martedì 29 settembre 2015

NOVITA'...in libreria

E' uscito recentemente in libreria il libro di Aristide Fumagalli, La questione gender. Una sfida antropologica, editrice Queriniana.



La differenza tra l'uomo, maschio e padre, e la donna, femmina e madre, ritenuta un dato imprescindibile della natura umana, è oggi contestata dalla più recente cultura sessuale, che rivendica il diritto di definire altrimenti il genere sessuale.
Con l'intento di offrire gli elementi interpretativi e i criteri valutativi per orientarsi nel dibattito sulla cosiddetta questione del gender, il testo provvede, anzitutto, a delineare lo sviluppo delle teorie del genere e la loro incidenza sul piano politico-giuridico. Considerando poi la posizione della chiesa cattolica a livello di diplomazia, magistero e tendenze ecclesiali, questo saggio opera una distinzione fra ideologia gender e prospettiva di genere, segnalando i limiti della prima e i pregi della seconda. Suggerisce, infine, alcune prospettive antropologiche e indica delle coordinate bibliche essenziali.
L'idea sottesa alla riflessione proposta in queste pagine è che l'attuale questione gender non è certo priva di pericolose insidie. Tuttavia, costituisce anche una sfida antropologica che sollecita una nuova cultura delle relazioni tra uomo e donna, capace di scongiurare la prevaricazione dell'uno sull'altra.

venerdì 25 settembre 2015

Un giorno con Gesù. In un volume di padre Giulio Michelini l’itinerario di preparazione all’imminente Convegno Ecclesiale Nazionale di Firenze




  [La gioia di annunciare il Vangelo] ha sempre la dinamica dell’esodo e del dono, dell’uscire da sé, del camminare e del seminare sempre di nuovo, sempre oltre. Il Signore dice: «Andiamocene altrove, nei villaggi vicini, perché io predichi anche là; per questo infatti sono venuto!» (Mc 1, 38). Quando la semente è stata seminata in un luogo, non si trattiene più là per spiegare meglio o per fare segni ulteriori, bensì lo Spirito lo conduce a partire verso i altri villaggi (Francesco, Evangelii gaudium, 21).

Nella sua esortazione apostolica papa Francesco faceva riferimento alla giornata trascorsa da Gesù a Cafarnao, una giornata che secondo Giulio Michelini[1]. ha una sua importanza fondamentale proprio in quanto riesce a parlare all’uomo di oggi e ad interpellare la Chiesa in questo inizio di Terzo Millennio. Per questo motivo, secondo l’autore, «la giornata di Gesù nella cittadina del lago di Tiberiade può rappresentare ancora oggi un paradigma per i cristiani» (p. 10).
L’analisi condotta in queste circa centosessanta pagine si inscrive all’interno della ricerca sul Gesù storico ed in particolar modo nella sua terza fase, quella della cosiddetta “Terza Ricerca”, avviata negli anni Ottanta del Novecento da Neill e Wright . Padre Michelini, infatti, cerca di porre Gesù nel suo contesto giudaico, avvalendosi sia di fonti giudaiche, tratte dalle pagine dello storico Giuseppe Flavio, sia da alcune scoperte archeologiche, legate soprattutto alla città di Cafarnao. Al tempo stesso il biblista accenna solamente alla disputa se questa giornata di Cafarnao sia un racconto storico o, invece, una giornata più ideale che reale raccontata dall’evangelista.
Questo perché? Innanzitutto in quanto Michelini vuole sottolineare come il Gesù raccontato dal vangelo marciano nella descrizione di quella giornata sia per l’essere umano di oggi la radice dell’umanesimo, come egli renda l’uomo più uomo, liberandolo da ogni schiavitù, non ultima quella di un modo malsano di vivere la propria affettività, il quale danneggia pesantemente il modo di vivere le nostre relazioni umane. Gesù a Cafarnao si mostra “modello” dell’uomo, riconducendolo al progetto che Dio aveva per lui. L’essere umano è l’opera più grande che Dio ha compiuto nella creazione del mondo e Gesù è venuto per restaurarla. Non a caso, pone in risalto Michelini, l’episodio di Cafarnao avvenga proprio di sabato, in quello Shabbat nel quale vi è l’obbligo di astenersi dal lavoro, da qualsiasi opera. Il giorno della festa diviene il giorno della restaurazione. Afferma il biblista: «Salvando l’uomo, Gesù salva anche il senso dello Shabbat» (p. 60).
Michelini pone in risalto come nella pericope marciana analizzata nel suo volume Gesù si mostri nei panni di un viandante chiamato ad attraversare alcune soglie importanti del suo cammino. Passerà così dalla sinagoga, uno spazio pubblico ma chiuso, alla casa di Pietro, uno spazio sempre chiuso ma stavolta privato, alla porta, uno spazio privato aperto, per poi uscire dalla città e oltrepassare così l’ultima soglia, andando oltre Cafarnao, oltre la “Città della Consolazione”, come la definiva Origene.
Nel passare da una soglia ad un’altra Gesù sarà chiamato a confrontarsi con il male, con la malattia, con la legge, con il rifiuto da parte di coloro ai quali era stato inviato, con la propria morte. Di soglia in soglia Gesù si fa testimone di una “mistica dagli occhi aperti” che diviene sempre più una “mistica dell’avvicinarsi”. Su quelle soglie egli incontra l’essere umano, ossia, come evidenzia Michelini, l’uomo imprigionato che cerca la libertà, il ferito che cerca la salvezza (cfr. p.121). Gesù guarisce molti, ma cura tutti.
L’analisi condotta da Michelini con grande maestria riprende in mano ognuna delle cinque vie delle quali si parlerà a Firenze nel Convegno Ecclesiale Nazionale.

Uscire. Gesù esce per incontrare la povertà e la creaturalità dell’essere umano, la sua finitudine fisica e morale. Esce per curare e sollevare coloro che sono in difficoltà, per donare la propria vita, ponendo anche la morte all’interno della sua missione. Ma il vero uscire di Gesù si trova pienamente, secondo Michelini, nel suo colloquiare con il Padre, nel cercare la sua volontà. Uscire per non lasciarsi imprigionare dai troppi impegni, per trovare la prospettiva giusta, per non morire di asfissia intrappolato in rapporti umani soffocanti.
Annunciare. Gesù esce per allargare lo spazio sacro, per far sì che ogni luogo venga toccato dalla sua presenza e dalla sua grazia. L’evangelista Marco, molto più degli altri tre, ci presenta un Gesù che è Maestro, che compie il suo primo miracolo insegnando ed annunciando una parola che libera e salva. Ma nella sinagoga di Cafarnao, Gesù prima di insegnare ascolta. L’annuncio nasce dalla fede e la fede dall’ascolto. Questo è il grande insegnamento che ci dà l’evangelista narrando questo episodio. Oltretutto quella sinagoga, paradossalmente, come ricorda Michelini, è stata fatta costruire da un centurione pagano, proprio ad indicare che tutti hanno bisogno della Parola di Dio.
Abitare. Non sappiamo, secondo il nostro autore, con certezza se Gesù abbia o meno posseduto una casa propria. Certamente ha abitato la casa di Pietro, ha mangiato lì, si è riposato, ha accolto amici e discepoli dando a quella casa un nuovo senso. Abitare, infatti, vuol dire trasformare la propria casa in una comunità: attraversandola, senza rimanervi vincolato, trasformandola attraverso una critica delle relazioni, ed espandendola, facendo della premura dei rapporti familiari il modello per quelli comunitari. Ma Gesù non abita solo la casa, ma anche la città, facendosi lui stesso cittadino, membro della sua comunità, attento ai bisogni e alle necessità della sua gente. La preoccupazione politica di Gesù diviene forma di carità a favore degli uomini e delle donne con i quali condivide la vita in quella città. In questo modo l’abitare è anche uno “stare”.
Educare. Come abbiamo detto sopra Gesù annuncia non come gli altri, ma con quella autorevolezza data dal suo essere l’unico Maestro. Una missione, questa, che lui non abbandonerà mai né in parole né in opere. Gesù educa i discepoli nel comprendere cosa sia il Regno di Dio e cosa significhi il seguire lui. Come afferma Michelini «l’autorevolezza di Gesù sta nella verità della parola di Dio […]. La parola di Gesù ha la potenza di cacciare i demòni, perché ha dentro di sé la verità». Gesù educa l’essere umano a lottare contro il male, a non temere il male, a vincere le sue crisi con la forza della fede.
Trasfigurare. La giornata di Cafarnao raccontata dall’evangelista Marco ed esaminata con cura da Giulio Michelini, mostra infine come Gesù abbia voluto riempire di un nuovo senso la nostra quotidianità, caratterizzata da un tempo e da uno spazio ben precisi. L’invito che egli ci fa è quello di vivere ogni istante della nostra esistenza stando vicini a lui. Il nostro tempo, se non è vissuto in comunione con il Padre e come dono agli altri, diviene sprecato. Gesù nella “città della consolazione” irrompe nel tempo e nello spazio dando loro un nuovo significato, cioè quello di essere un tempo e uno spazio della salvezza. Il tempo non è più circolare, poiché non è più scandito dal percorso degli astri. Gesù è il nuovo ordinatore delle coordinate spazio-temporali dell’essere umano riempiendole della sua grazia e della sua salvezza e facendole uscire dai cardini della mera immanenza.

 [1] Giulio Michelini, Un giorno con Gesù. La giornata di Cafarnao nel Vangelo di Marco, San Paolo, Cinisello Balsamo 2015, 156 pp., € 12,00.

sabato 19 settembre 2015

La riconduzione delle scienze alla teologia in Bonaventura da Bagnoregio


Introduzione

1254-1257: Bonaventura (al secolo Giovanni di Fidanza), maestro reggente ad scholas fratrum, elaborò quello che è stato in seguito da molti studiosi definito come uno dei vertici della produzione teologica bonaventuriana, ossia il De reductione artium ad theologiam. Un opuscolo breve ma assai denso, che originariamente dovrebbe essere stato un sermone scritto dal magister francescano per gli studenti dell’Università di Parigi e la cui datazione sembra essere ancora non del tutto certa[1].

L’opera, come vedremo poi più analiticamente nelle pagine che seguono, è suddivisa in due parti e persegue le solite schematizzazioni bonaventuriane, le quali posseggono un procedere verticale, graduale e gerarchico. Il tema è quello del sapere umano, un sapere che è chiamato sempre più a prendere coscienza del suo non poter fare assolutamente a meno di ciò che si colloca al di sopra di esso, ossia della theologia.

Il pericolo da cui Bonaventura vuole mettere in guardia i suoi studenti, in questa opera come in altre, è dato dall’accontentarsi nel rimanere nei gradini inferiori della conoscenza, nel considerare la sapienza delle arti, della filosofia, come il non plus ultra del sapere stesso. Come sottolinea il professore di Storia della filosofia medievale Giulio d’Onofrio, il danno peggiore sarebbe per Bonaventura il voler scadere in una descensio ad philosophiam, in quanto ciò vorrebbe significare un procedere dall’uno al molteplice, un rimanere prigionieri di quella terra d’Egitto dove sono nate le arti, il non desiderare di voler giungere a quella terra promessa, dove abita la teologia[2].

In questo nostro breve elaborato cercheremo di entrare all’interno dell’opera di Bonaventura, cercando di comprendere quali siano state le esigenze che lo hanno portato ad intraprendere questo trattato, cosa voglia intendere con i termini che usa e perché questa opera possa essere considerata uno dei vertici del suo pensiero filosofico e teologico. Tenteremo, poi, alla fine, di mostrare l’attualità di questa opera confrontandola con il pensiero contemporaneo.

 

1.     La reductio

 

Bonaventura usa nel suo opuscolo per sette volte il termine re-ducere, con il quale non vuole intendere “ridurre”, “diminuire”, ma “ricondurre”. La reductium artium, quindi, non è, per il nostro filosofo francescano un ridurre la filosofia e la scienza a teologia, quanto, invece, una loro riconduzione a quest’ultima. L’uomo è così chiamato a risalire con le sue capacità intellettuali verso la sorgente della sapienza, verso quella verità che è per Bonaventura la Verità originaria.

Le scienze umane, che nel XIII secolo erano tutte racchiuse all’interno della filosofia, dopo il peccato dell’essere umano, sono portatrici di una conoscenza frammentaria ed indiretta. Una conoscenza che fornisce una visione deforme della verità. Diviene allora necessario il non potersi fermare alla mera conoscenza filosofica. Quest’ultima deve imparare ad interloquire con la fede, ad essere corretta dalla fede, ad essere rafforzata dalla fede. La filosofia viene vista come ancilla theologiae, capace di essere portatrice della verità nella misura in cui acconsenta a farsi ricondurre alla conoscenza superiore data dalla teologia. Bonaventura non vuole rifiutare o sminuire la conoscenza filosofica, ed in particolare quella aristotelica, vuole solo ricondurla a quella via superiore che crede che essa abbia abbandonato, ossia la via della sapienza, proprio della filosofia platonica. Per fare ciò il filosofo francescano si fa discepolo di Agostino d’Ippona, da lui definito nell’opuscolo come il “solo verace dottore”[3]. Infatti, come sintetizza d’Onofrio, per Bonaventura Aristotele si è dedicato soprattutto a fornire quelli che sono gli strumenti utili alla scienza per indagare la realtà naturale, ma ha trascurato del tutto l’infinità della verità trascendente, oggetto del pensiero filosofico di Platone, il quale a sua volta però ha demolito il linguaggio scientifico. Questi linguaggi in apparenza sembrano divisi, ma in realtà non lo sono affatto. Essi devono essere ricondotti alla loro unità originaria, dato che hanno una stessa ed unica origine, lo Spirito Santo[4].

Il ricondurre allora il sapere filosofico, ossia quello fornito dalle arti, al sapere teologico è lo scopo che ha portato Bonaventura a scrivere queste pagine, nella certezza che «la multiforme sapienza di Dio […] sta celata in tutte cognizioni e in tutte nature. Ed ecco altresì, come tutte le cognizioni sono ancelle di teologia […], in ogni cosa che senti o che intendi, dentro ci si occulta esso Dio»[5]. Il magister francescano si scontra con una filosofia orgogliosa di esser via ad altre scienza e non umile nel riconoscersi capace di sbagliare, di vagare nelle tenebre senza la luce della fede. Una filosofia che non sa più riconoscere nel finito una tensione verso l’infinito, verso quell’Assoluto a cui dovrebbe tendere anche l’essere umano. Una filosofia che proclama l’autosufficienza assoluta della ragione è, secondo il nostro filosofo francescano, un pensiero anti-cristiano. La filosofia aristotelica conduce a questo tipo di pensiero.

Nell’accostarci a Bonaventura più volte abbiamo sottolineato il fatto che egli è stato un “filosofo francescano”. Questa caratteristica non è affatto marginale nella sua ricerca filosofica. Egli è alla ricerca di un pensiero razionale che sostenga la sua religiosità, il suo misticismo. Egli vuole fare della teologia una scienza, avente un proprio oggetto e metodo di indagine. Addirittura un sapere superiore a quello filosofico. Questo traspare anche dall’opuscolo che stiamo prendendo in esame, in quanto ogni affermazione che in esso viene fatta è sostenuta da molteplici rationes e condotta in maniera graduale ed argomentativa. Nulla è detto in maniera “dogmatica”.

La reductio nasce allora all’interno di un pensatore che «è un Cristiano che filosofa, e non un filosofo che è anche Cristiano. Bonaventura è un mistico. Egli guarda il mondo con gli occhi della fede. La ragione è un instrumentum fidei: la ragione legge ciò che la fede illumina; la ragione è una grammatica scritta con l’alfabeto della fede»[6].

Nel De reductione Bonaventura tratta di quattro lumi, che ci riserviamo di trattare successivamente. Vogliamo ora soffermarci però sul terzo, ossia quello della conoscenza filosofica. Esso è, secondo il nostro filosofo, un lume interiore, in quanto indaga le cause interne e nascoste, attraverso i principi delle discipline e delle verità naturali che sono posti naturalmente nell’essere umano. Dopo aver tripartito la conoscenza filosofica in razionale, naturale e morale, Bonaventura passa ad analizzare le ragioni formali che vengono perseguite dal nostro intelletto nel giudicare la realtà. Esse possono esser dette ragioni formali, se sono inerenti alla  materia; intellettuali, rispetto all’anima; ideali, rispetto alla sapienza divina. Delle prime si occupa la Fisica, delle seconde la Matematica e delle terze la Metafisica. Quest’ultima è chiamata a conoscere quel principio primo dal quale provengono le ragioni ideali. Esso è Dio, principio e fine di ogni cosa e la metafisica vi arriva a partire dal molteplice presente nella realtà fino ad ascendere all’uno[7]. Tra le varie scienze filosofiche la metafisica si trova quindi ad occupare la posizione più elevata, ossia quella riguardante la conoscenza di tutti gli enti che essa stessa riconduce all’unico Principio Primo. Come sottolinea la studiosa Elisa Cuttini, Bonaventura attraverso il verbo reducere vuole «indicare la necessità di riportare una realtà che voglia essere veramente compresa alla fonte dalla quale essa deriva»[8].

Il filosofo francescano vuole, quindi, riportare tutto a quel «Padre dei lumi»[9], di cui parla Giacomo nella sua omonima lettera (1,17) e da cui provengono tutte le cose, comprese le conoscenze, che non sono altro che delle sue illuminazioni. Come infatti afferma Bonaventura nell’apertura del suo opuscolo, è proprio nel Padre dei lumi che «si tocca l’origine d’ogni illuminazione, e insieme si manifesta l’emanar generoso di molteplice lume da quella luce fontale»[10].

 

2.     Le arti

 

Spesso il Medioevo ha avuto la fama di essere il “periodo oscuro” o buio del pensiero filosofico. Invece non è affatto così, dato che si è caratterizzato non solo per un’accettazione autoritativa del dato rivelato, ma anche per aver tentato, con la Scolastica soprattutto, un approccio razionale della rivelazione. Le varie costruzioni sistematiche, che durante questo periodo si sono sviluppate, hanno cercato di penetrare la verità di cui la fede si faceva portatrice. La fede esige di essere compresa. È in questa ottica che si sviluppa anche il pensiero di Bonaventura da Bagnoregio, tutto intento nel mostrare come possano essere considerate ragionevoli anche le verità della dottrina cristiana. La vera philosophia sembrava così essere una sintesi di fede e ragione[11].

In ciò si riassume la tensione tra ragione e fede, tensione che si riversava anche all’interno del mondo accademico di allora, nel quale si aveva la netta distinzione tra una facoltà detta “delle arti liberali” (divisa in trivio e quadrivio) ed una facoltà di teologia. Lo studio delle arti liberali era propedeutico a quello teologico e forniva un’accurata conoscenza filosofica. Il magister artium era infatti, possiamo dire, considerato alla pari di un professore di filosofia[12].

Ma cosa sono e quali sono queste artes liberales  o disciplinae? Esse costituiscono il curriculum degli studi profani. Di loro si trova, secondo gli studiosi, una prima sistematizzazione in un’opera di Marco Terenzio Varrone, i Disciplinarum libri, andati purtroppo perduti[13]. Queste discipline sono sette e sono dette “liberali” in quanto il loro studio era riservato agli uomini che erano liberi, appunto, da impegni materiali. Nel corso della storia furono divise in due ambiti, uno più specificatamente letterario, il trivio, e l’altro più matematico, il quadrivio. Del primo ambito fanno parte la grammatica, la logica o dialettica e la retorica. Del secondo, invece, l’aritmetica, la geometria, la musica e l’astronomia.

La conoscenza delle arti del trivio permetteva allo studente di possedere quei principi che regolavano il linguaggio umano permettendogli di esprimere il vero. La grammatica, infatti, permetteva al discente di avere gli strumenti per formulare un’espressione significante; la logica di distinguere il vero dal falso e di procedere per via argomentativa nelle esposizioni scientifiche. La retorica, invece, faceva acquisire allo studente uno stile persuasivo, in grado di rendere persuasivo l’insegnamento.

Di tutt’altro genere erano le discipline che componevano il quadrivio. Queste erano collegate allo studio del numero in sé come la matematica, legato allo spazio come la geometria, in relazione al tempo e al suono come la musica, o al movimento come l’astronomia. Il quadrivio era considerato nel Medioevo ciò che era la fisica nella sapienza antica ed il suo nome è dovuto ad un suggerimento del filosofo Boezio[14].

Il ruolo delle artes divenne nel corso del Medioevo sempre più importante in quanto erano portatrici della totalità del pensiero filosofico e sostenitrici di quella vera philosophia che si mostrava essere come la sintesi di fede e ragione. Grazie ad esse era possibile analizzare il linguaggio in cui era composto il testo biblico, le sue argomentazioni logiche. Come annota Giulio d’Onofrio esse erano spesso identificate allegoricamente da alcuni autori come Cassiodoro alle sette colonne, di cui ci parla il libro dei Proverbi (9,1) poste a sostegno del tempio della Sapienza di Salomone[15]. Questo per indicare che l’intelligenza umana può fare da supporto alla verità divina, anche se non potrà mai sostituirsi ad essa. Essa conosce sempre la verità attraverso un’illuminazione che proviene da Dio, cosa che è presente anche nell’opuscolo di  Bonaventura.

L’esigenza di spiegare la parola di Dio e di difenderla contro eventuali attacchi e contestazioni implica, d’altra parte, che il teologo faccia ricorso agli strumenti concettuali che il sapere profano mette a sua disposizione. Che le discipline filosofiche aiutino l’anima a contemplare la Trinità divina, è affermato in modo assai chiaro nell’Itinerarium; ma è soprattutto nella De reductione che il contesto teorico giustifica la pretesa bonaventuriana di annoverare tali discipline tra le sorgenti di luce che elevano l’uomo a Dio. L’incipit dell’opera – un versetto dell’epistola di Giacomo utilizzato come abbiamo visto anche altre volte da Bonaventura – chiarisce infatti come ogni realtà sia espressione della luce divina e quindi in grado di indirizzare ad essa. Se la sapienza di Dio è diffusa in tutte le creature, in conformità del loro grado di perfezione ontologica, è nella Scrittura che essa si rivela nel modo più alto e compiuto. Anzi, dopo il peccato di Adamo ed il conseguente indebolirsi nell’uomo della capacità di leggere nelle realtà sensibili gli invisibilia Dei, la Scrittura è divenuta l’unica via d’accesso al creato.

Ricondurre tutte le conoscenze e le artes umane alla teologia e, mediante questa, alla Scrittura, equivale quindi ad evidenziare le potenzialità espressive che esse possiedono e la loro capacità di rinviare, al di là delle realtà fenomeniche che costituiscono il loro proprio oggetto, ai contenuti della sapientia Dei racchiusa nel triplice senso spirituale (allegorico, tropologico, anagogico) della Bibbia. In  ognuna di esse “si esprimono”, infatti, i tre punti  essenziali della rivelazione scritturistica: l’Incarnazione del Verbo; la regola secondo cui vivere; l’unione con Dio dell’anima purificata. L’interpretazione bonaventuriana del sapere umano mostra dunque la chiara sollecitudine del magister francescano di servirsi in modo appropriato delle molteplici risorse che egli ha a disposizione e che deve porre a servizio dell’homo viator nel suo itinerario verso la salvezza. Scrive Bonaventura: «tutte queste cognizioni a quella della sacra scrittura sono ordinate […]. Onde nella cognizione della sacra scrittura deve fondarsi ogni nostra cognizione, e specialmente nell’intelligenza anagogica; per la quale la nostra illuminazione risale a Dio, donde mosse»[16].

 

3.     La teologia

 

L’affermarsi della scienza di ispirazione aristotelica, nel corso della prima metà del secolo XII, aveva imposto, come abbiamo precedentemente notato, anche alla teologia di ripensare e definire in modo rigoroso il proprio statuto epistemologico e le proprie tecniche argomentative, rinunciando alla posizione di aprioristica autosufficienza da sempre rivendicata. Il sapere scientifico dove innalzarsi, secondo Bonaventura, a quello sapienziale, in quanto «il frutto di tutte le scienze è questo, che in tutte s’edifichi la fede, s’onorifichi Dio, si compongano i costumi, s’attingano le consolazioni»[17].

Nuove questioni erano in tal modo entrate di diritto in ambito teologico. Esse concernevano sia la natura, il metodo, l’ambito della teologia; sia il suo rapporto con la filosofia e, più in generale, con le altre artes; sia, infine, il posto che occorreva riservare in essa alla Scrittura. Bonaventura avvertiva il rischio che nei giovani teologi si allentasse il legame del saper teologico nei confronti dei testi biblici, dai quali esso aveva costantemente tratto la materia della propria ricerca. Per questo egli andava compiendo un’analisi puntuale della struttura e del metodo dei testi sacri, la quale gli consentiva di fornire una serie di regole ermeneutiche volte a garantire che essi siano intesi e insegnati in conformità al loro modo di procedere.

Secondo il magister francescano ciò che principalmente caratterizzava la Scrittura era il fatto di non limitarsi a fornire all’uomo un patrimonio di conoscenze, ma di proporsi anche come fonte di orientamento per il suo agire, inclinandone la volontà a bene operare mediante le tecniche argomentative che le sono proprie. Le verità in essa contenute sono, per loro natura, tali da coinvolgere la vita umana nelle sue diverse dimensioni, e da richiedere una risposta impegnata sul piano del concreto esistere e non su quello meramente speculativo; infatti, fine della parola di Dio rivelata dalla Scrittura è che l’uomo divenga migliore e si salvi.

Questo richiamo alla Scrittura aveva lo scopo di evidenziare come in essa si situi il punto di partenza del lavoro teologico. Il discorso sull’uomo, su Dio si fonda, quindi, sul discorso di Dio all’uomo[18]. Partendo dalla Sacra Scrittura il teologo imparava a leggere le perfezioni divine rivelate nell’universo visibile e a decifrare i misteri della vita cristiana celati nelle diverse forme umane di conoscenza. La Scrittura, infatti, insegna che Dio è il primo principio e ne rivela la sua natura e il suo agire nella storia, ed è soprattutto sotto questo profilo che essa è alla base della scienza teologica.

Prima di divenire oggetto di riflessione il dato scritturistico deve essere creduto per fede. Senza soppiantare la fede, lasciandole anzi interamente il merito dell'assenso, la teologia struttura scientificamente il dato della rivelazione per mezzo di un apparato concettuale e dimostrativo.

Ma la reductio artium di cui tratta Bonaventura nel suo breve opuscolo è legata alla teologia, come è scritto nel titolo della sua opera, o alla Sacra Scrittura. Da quando siamo andati fin qui dicendo sembra di più alla seconda, anche perché non si trova mai nel testo l’espressione reductio artium ad theologiam. In fin dei conti, evidenzia la Cuttini, la teologia potrebbe essere vista come la prima tra le scienze solo in relazione al suo oggetto di studio, dato che rimane pur essere una conoscenza umana. Cosa, questa, che non si può dire della Sacra Scrittura, la quale rimanda al valore dell’autorità di Dio rispetto alla realtà umana. Per cui è impossibile credere che il magister francescano abbia optato per una identificazione della teologia con la Sacra Scrittura[19]. Anche perché per Bonaventura, buon interprete di Agostino, la teologia altro non è che l’interpretazione della Sacra Scrittura. Non è però di questo parere Antonio Blasucci, secondo il quale il filosofo francescano potrebbe intendere con il termine “Sacra Scrittura” non solo la verità rivelata ma anche le opere dei teologi. In questo modo si avrebbe un uso “promiscuo” dei termini teologia e Sacra Scrittura[20]. Analizzando il testo si evince comunque che la parola “teologia” compare solo una volta contro le quattordici di “Sacra Scrittura”[21]. Inoltre sembra quasi certo che Bonaventura voglia mettere in contrasto la scienza umana con ciò che non può essere considerato frutto del ragionamento o della ricerca personale, ossia con ciò che è ispirato direttamente da Dio.

Il lume della Sacra Scrittura, il quarto lume trattato nell’opuscolo, è detto dal nostro filosofo superiore, in quanto ha in sé la capacità di guidare il pensiero umano verso ciò che supera la ragione. Ecco perché non è possibile, nel leggere il testo sacro, soffermarsi al solo senso letterale. Esso è il più evidente ma non permette che una conoscenza superficiale di Dio e dei suoi precetti. La Sacra Scrittura, invece, nasconde, secondo Bonaventura, un triplice senso spirituale, ossia quello allegorico, con cui comprendere ciò che si deve credere di Dio e dell’essere umano, morale, con cui capire come si debba vivere, e anagogico, con il quale chiarire come si debba aderire a Dio. Il primo rimanda alla fede, il secondo ai costumi mentre il terzo alla sintesi degli altri due[22].

In alcuni Sermoni scritti per l’Avvento il nostro magister, prendendo spunto dal Paradiso terrestre, sottolinea la differenza esistente tra una comprensione letterale della Sacra Scrittura e una spirituale, attribuendo alla prima l’immagine dell’albero della conoscenza del bene e del male e alla seconda quella dell’albero della vita. Quest’ultimo è identificabile con lo stesso Gesù Cristo e si può accedere a lui tramite una lettura spirituale della Scrittura[23].

La Sacra Scrittura rimanda, allora, il lettore alla illuminazione di gloria, ossia a quella illuminazione che è eterna, in quanto senza fine. Infatti, per Bonaventura,«tutte queste cognizioni a quella della sacra scrittura sono ordinate; e quivi s’inchiudono, si perfezionano, e per mezzo di lei sono ordinate all’illuminazione eterna»[24]. La mente umana, infatti, non riesce, nella sua ricerca filosofica della verità, a cogliere le cause ultime e per questo è costretta a bussare alla porta della teologia e della mistica, ossia a coloro che posseggono la marcia in più del lume della fede alimentato dalla Sacra Scrittura[25]. Quest’ultima, come ovviamente ogni illuminazione che proviene dall’alto, mira, secondo Bonaventura, al compimento della carità.

L’amore, anzi la carità, è stata alla base della dottrina bonaventuriana. Egli, trovandosi a La Verna, scrisse un libro intitolato Itinerario della mente in Dio. In quel libro egli sosteneva che l’intelligenza doveva essere come le ali del Serafino che, proprio a La Verna, era apparso a san Francesco. Ali risplendenti e infiammate: ali risplendenti perché come fuoco di carità doveva essere l’intelligenza del cristiano, non per valere di più, ma per capire e amare di più quelle verità che la mente infiammata scopre salendo verso l’eterna verità che è Dio, infinito amore e assoluta carità.

Quindi, riassumendo, possiamo sostenere che la parzialità delle arti sia per Bonaventura niente altro che il rifrangersi della luce con la quale Dio illumina il mondo: prima del peccato originale Adamo sapeva leggere indirettamente Dio nel Liber Naturae (nel creato), ma la caduta è stata anche perdita di questa capacità. Per aiutare l'uomo nel recupero della contemplazione della somma verità, Dio ha inviato all'uomo il Liber Scripturae, conoscenza supplementare che unifica ed orienta la conoscenza umana, che altrimenti smarrirebbe se stessa nell'autoreferenzialità. Attraverso l'illuminazione della rivelazione, l'intelletto agente è capace di comprendere il riflesso divino delle verità terrene inviate dall'intelletto passivo, quali pallidi riflessi delle verità eterne che Dio perfettamente pensa mediante il Verbo.

 

4.     L’illuminazione

 

Il pensiero di Bonaventura, come si evince in maniera palese dalle pagine del De reductione, è caratterizzata dalla argomentazione della dottrina dell’illuminazione. Secondo Giulio d’Onofrio questa teoria consentirebbe al magister francescano «di accogliere e perfezionare, applicandola nel mondo più adeguato alla verità cristiana, la dottrina filosofica sull’intelletto agente, che è di recepire grazie ad un’informazione illuminativa superiore e fare proprie le regulae fondanti della conoscenza universale dei dati particolari»[26].

La teoria dell’illuminazione risulta, quindi, essere un perno della filosofia bonaventuriana, dato che per il nostro filosofo francescano può essere solo l’illuminazione a garantire l’oggettività della conoscenza[27]. Direbbe a questo punto Étienne Gilson: «Impegniamoci dunque sulla via illuminatrice»[28]; cosa questa che ci apprestiamo a fare anche noi ripercorrendo le pagine del breve opuscolo di Bonaventura.

Fin dalle primissime righe del suo saggio il nostro filosofo distingue quattro lumi come cause della conoscenza in noi della realtà. Elenca così la presenza di un lume esteriore e di uno interiore; di uno inferiore e di uno superiore. Il primo è il lume dell’arte meccanica, il secondo è legato alla conoscenza filosofica, il terzo alla conoscenza dei sensi e l’ultimo alla grazia e alla sacra scrittura[29].

Il lume di arte meccanica è definito esteriore, in quanto fornisce una conoscenza legata a ciò che è artificiale e costruito dall’essere umano e quindi esterno all’uomo. Riprendendo la dottrina di Ugo di san Vittore, Bonaventura inoltre suddivide l’arte meccanica in sette rami, ossia in «Lanificio, Armadura, Agricoltura, Caccia, Navigazione, Teatro e Medicina»[30]. E sottolinea che ognuna di queste arti ha come scopo o il piacere o la comodità dell’essere umano. Il piacere, poiché liberano l’uomo dalla tristezza o dalla povertà; la comodità, in quanto giovano all’uomo. Tra le arti che procurano piacere il nostro filosofo pone il teatro dove la musica, le favole e gli spettacoli dei mimi sono finalizzati a curare la dimensione ludica della vita sociale dell’uomo. Tra quelle che rendono la vita più comoda egli pone, invece, l’attività tessile ed agricola, finalizzate al coprirsi, all’alimentarsi e all’aiuto reciproco. Ma Bonaventura non si ferma qui, cercando anche dentro di queste ultime un ulteriore distinzione. Infatti, egli evidenzia, il nostro modo di coprirsi può avvenire attraverso dei tessuti molli o lisci come la lana o con una materia dura e forte, come le armature. Avremo, quindi, nel primo caso coloro che lavorano la lana e nel secondo caso i fabbri, i quali operano con il ferro, con la pietra e con ogni tipo di metallo. Per quanto concerne l’alimentazione, anche qui si apre una ulteriore distinzione, ossia quella tra gli alimenti vegetali e gli alimenti animali. Nel primo caso l’arte dell’essere umano a cui si fa riferimento è l’agricoltura, mentre nel secondo la caccia. Anche l’attività che è finalizzata all’aiuto reciproco viene suddivisa dal nostro magister secondo due modalità, ossia in quella che sopperisce alle mancanze dell’uomo e in quella che cerca di rimuovere gli ostacoli o le infermità. Al primo tipo appartiene l’arte nautica, che offre un prezioso contributo al commercio e, in particolar modo, a quello tessile ed agricolo; al secondo tipo la medicina, intesa sia come medicina chirurgica sia come medicina farmaceutica[31].

Come abbiamo scritto sopra il secondo lume di cui tratta Bonaventura, in questo circolo delle arti e delle scienze esposto nel suo opuscolo filosofico, è il lume della conoscenza sensibile. Esso è definito dal filosofo francescano “inferiore”, poiché legato alla conoscenza apportata dall’uso dei cinque sensi. Infatti, esplicita il magister seguendo in parte il pensiero di Agostino, se la luce che ci permette di distinguere le cose corporee è nel massimo grado della sua purezza abbiamo la vista; se si interseca con l’aria, l’udito; se con il vapore, l’odorato; con l’umore il palato e con le materie grosse il tatto[32].

Del terzo e del quarto lume, ossia di quello della conoscenza filosofica e di quello inerente la sacra scrittura, non tratto perché già affrontato nelle pagine precedenti e non vorremmo compiere un’inutile, a nostro giudizio, ripetizione di quanto già detto. Abbiamo, infatti, già scritto di come il fondamento della conoscenza sia quella luce divina grazie alla quale vi è la possibilità di porre una relazione tra ciò che è finito e i suoi esemplari divini. È l’idea che si possiede dell’infinito a permettere all’intelletto umano di conoscere ciò che è finito. Ci sembra più opportuno, allora, spendere qualche parola sulla dottrina dell’esemplarismo[33], che fa da sostegno a quella dell’illuminazione.

Questa dottrina riporta il filosofo francescano a riprendere in mano quella che secondo lui è stata la genialità di Platone, il quale, come sostiene d’Onofrio, «ha saputo scoprire la necessità di un intermediario eterno tra le cose visibili e Dio, in cui si riflettessero le leggi eterne fissate con la creazione per la natura e, a un tempo, per la razionalità che indaga»[34].

Riprendendo, quindi, in mano la filosofia platonica, Bonaventura sostiene che in Dio ci sono le Idee, gli archetipi delle realtà finite, i loro modelli. Le cose che noi sperimentiamo sono solo delle similitudini di esse. In questo modo egli fornisce di Dio l’immagine di un creatore artista del quale il mondo non è altro che un libro nel quale sono impresse le tracce della sua presenza. Queste possono essere seguire il modo delle vestigio, se riguardano creature irrazionali, delle immagini, se riguardano creature intellettuali, delle somiglianze, se riguardano creature deiformi. La materia, inoltre, possiede in sé delle rationes seminales[35], che altro non sono se non delle forze intrinseche poste all’interno della materia stessa per guidarne il divenire. Sono la causa “esemplare” appunto che dirige la materia verso quel fine voluto dal Creatore.

In questo modo Bonaventura ha mostrato come il libro della natura possa essere letto in un modo diverso dal filosofo della natura, dallo scienziato, ossia in un modo contemplativo. Non si guarda alla natura per sé, ma si ricercano in essa le orme lasciate impresse in essa da Dio. Se per lo scienziato i fenomeni della natura non sono altro che un qualcosa determinato da leggi necessarie immanenti alla natura stessa, non così per il contemplativo, il quale è mosso da un desiderio sapienziale che lo porta a ricercare nella natura una vera e propria teleologia. In questo modo il mondo non verrebbe più inquadrato solo all’interno della logica dei bisogni dell’essere umano, ma verrebbe osservato secondo la prospettiva della sapienza divina[36]. Per Bonaventura, quindi, non si può ritenere che vi sia una natura autonoma dalla sua radice divina. La ragione naturale può conoscere solo nella misura in cui sia collegata alla luce divina e all’azione della grazia.

 

5.     Christus unus omnium magister[37]

 

Come andavamo deducendo nel precedente paragrafo il cristiano guarda al mondo in maniera differente dal filosofo aristotelico. Quest’ultimo vede la realtà solo come un qualcosa da indagare in quanto generatrice di molteplici curiosità; il cristiano invece legge essa alla luce della rivelazione di Cristo. Così scrive nel De reductione: «dalla mente somma, la quale è conoscibile agl’intimi sensi della mente nostra, uscì ab eterno la similitudine, l’immagine, il Figlio. Il quale poi, venuta la pienezza de’ tempi, s’unì alla mente e alla carne, cioè all’uomo, ch’Egli avea formato e che prima non era: e per mezzo di Lui tutte le menti nostre si riportano a Dio, ricevendo per fede nel cuore quella similitudine del Padre»[38]. Il Cristo è la finalità del cristiano, egli è il medium essentiae divinae e le idee divine presenti nel Verbo increato sono l’exemplum della realtà creata[39]. Per questo motivo secondo Bonaventura non vi è per l’essere umano altro modo per conoscere le cose create e quelle soprannaturali di Gesù Cristo. Lui è l’anello di congiunzione tra la scienza e la sapienza, in quanto è Lui che racchiude in unità il divino e l’umano. Così sottolinea nel De reductione: «somma e nobilissima perfezione nell’universo non può essere, se la natura che ha le ragioni seminali, e la natura che ha le intellettuali, e la natura che ha le ideali, non convengano tutte in una unità di persona: il che fu fatto nell’incarnazione del Figliuolo di Dio»[40]. Proprio per questo motivo si deve guardare alla teologia come alla scienza perfetta. Essa, infatti, è quella che «avvicina più di tutte gli uomini alla Verità e perché è la sola in grado di operare la reductio ad unum del sapere e della volontà»[41].

Lo scopo della teologia è conoscere Cristo, in quanto solo conoscendolo ed amandolo è dato all’essere umano di accedere alla conoscenza della realtà divina e dei progetti di Dio. Cristo, inoltre, è il termine della sacra scrittura, il principio e la fine, «Alfa ed Oméga» di tutte le cose. Quanto stiamo andando affermando ci riporta al concetto di rettitudine, di cui tratta il filosofo francescano al termine del breve opuscolo. Il lume della sacra scrittura, che ci permette di conoscere Cristo, è strettamente connesso con il lume della filosofia morale, il cui scopo è appunto la rettitudine. Se Dio è rettitudine somma, sostiene Bonaventura, poiché è principio e fine di tutte le cose, nonché loro mezzo, altra somma rettitudine consiste nel seguire le norme divine senza deviare. Questo è ciò che spetta all’essere umano. Egli è chiamato a piegare il suo volere al volere di Dio, ossia ai suoi precetti, consigli e monizioni. E l’uomo è capace di questa rettitudine, in quanto cammina in maniera retta, avendo il capo rivolto verso l’alto, verso Dio[42].

Cristo è il solo maestro, per Bonaventura, poiché Lui è il solo pedagogo interiore mediante il quale si comprende la verità, non a partire da un linguaggio razionale, ma da una illuminazione interiore. Abita il profondo della nostra anima e da lì illumina i concetti più oscuri della nostra mente. Scrive von Balthasar commentando il pensiero del Doctor seraphicus: «Tutta la teologia umana si risolve soltanto in ministero reso alla dottrina dell’unico Teologo, e tutti i maestri della cristianità hanno da tendere all’amore conformandosi a questo Maestro, e devono perciò concordare con le sue opinioni»[43].

Secondo Bonaventura tutte le parole dei sapienti provengono in realtà da un’unica voce, quella dell’unico pastore. In Cristo, quindi, tutte le dottrine trovano un’unità, nonostante la presenza di alcuni impedimenti che si frappongono a questa unificazione, tra i quali il magister elenca la presunzione, il dissenso e la disperazione di raggiungere il vero. Questi ostacoli possono, secondo lui, essere rimossi solo da Cristo, in quanto per ogni credente egli è maestro contro ogni presunzione, unico contro ogni dissenso e nostro contro ogni scettico relativismo che porta alla disperazione di giungere alla verità[44]. Per usare un’immagine di Mario Sgarbossa potremmo dire che il Cristo Crocefisso è stata la “biblioteca” nella quale il nostro magister ha appreso tutte queste conoscenze[45], manifestando così tutta la sua spiritualità e figliolanza francescana, caratterizzata da una riflessione filosofica e teologica ampiamente imbevuta di pietà affettiva[46].

Bonaventura, infatti, ha rappresentato nel Medioevo una delle massime espressioni di quel filone di pensiero che fece del cristocentrismo l’orizzonte di comprensione della filosofia e della teologia. Armonizzando fede e ragione, il Doctor seraphicus approdò al primato del Bene, senza porlo mai come alternativa del Vero e dell’Intelletto. Tra gli attributi che il magister francescano usa per riferirsi a Cristo vi sono quelli di “centro” e di “punto medio”. Il Cristo infatti è per lui il punto focale di tutto l’universo, sia fisico sia spirituale; inoltre è anche misura e significato di ogni realtà. La filosofia di Bonaventura, quindi, è caratterizzata da un cristocentrismo che rivela un teocentrismo tipicamente francescano, ossia nel quale l’amore di Cristo porta il filosofo ad avere una particolare attenzione nei confronti dell’umiltà, della povertà, dell’umiliazione e della spoliazione di sé assunte da Cristo per ogni essere umano[47].

 
Conclusione

 

Il passaggio dalla filosofia greca a quella medievale non è stato affatto semplice, in quanto la cultura cristiana ha nutrito verso quella ellenica un sentimento contrastante di amore e di odio. Alla radice del cristianesimo, infatti, vi è la matrice giudaica, la quale avversava in molti aspetti la cultura greca. Basti pensare alle novità che apportava il testo sacro della Bibbia all’interno della cultura umana: la credenza in un unico Dio e in una vita oltre la morte, nonché la promozione di un regno celeste che era destinato ad arrivare in maniera più o meno imminente.

Molti filosofi cristiani, come Bonaventura da Bagnoregio, hanno riletto la filosofia ellenica secondo una chiave di lettura prettamente cristiana, servendosene per cercare di risolvere la questione del rapporto tra la fede e la ragione, ossia tra la teologia e la stessa filosofia. L’opera che abbiamo cercato di analizzare brevemente in queste pagine ne è un classico esempio. Infatti tra i filosofi che seguiranno questo filone compare, insieme ad Anselmo e Tommaso, anche il nostro magister francescano. Egli, come abbiamo cercato di mostrare, ha tentato di portare la fede e la ragione ad una vera conciliazione, guardando alla teologia come ad una vera e propria scienza a partire dalla sua considerazione con la Parola di Dio.

Bonaventura è stato, allora, un costruttore di quella vera philosophia che altro non è se non la sintesi tra fede e ragione. Secondo lui, infatti, non vi può essere mai contraddizione tra la verità perseguita dalla religione e la verità ricercata dalla filosofia, dato che la vera filosofia è la vera religione e viceversa. La verità, infatti, non può essere considerata contraddittoria, in quanto proviene dalla rivelazione di Dio, da cui, come nell’ottica anselmiana del Monologion, proviene l’intelligenza e la fede al tempo stesso. La verità, proprio per questo motivo, non può mai essere contraria alla fede, anzi, come sostiene Pietro Abelardo nella sua Dialectica, è la stessa conoscenza, che, quando è vera, ci conduce vicino alla fede.

Riprendendo la scena evangelica, tanto cara a Scoto Eriugena, di Pietro e Giovanni che corrono verso il sepolcro vuoto commenta Giulio d’Onofrio che «la fede e la religione corrono insieme verso la pagina sacra, nell’intento di penetrare all’interno del suo significato letterale e accostarsi all’unione di divino e umano in Cristo»[48]. Il credere e il comprendere si intrecciano vicendevolmente, tanto che Anselmo tratta di una intelligenza della fede (intellectus fidei) che riprende il circolo ermeneutico agostiniano del credo ut intelligam, intelligo ut credam, sostenuto dall’Ipponate nel 410 in una Epistola a Consenzio. Agostino evidenzia, nell’anno del saccheggio di Roma da parte dei Visigoti, come «la ragione naturale deve essere attivata dal credente sia prima dell’atto di fede, per giustificarlo, sia successivamente, per consolidarne i contenuti»[49]. In questo modo la relazione tra fides e ratio diviene una habitudo, una relazione naturale tramite la quale è possibile attingere all’unica verità. Nella complementarità di fede e ragione, fin dagli inizi della speculazione cristiana, è vista la condizione essenziale per la sopravvivenza della stessa filosofia, che non viene così ridotta ad un mero supporto metodologico per l’orientamento pratico della vita.

Si viene formando in questo modo una christiana doctrina, che grazie all’apporto dei Padri della Chiesa, è in grado di far fronte sia ai dubbi dei credenti che alle insidie poste dagli eretici. La dottrina cristiana è rinforzata, infatti, sia dalla stabilità razionale che dall’origine rivelata delle sue tesi. Il Logos, termine filosofico, penetra all’interno della tradizione cristiana ed i primi predicatori del Vangelo possono, grazie alla terminologia filosofica, intessere dialoghi con le scuole pagane del tempo. Viene riconosciuta allora l’esistenza di due biblioteche, quella facente capo alla letteratura umana e quella propria della letteratura divina, che devono camminare insieme fino al raggiungimento di una sana doctrina, che sia una ed indiscutibile. Boezio, nel saggio scaturito durante la sua carcerazione prima della morte, De Consolatio Philosophiae, afferma che solo il bene supremo a cui porta la filosofia può dare la vera felicità. Egli stesso ci dice che la filosofia è “amore della sapienza”. L’amore della sapienza è l’amore di Dio e «la philosophia christiana può effettivamente aspirare a proporsi come una doctrina compiutamente sistematica, comprensiva, dall’inizio alla fine dei tempi, della verità intera del reale scaturita dall’atto creatore di Dio»[50].

Le pagine del De reductione di Bonaventura lanciano allora una grande provocazione e sfida alla filosofia contemporanea, nel vedere il pensiero come uno strumento di salvezza per l’essere umano di tutti i tempi, grazie al quale è possibile non tanto dichiarare la morte di Dio e dell’uomo, bensì essere condotti per mano fino all’Assoluto[51].

 

Bibliografia

 
1.  Fonti primarie

1.1 Opere di Bonaventura

Della riduzione delle arti alla teologia, Tipografia degli Accattoncelli, Napoli 1868.

Itinerario dell’anima a Dio, Rusconi, Milano 1996.
 

1.2 Altri autori

von Balthasar Hans Urs, Gloria. Un’estetica teologica, Jaca Book, Milano 2001.

 
2.  Letteratura secondaria


2.1           Opere su Bonaventura

2.1.1    Introduzioni generali

Corvino Francesco, Bonaventura da Bagnoregio: francescano e pensatore, Città Nuova, Roma 2006.

 Cuttini Elisa, Ritorno a Dio: filosofia, teologia, etica della mens nel pensiero di Bonaventura di Bagnoregio, Rubbettino, Soveria Mannelli 2002.

 Ratzinger Joseph, San Bonaventura. La teologia della storia, Porziuncola, Assisi 2008.

Sgarbossa Mario, Bonaventura: il teologo della perfetta letizia, Città Nuova, Roma 1997.

 
2.1.2    Temi specifici
 
Bianco Michele, Reditus ad Deum. Filosofia e teologia in san Bonaventura fra preghiera e mistica, Sinestesie, Avellino 2012.

 Blasucci Antonio, “Il De reductione artium ad theologiam: l’uso teologico della filosofia”, in Incontri Bonaventuriani 8 (1973) 25.

 Di Maio Andra, “Cristianesimo in dialogo con i non cristiani. L’approccio ‘testimoniale’ di Francesco e Bonaventura”, in Gregorianum 87 (2006) 762-780.

Mazzarella Pasquale, “L’esemplarismo in Anselmo d’Aosta e in Bonaventura da Bagnoregio”, in Analecta Anselmiana 1 (1969) 145-164.

2.2           Altre opere
 
Aa. Vv., Figure del pensiero medievale. La nuova razionalità. XIII secolo, IV, Jaca Book-Città Nuova, Milano-Roma 2009.

Ciola Nicola, Gesù Cristo Figlio di Dio. I. Vicenda storica e sviluppi della tradizione ecclesiale, Borla, Roma 2012.

d’Onofrio Giulio, Storia del pensiero medievale, Città Nuova, Roma 2011.

Gilson Étienne, La filosofia nel Medioevo. Dalle origini patristiche alla fine del XIV secolo, La Nuova Italia, Scandicci 1973.

Le Goff Jacques, La civiltà dell’Occidente medievale, Einaudi, Torino 1981.

Petriglieri Ignazio, L’avventura della fede. Ovvero l’intellectus fidei tra ragione e ragioni, Armando, Roma 2010.

Reale Giovanni–Antiseri Dario, Il pensiero occidentale dalle origini ad oggi, I, La Scuola, Brescia 1983.




[1] Altri studiosi, infatti, collocano il trattato di Bonaventura verso gli anni 1269-1270, nel periodo in cui si era andata acutizzandosi la disputa con gli averroisti (cfr. Elisa Cuttini, Ritorno a Dio: filosofia, teologia, etica della mens nel pensiero di Bonaventura di Bagnoregio, Rubbettino, Soveria Mannelli 2002, 39).
[2] Cfr. Giulio d’Onofrio, Storia del pensiero medievale, Città Nuova, Roma 2011, 457.
[3] Cfr. Bonaventura da Bagnoregio, Della riduzione delle arti alla teologia, Tipografia degli Accattoncelli, Napoli 1868, 14.
[4] Cfr. Giulio d’Onofrio, Storia del pensiero medievale, 452-453.
[5] Bonaventura da Bagnoregio, Della riduzione, 19.
[6] Giovanni Reale–Dario Antiseri, Il pensiero occidentale dalle origini ad oggi, I, La Scuola, Brescia 1983, 446. Il pensiero di Bonaventura è un esempio di vera philosophia christiana ossia di «una doctrina compiutamente sistematica, comprensiva, dall’inizio alla fine dei tempi, della verità intera del reale scaturita dall’atto creatore di Dio» (Giulio d’Onofrio, Storia del pensiero medievale, 16).
[7] Cfr. Bonaventura da Bagnoregio, Della riduzione, 6.
[8] Elisa Cuttini, Ritorno a Dio, 40.
[9] Bonaventura da Bagnoregio, Della riduzione, 1. È interessante evidenziare come Bonaventura faccia riferimento al Padre della luce anche all’inizio del Prologo dell’Itinerarium, apostrofandolo come “primo Principio”: «All’inizio di questo itinerario, invoco il primo Principio, dal quale, come “Padre della luce”, discende ogni illuminazione spirituale» (Id., Itinerario dell’anima a Dio, Rusconi, Milano 1996, 51).
[10] Ibidem.
[11] Questo pensiero in epoca medievale era molto diffuso. Giovanni Scoto, nel De praedestinatione, identifica la vera philosophia con la vera religio e viceversa; Anselmo di Aosta tratta nel Monologion dell’intellectus fidei. Anche Pietro Abelardo nella Dialectica sostiene che la vera scienza non possa porsi in contrasto con la vera fede. Il Medioevo si avvaleva, infatti, dell’insegnamento dei Padri e vedeva nella rivelazione di Cristo la meta del proprio conoscere. Compito della ragione era quello, quindi, di approfondire il dato rivelato e non tanto di metterlo in crisi.
[12] Bonaventura frequentò a Parigi la Facoltà delle Arti, divenendo egli stesso magister artium nel 1243. Potè, così, proseguire i suoi studi alla Facoltà di Teologia sotto la guida del teologo e filosofo inglese Alessandro di Hales (1185-1245) e di altri maestri come Giovanni della Rochelle (1200-1245), Odo Rigaldi (nato tra il 1200 e il 1215 e morto nel 1275 concepiva la teologia come una scienza composita nella quale entravano in gioco Dio e l’uomo) e Guglielmo di Melitona, alla cui cattedra Bonaventura successe nel 1253. Per un approfondimento rimandiamo a Aa. Vv., Figure del pensiero medievale. La nuova razionalità. XIII secolo, IV, Jaca Book-Città Nuova, Milano-Roma 2009.
[13] Marco Terenzio Varrone è uno scrittore sabino vissuto tra il 116 e il 27 a.C., del quale possediamo quasi nulla delle sue numerosissime opere. Tra di esse i Disciplinarum libri costituiscono una vera e propria enciclopedia in nove libri riguardante le arti liberali, tra le quali figuravano la grammatica, la dialettica, la geometria, l’aritmetica, l’astrologia, la musica, la medicina in forma organica e la manualistica.         
[14] Per un approfondimento rimandiamo a Jacques Le Goff, La civiltà dell’Occidente medievale, Einaudi, Torino 1981, 440-441.
[15] Cfr. Giulio d’Onofrio, Storia del pensiero medievale, 28.
[16] Bonaventura da Bagnoregio, Della riduzione, 8.
[17] Ivi, 19.
[18] Per un’ulteriore analisi di questa prospettiva e per un confronto tra essa e il pensiero di Tommaso e degli averroisti rimandiamo a Michele Bianco, Reditus ad Deum. Filosofia e teologia in san Bonaventura fra preghiera e mistica, Sinestesie, Avellino 2012.
[19] Cfr. Elisa Cuttini, Ritorno a Dio, 44.
[20] Cfr. Antonio Blasucci, “Il De reductione artium ad theologiam: l’uso teologico della filosofia”, in Incontri Bonaventuriani 8 (1973) 25.
[21] Cfr. Elisa Cuttini, Ritorno a Dio, 47.
[22] Cfr. Bonaventura da Bagnoregio, Della riduzione, 7.
[23] Cfr. Joseph Ratzinger, San Bonaventura. La teologia della storia, Porziuncola, Assisi 2008, 204.
[24] Ivi, 8.
[25] Cfr. Mario Sgarbossa, Bonaventura: il teologo della perfetta letizia, Città Nuova, Roma 1997, 64.
[26] Giulio d’Onofrio, Storia del pensiero medievale, 451.
[27] Cfr. Ibidem.
[28] Étienne Gilson, La filosofia nel Medioevo. Dalle origini patristiche alla fine del XIV secolo, La Nuova Italia, Scandicci 1973, 532.
[29] Commenta Gilson a questo proposito: «La grazia è il fondamento di una volontà retta e di una ragione chiaroveggente; dobbiamo quindi dapprima pregare, in seguito vivere santamente, essere finalmente attenti alle verità che si scopriranno, e, contemplandole, elevarci progressivamente fino alla sommità» (ibidem).
[30] Bonaventura da Bagnoregio, Della riduzione, 2.
[31] Cfr. Ivi, 2-3.
[32] Cfr. Ivi, 3-4. Su questa tematica Bonaventura tornerà anche nelle pagine dell’Itinerarium, dove scriverà che «l’uomo, che è detto microcosmo, è dotato di cinque sensi, che costituiscono come cinque porte attraverso le quali penetra nella sua anima la nozione di tutte le realtà del mondo sensibile. Infatti, attraverso la vista entrano in lui i corpi di natura più elevata e luminosi e tutti i colori; attraverso il tatto, invece, i corpi solidi e terrestri; attraverso i tre sensi intermedi, poi, entrano in lui le realtà intermedie, cioè i liquidi attraverso il gusto, i suoni trasmessi dall’aria attraverso l’udito, i vapori attraverso l’olfatto. Questi ultimi sono composti di parti di acqua, di aria, di fuoco e di caldo, come appare chiaro dal fumo che si sprigiona dalle sostanze aromatiche. Attraverso queste porte penetrano quindi nell’anima umana sia i corpi semplici sia i loro composti» (Id., Itinerario dell’anima a Dio, 77).
[33] Per un approfondimento di quanto andremo dicendo rimandiamo a Pasquale Mazzarella, “L’esemplarismo in Anselmo d’Aosta e in Bonaventura da Bagnoregio”, in Analecta Anselmiana 1 (1969) 145-164.
[34] Giulio d’Onofrio, Storia del pensiero medievale, 451.
[35] Con la tesi delle rationes seminales Bonaventura critica la visione aristotelica che concepiva la pura potenzialità della materia. Per il filosofo francescano Dio non è il motore immobile che muove la natura (tesi ripresa anche da Tommaso), bensì colui che la completa.
[36] Cfr. Francesco Corvino, Bonaventura da Bagnoregio: francescano e pensatore, Città Nuova, Roma 2006, 295. Secondo questo studioso il magister francescano avrebbe anticipato la distinzione kantiana tra il giudizio determinante e quello teleologico, per il quale il meccanismo della natura dovrebbe essere subordinato al creatore intelligente del mondo (cfr. Ibidem).
[37] È il titolo del sermone inaugurale della docenza di Bonaventura a Parigi nel 1253.
[38] Bonaventura da Bagnoregio, Della riduzione, 2.
[39] Cfr. Ignazio Petriglieri, L’avventura della fede. Ovvero l’intellectus fidei tra ragione e ragioni, Armando, Roma 2010, 96-97.
[40] Bonaventura da Bagnoregio, Della riduzione, 16.
[41] Ignazio Petriglieri, L’avventura della fede, 97.
[42] Cfr. Bonaventura da Bagnoregio, Della riduzione, 17-18.
[43] Hans Urs von Balthasar, Gloria. Un’estetica teologica, Jaca Book, Milano 2001, 276
[44] Cfr. Andra Di Maio, “Cristianesimo in dialogo con i non cristiani. L’approccio ‘testimoniale’ di Francesco e Bonaventura”, in Gregorianum 87 (2006) 775.
[45] Cfr. Mario Sgarbossa, Bonaventura, 49.
[46] Cfr. Nicola Ciola, Gesù Cristo Figlio di Dio. I. Vicenda storica e sviluppi della tradizione ecclesiale, Borla, Roma 2012, 551.
[47] Cfr. Ivi, 552-554.
[48] Giulio d’Onofrio, Storia del pensiero medievale, 8.
[49] Ibidem.
[50] Ivi, 16.
[51] Non è un caso, infatti, che il papa Leone XIII abbia definito Bonaventura da Bagnoregio come il filosofo ed il teologo che conduce per mano fino a Dio (cfr. Mario Sgarbossa, Bonaventura, 64).