Non è per una certa forza d’inerzia intellettuale che
possiamo parlare di attualità di san Tommaso d’Aquino. Solo che ancora pochi lo
studiano, ascoltandolo profondamente, come richiede un autore che misurava e
pesava le parole, impregnandole di riflessione.
Se è vero che san Tommaso non è
infallibile e che, accostato da vicino, mostra i suoi limiti e i suoi impacci
di linguaggio e di dottrina, la sua figura attrae in ogni caso e lascia quasi
tutti i pensatori irresistibilmente incantati. Ma come si presentava
l’Angelico? Il suo aspetto fisico colpiva i suoi contemporanei per la sua
solidità e armonia: «Procurava una grazia di consolazione spirituale»:
l’affermazione è di Jacques Maritain, che prosegue: «Quando san Tommaso passava
per i campi con i suoi compagni, si giravano meravigliati per la sua alta
statura. Era massiccio, bruno, robusto, diritto: aveva la carnagione color del
grano, la testa grande e un po’ calva». E lo distingueva una singolare capacità
di raccoglimento; gli era facile e abituale astrarsi dal mondo circostante, per
vivere «concentrato nel suo spirito», in una «densità di silenzio, circondato
solo dal mormorio della sua preghiera e del suo pensiero» e con una capacità di
lavoro enorme, che spiega la sua opera immensa in non lunghi anni di vita.
Era di nobile casato. Si direbbe che la sua vita e le sue
opere stesse in qualche misura lascino trasparire la signorilità delle sue
origini. Dante nel Paradiso parlerà dell’«infiammata cortesia di fra Tommaso» e
del suo «discreto latino» o lucido e chiaro discorso (xii, 143-144). Da
fanciullo Tommaso soggiornò per una decina d’anni a Montecassino, e furono anni
fondamentali per la sua formazione
religiosa e letteraria: i suoi scritti e il suo spirito conservano chiare
tracce di quella iniziazione benedettina, sia nella sua dottrina sulla
contemplazione e sulla vita contemplativa, tanto debitrice al maestro per
eccellenza della contemplazione, il monaco e papa Gregorio Magno, sia, più
generalmente, nella concezione della teologia non solo come conoscenza
acquisita tramite lo “studio”, ma anche come esperienza del mistero (cfr. Summa
theologiae, I, 1, 6, 3m).
Tuttavia quella monastica non era la sua vocazione. Di
ritorno a Napoli avviene la decisione sconvolgente e rivoluzionaria nella vita
di Tommaso, «replica esatta» di quella di Francesco d’Assisi (Chenu). Nella
città universitaria Tommaso conosce i frati predicatori del convento che il
successore di san Domenico, Giordano di Sassonia, vi aveva fondato nel 1231, e
nell’aprile del 1244 riceve l’abito domenicano. La scelta non poteva essere più
sorprendente e contestatrice. Il nobile d’Aquino al prestigioso ordine
monastico benedettino predilige un ordine mendicante, sorto da poco dal
risveglio evangelico del suo tempo; un ordine votato alla povertà, senza
possedimenti e sicurezze, non protetto dentro i chiostri, ma destinato alla
predicazione e all’insegnamento nel cuore della città, nelle università, dove
ferve la cultura nuova, con la quale la scienza sacra, senza perdere la sua
identità, è chiamata a confrontarsi.
Quello dei predicatori appare al giovane d’Aquino un ideale
insuperabile di vita. Lo insegnerà nella Summa theologiae, trovandone il
modello in Cristo stesso, a colloquio con il quale trascorrerà la vita,
definendolo la ragione delle sue ingenti fatiche di teologo, il tema del suo
insegnamento e il premio di tutto il suo lavoro. Scriverà: «La vita attiva con
la quale uno, predicando e insegnando, comunica agli altri le verità
contemplate è più perfetta della vita in cui si contempla soltanto, in quanto
presuppone l’abbondanza della contemplazione. E così Cristo scelse questo
genere di vita» (Summa theologiae, III, 40, 1, 2m). La sua opera di teologo consisterà
esattamente nel «trasmettere agli altri quanto si è contemplato» (ivi, II-II,
189, 6, c.).
di Inos Biffi
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