venerdì 4 marzo 2016

Tommaso d'Aquino

Non è per una certa forza d’inerzia intellettuale che possiamo parlare di attualità di san Tommaso d’Aquino. Solo che ancora pochi lo studiano, ascoltandolo profondamente, come richiede un autore che misurava e pesava le parole, impregnandole di riflessione. 
Vicente Salvador Gómez, «Apparizione della Vergine a Sant’Alberto Magno» (XVII secolo)
Se è vero che san Tommaso non è infallibile e che, accostato da vicino, mostra i suoi limiti e i suoi impacci di linguaggio e di dottrina, la sua figura attrae in ogni caso e lascia quasi tutti i pensatori irresistibilmente incantati. Ma come si presentava l’Angelico? Il suo aspetto fisico colpiva i suoi contemporanei per la sua solidità e armonia: «Procurava una grazia di consolazione spirituale»: l’affermazione è di Jacques Maritain, che prosegue: «Quando san Tommaso passava per i campi con i suoi compagni, si giravano meravigliati per la sua alta statura. Era massiccio, bruno, robusto, diritto: aveva la carnagione color del grano, la testa grande e un po’ calva». E lo distingueva una singolare capacità di raccoglimento; gli era facile e abituale astrarsi dal mondo circostante, per vivere «concentrato nel suo spirito», in una «densità di silenzio, circondato solo dal mormorio della sua preghiera e del suo pensiero» e con una capacità di lavoro enorme, che spiega la sua opera immensa in non lunghi anni di vita.
Era di nobile casato. Si direbbe che la sua vita e le sue opere stesse in qualche misura lascino trasparire la signorilità delle sue origini. Dante nel Paradiso parlerà dell’«infiammata cortesia di fra Tommaso» e del suo «discreto latino» o lucido e chiaro discorso (xii, 143-144). Da fanciullo Tommaso soggiornò per una decina d’anni a Montecassino, e furono anni fondamentali per la sua formazione religiosa e letteraria: i suoi scritti e il suo spirito conservano chiare tracce di quella iniziazione benedettina, sia nella sua dottrina sulla contemplazione e sulla vita contemplativa, tanto debitrice al maestro per eccellenza della contemplazione, il monaco e papa Gregorio Magno, sia, più generalmente, nella concezione della teologia non solo come conoscenza acquisita tramite lo “studio”, ma anche come esperienza del mistero (cfr. Summa theologiae, I, 1, 6, 3m).
Tuttavia quella monastica non era la sua vocazione. Di ritorno a Napoli avviene la decisione sconvolgente e rivoluzionaria nella vita di Tommaso, «replica esatta» di quella di Francesco d’Assisi (Chenu). Nella città universitaria Tommaso conosce i frati predicatori del convento che il successore di san Domenico, Giordano di Sassonia, vi aveva fondato nel 1231, e nell’aprile del 1244 riceve l’abito domenicano. La scelta non poteva essere più sorprendente e contestatrice. Il nobile d’Aquino al prestigioso ordine monastico benedettino predilige un ordine mendicante, sorto da poco dal risveglio evangelico del suo tempo; un ordine votato alla povertà, senza possedimenti e sicurezze, non protetto dentro i chiostri, ma destinato alla predicazione e all’insegnamento nel cuore della città, nelle università, dove ferve la cultura nuova, con la quale la scienza sacra, senza perdere la sua identità, è chiamata a confrontarsi.
Quello dei predicatori appare al giovane d’Aquino un ideale insuperabile di vita. Lo insegnerà nella Summa theologiae, trovandone il modello in Cristo stesso, a colloquio con il quale trascorrerà la vita, definendolo la ragione delle sue ingenti fatiche di teologo, il tema del suo insegnamento e il premio di tutto il suo lavoro. Scriverà: «La vita attiva con la quale uno, predicando e insegnando, comunica agli altri le verità contemplate è più perfetta della vita in cui si contempla soltanto, in quanto presuppone l’abbondanza della contemplazione. E così Cristo scelse questo genere di vita» (Summa theologiae, III, 40, 1, 2m). La sua opera di teologo consisterà esattamente nel «trasmettere agli altri quanto si è contemplato» (ivi, II-II, 189, 6, c.).
di Inos Biffi

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