchezza e di potenza e che non tiene affatto conto di un Dio che richiama l’essere umano alla responsabilità di riconciliarsi con la sua dimensione di creatura, custode del mondo e di coloro che vi abitano.

venerdì 13 novembre 2015

Il Paradiso come "Regno della Possibilità"



Inizia domani sabato 14 novembre con la proiezione del film Paradiso Perduto del regista messicano Alfonso Cuaròn presso il cinema Cityplex Politeama di Terni l’XI edizione del film festival “Popoli e Religioni” organizzato dall’Istituto di Studi Teologici e Storico-Sociali in collaborazione con la Diocesi di Terni-Narni-Amelia ed il sostegno del Comune di Terni, del Ministero per i beni e le attività culturali, la Regione Umbria, la Fondazione Carit e il patrocinio del Pontificio Consiglio per la Cultura.
Il tema del Paradiso si mostra fin dall’inizio essere il fil rouge dei quasi dieci giorni di eventi che si succederanno nella nostra città ternana. Ma non solo. Esso è un tema centrale su cui riflettere a trecentosessanta gradi all’interno della nostra società. Cosa significa aver perso il paradiso? Cosa è il paradiso?
Esso è principalmente il luogo delle relazioni e della fiducia la cui perdita non può generare altro che il “non-luogo”. Il termine “paradiso”, infatti, proviene dalla lingua persiana ed indica il “giardino recintato”, quel luogo in cui l’essere umano delle religioni abramitiche era chiamato ad intessere relazioni ed alleanze all’insegna del rispetto, della fiducia, della responsabilità e dell’aiuto reciproco. Quella prospettata dal paradiso non è una visione ideale o utopica, irrealizzabile ed irraggiungibile, ma una sfida e una provocazione rivolta a tutta la società. Questa, oggi più che mai, dinanzi ai turbamenti procurati dalla crisi economica, dalla immigrazione, dal disastro ambientale, si trova ad essere continuamente pressato sotto le tentazioni dell’egoismo, dell’individualismo e della sfiducia. Ha perso se stesso e non sa più trovare una risposta al senso della sua vita o, addirittura, a porsi la domanda di senso. Ha rotto tutte le alleanze, con sé, con gli altri, con l’ambiente e con Dio rendendo anche il suo spazio vitale una terra inospitale, dalla quale spesso è meglio fuggire via.
Il festival “Popoli e Religioni” è una grande opportunità per Terni ed, in particolar modo, per i giovani. A loro è affidato il compito e la responsabilità di  accogliere la sfida di ricostruire il Paradiso ripristinando proprio quelle alleanze che abbiamo purtroppo mandato in frantumi, non ultima quella tra uomo e donna.
Per i giovani il Paradiso rappresenta il “regno della possibilità”, quel regno strano e faticoso ma comunque presente dentro ognuno dei nostri ragazzi. Un regno che urla i suoi bisogni e che fin troppo spesso noi adulti non facciamo altro che soffocare, sfruttando il più che possiamo e lasciando per loro in dono il meno possibile. I giovani, invece, abitano il regno della possibilità nutrendo in sé il desiderio di voler cambiare questo mondo che parla tanto di loro ma che al tempo stesso sembra non aspettarsi niente da loro, questo mondo nel quale non si è unici, ma uno fra i tanti, questo mondo che non ci vuole globalizzare ma omologare, questo mondo che rifiuta il nostro essere persona per realizzare di noi degli androidi, dei robot. Un mondo così, infatti, sarebbe, se già non lo è, il non-luogo dove regna o regnerebbe solo l’interesse e la solitudine.

giovedì 12 novembre 2015

Preferisco nascere

La sentenza della Consulta che permette di selezionare gli embrioni sani in caso di grave malattia trasmissibile geneticamente non è arrivata imprevista: sono anni che viene denunciata quella che si ritiene — ed effettivamente è — una contraddizione legislativa. 

Lo scrive Lucetta Scaraffia aggiungendo che finora lo stesso feto malato che non si poteva eliminare a stadio embrionale poteva invece essere abortito secondo la legge 194. Naturalmente, sarebbe stato possibile — e auspicabile — risolvere la contraddizione nel modo opposto, cioè eliminando la possibilità di effettuare il cosiddetto “aborto terapeutico”, che già dal nome rivela l’imbarazzo e la manipolazione: qui non si tratta di terapie per curare l’embrione malato, ma di eliminazione. Le definizioni hanno il potere di cambiare il segno morale di un’azione, e questa dicitura ha la pretesa di rendere non solo giustificabile, ma quasi encomiabile, questo tipo di aborto.
Oggi la contraddizione è stata cancellata da una sentenza che permette l’eliminazione già in stadio embrionale, come al solito cercando di alleggerire la gravità di questo atto prevedendo che questa selezione si potrà effettuare solo nei casi di gravi malattie. Ma sappiamo già che, come è stato per la legge 194, si tratta di una severità facilmente aggirabile, anche solo invocando l’incapacità psicologica della madre di accettare il figlio imperfetto qualora la malattia non sia così grave in se stessa.
 

lunedì 9 novembre 2015

Ragione e sensibilità. Riflettere sul numero


A torto o a ragione, Piero Martinetti (1872-1943) è considerato uno dei pensatori italiani più creativi del primo Novecento. Indubbiamente, il filosofo piemontese si distinse per l’originalità e persino per l’eccentricità, almeno per quell’epoca, di alcune sue scelte: basti pensare ai suoi studi sulla razionalità degli animali o alla sua passione per la più antica tradizione filosofica indiana, la Sākhya, che lo influenzò nella sua opzione in favore del vegetarianismo e dell’animalismo. Lo scrive Carlo Maria Polvani aggiungendo che strenuo oppositore della prima guerra mondiale, nel 1923 Martinetti rinunciò alla nomina alla Reale Accademia dei Lincei, nel 1925 non aderì né al Manifesto degli intellettuali fascisti di Giovanni Gentile né al Manifesto degli intellettuali antifascisti di Benedetto Croce e, nel 1931, fu il solo filosofo universitario a rifiutarsi di firmare il giuramento di fedeltà al fascismo. Bandito dall’insegnamento, diresse in vesti officiose la «Rivista di filosofia» e scrisse Gesù Cristo e il Cristianesimo e Il Vangelo, che furono messi all’indice dal 1937, in quanto riducevano la figura di Gesù a quella di un maestro ebraico propositore di una dottrina sapienziale e moraleggiante.
Questi atteggiamenti iconoclastici rendono ancora più intrigante la decisione dall’editrice Castelvecchi di rieditare — corredandolo da una interessante prefazione del professor Niccolò Argentieri — un affascinante articolo che Martinetti pubblicò nel 1927 con il titolo Il numero. L’obiettivo che il filosofo di Pont Canavese si prefissava in tale breve saggio era quello di esplorare il concetto di numero da una prospettiva genuinamente gnoseologica, ossia di indagare l’origine del linguaggio numerico per capire se esso precedesse l’esperienza — e, quindi, era da ritenersi innato all’uomo — o se esso derivasse dall’esperienza e, pertanto, era da considerarsi di origine empirica.

sabato 7 novembre 2015

Il canto del "doctor subtilis"

Duns ScotoAlla vigilia del convegno ecclesiale di Firenze, tappa centrale di una lunga riflessione sul tema «In Gesù Cristo il nuovo umanesimo», la liturgia offre ulteriori e affascinanti stimoli di riflessione attraverso la memoria del beato Giovanni Duns Scoto.
Vissuto tra il 1265-1266 e il 1308, docente presso le università di Oxford e Parigi, Duns Scoto è uno dei grandi maestri della Scuola francescana. L’esperienza di vita e il suo pensiero filosofico- teologico sono testimonianza di un autentico umanesimo cristiano, fondato sul primato di Cristo e sull’eccellenza dell’incarnazione. Figura esemplare per rigore e onestà nella ricerca, filosofo che ha condotto la ragione metafisica ai vertici delle sue possibilità, teologo del primato di Cristo e difensore dell’immacolato concepimento di Maria, Duns Scoto è una di quelle menti eccezionalmente acute — tanto da meritare l’appellativo di doctor subtilis — che hanno contrassegnato la storia della filosofia e della teologia. «Lo spirito e l’ideale di san Francesco d’Assisi — scriveva Paolo VI nell’epistola Alma Parens (1966) — si celano e fervono nell’opera di Giovanni Duns Scoto, dove fa alitare lo spirito serafico del Patriarca Assisiate, subordinando al sapere il ben vivere». Filo conduttore della sua speculazione è la reciproca compenetrazione di ragione e fede, nella consapevolezza che tutte le verità, naturali e soprannaturali, in quanto promanano da un’unica fonte debbano essere in armonia tra di loro. L’eccellenza stessa della ragione umana la predispone a un perfezionamento superiore, che non la sminuisce, ma ne porta a compimento le istanze: gratia non vilificat, sed dignificat naturam. La metodologia di Scoto è stata sintetizzata con l’espressione Ora et cogita, cogita et ora, pregare pensando e pensare pregando; l’espressione riflette da una parte la concezione francescana del lavoro come dono e restituzione, dall’altra il principio del filosofare illuminato dalla fede. L’incarnazione, a giudizio di Duns Scoto, è l’opera più grande e sublime che Dio abbia potuto realizzare nell’universo; è il capolavoro di Dio (summum opus Dei), espressione suprema e garanzia di comunione tra finito e infinito. Come in san Paolo, non viene intesa come abbassamento, umiliazione di Dio che si fa uomo; è piuttosto l’esaltazione dell’uomo, assunto da Dio per essere più vicino a Lui e amarlo. In Cristo perciò acquista significato e compimento il desiderio umano di felicità e pienezza. La caratteristica che il maestro francescano sottolinea maggiormente di Dio è l’amore: con grande chiarezza egli afferma che Dio è “essenzialmente” a m o re , non solo nelle sue azioni, ma nel suo stesso essere. L’amore si diffonde dove Dio crea altri esseri, chiamati all’esistenza per essere co-amanti (condiligentes) ai quali comunicare la stessa vita divina, che è pienezza di bene, beatitudine e gioia. Scoto non medita l’infinito a partire dal finito, non parte dalla creazione e dal peccato quali cause dell’Incarnazione; punto di partenza della sua riflessione è l’amore libero e gratuito di Dio,che desidera donarsi e condividere la sua pienezza. Cristo è il primum volitum, predestinato da Dio come Colui che può perfettamente e pienamente ricevere e donare amore.
di Marcella Serafini


lunedì 2 novembre 2015

Il libro che ha cambiato la storia umana

"Se si vuole sottomettere e opprimere qualcuno, l’ultima cosa da mettergli in mano è la Bibbia. È più rivoluzionaria, più sovversiva di qualunque manifesto o ideologia politica. Perché? Perché la Bibbia afferma, come abbiamo visto, che ciascuno di noi, senza eccezioni, è creato a immagine di Dio. 
Che sia ricco o povero, bianco o nero, istruito o analfabeta, maschio o femmina, ciascuno di noi è creato a immagine di Dio e questo è meraviglioso. Il nostro valore è intrinseco; lo troviamo, per così dire, già confezionato in noi stessi. Tutte le discriminazioni si basano su qualche attributo: la razza, il genere, l’orientamento sessuale, il grado di istruzione, il livello di reddito. Ma questi attributi sono estrinseci; possono essere variegati e noi restiamo umani; siamo umani con qualunque combinazione dei precedenti attributi. La Bibbia dichiara esplicitamente e con forza che il fatto che ci riempie di valore, di un valore infinito, è uno solo: che siamo creati a immagine di Dio. Il nostro valore ci viene fornito con il nostro stesso essere. È intrinseco e universale. Appartiene a tutti gli esseri umani, indifferentemente". Così scrive Desmond Tutu, nello stralcio che pubblichiamo tratto dal volume «Il mio Dio sovversivo» (Bologna, Emi, 2015, pagine 144, euro 13). Quindi conclude l’arcivescovo anglicano, premio Nobel per la pace nel 1984: "Se credessimo veramente a quello che abbiamo affermato, che ogni essere umano senza alcuna eccezione è creato a immagine di Dio, e quindi è un portatore di Dio, allora qualunque maltrattamento di un altro essere umano ci farebbe inorridire, perché è non solo ingiusto, ma anche oltraggiosamente blasfemo. È davvero come sputare in faccia a Dio. Ecco dunque ciò che i missionari ci hanno portato: un libro che è più radicale e più rivoluzionario di qualunque manifesto politico".