Introduzione
1254-1257:
Bonaventura (al secolo Giovanni di Fidanza), maestro reggente ad scholas fratrum, elaborò quello che è
stato in seguito da molti studiosi definito come uno dei vertici della
produzione teologica bonaventuriana, ossia il De reductione artium ad theologiam. Un opuscolo breve ma assai
denso, che originariamente dovrebbe essere stato un sermone scritto dal magister francescano per gli studenti
dell’Università di Parigi e la cui datazione sembra essere ancora non del tutto
certa.
L’opera,
come vedremo poi più analiticamente nelle pagine che seguono, è suddivisa in
due parti e persegue le solite schematizzazioni bonaventuriane, le quali
posseggono un procedere verticale, graduale e gerarchico. Il tema è quello del
sapere umano, un sapere che è chiamato sempre più a prendere coscienza del suo
non poter fare assolutamente a meno di ciò che si colloca al di sopra di esso,
ossia della theologia.
Il
pericolo da cui Bonaventura vuole mettere in guardia i suoi studenti, in questa
opera come in altre, è dato dall’accontentarsi nel rimanere nei gradini
inferiori della conoscenza, nel considerare la sapienza delle arti, della
filosofia, come il non plus ultra del
sapere stesso. Come sottolinea il professore di Storia della filosofia
medievale Giulio d’Onofrio, il danno peggiore sarebbe per Bonaventura il voler
scadere in una descensio ad philosophiam,
in quanto ciò vorrebbe significare un procedere dall’uno al molteplice, un
rimanere prigionieri di quella terra d’Egitto dove sono nate le arti, il non desiderare
di voler giungere a quella terra promessa, dove abita la teologia.
In
questo nostro breve elaborato cercheremo di entrare all’interno dell’opera di
Bonaventura, cercando di comprendere quali siano state le esigenze che lo hanno
portato ad intraprendere questo trattato, cosa voglia intendere con i termini
che usa e perché questa opera possa essere considerata uno dei vertici del suo
pensiero filosofico e teologico. Tenteremo, poi, alla fine, di mostrare
l’attualità di questa opera confrontandola con il pensiero contemporaneo.
1.
La
reductio
Bonaventura
usa nel suo opuscolo per sette volte il termine re-ducere, con il quale non vuole intendere “ridurre”, “diminuire”,
ma “ricondurre”. La reductium artium,
quindi, non è, per il nostro filosofo francescano un ridurre la filosofia e la
scienza a teologia, quanto, invece, una loro riconduzione a quest’ultima.
L’uomo è così chiamato a risalire con le sue capacità intellettuali verso la
sorgente della sapienza, verso quella verità che è per Bonaventura la Verità
originaria.
Le
scienze umane, che nel XIII secolo erano tutte racchiuse all’interno della
filosofia, dopo il peccato dell’essere umano, sono portatrici di una conoscenza
frammentaria ed indiretta. Una conoscenza che fornisce una visione deforme
della verità. Diviene allora necessario il non potersi fermare alla mera
conoscenza filosofica. Quest’ultima deve imparare ad interloquire con la fede,
ad essere corretta dalla fede, ad essere rafforzata dalla fede. La filosofia
viene vista come ancilla theologiae,
capace di essere portatrice della verità nella misura in cui acconsenta a farsi
ricondurre alla conoscenza superiore data dalla teologia. Bonaventura non vuole
rifiutare o sminuire la conoscenza filosofica, ed in particolare quella
aristotelica, vuole solo ricondurla a quella via superiore che crede che essa
abbia abbandonato, ossia la via della sapienza, proprio della filosofia
platonica. Per fare ciò il filosofo francescano si fa discepolo di Agostino d’Ippona,
da lui definito nell’opuscolo come il “solo verace dottore”.
Infatti, come sintetizza d’Onofrio, per Bonaventura Aristotele si è dedicato
soprattutto a fornire quelli che sono gli strumenti utili alla scienza per
indagare la realtà naturale, ma ha trascurato del tutto l’infinità della verità
trascendente, oggetto del pensiero filosofico di Platone, il quale a sua volta
però ha demolito il linguaggio scientifico. Questi linguaggi in apparenza
sembrano divisi, ma in realtà non lo sono affatto. Essi devono essere ricondotti
alla loro unità originaria, dato che hanno una stessa ed unica origine, lo
Spirito Santo.
Il
ricondurre allora il sapere filosofico, ossia quello fornito dalle arti, al
sapere teologico è lo scopo che ha portato Bonaventura a scrivere queste
pagine, nella certezza che «la multiforme sapienza di Dio […] sta celata in
tutte cognizioni e in tutte nature. Ed ecco altresì, come tutte le cognizioni
sono ancelle di teologia […], in ogni cosa che senti o che intendi, dentro ci
si occulta esso Dio». Il magister francescano si scontra con una
filosofia orgogliosa di esser via ad altre scienza e non umile nel riconoscersi
capace di sbagliare, di vagare nelle tenebre senza la luce della fede. Una
filosofia che non sa più riconoscere nel finito una tensione verso l’infinito, verso
quell’Assoluto a cui dovrebbe tendere anche l’essere umano. Una filosofia che
proclama l’autosufficienza assoluta della ragione è, secondo il nostro filosofo
francescano, un pensiero anti-cristiano. La filosofia aristotelica conduce a
questo tipo di pensiero.
Nell’accostarci
a Bonaventura più volte abbiamo sottolineato il fatto che egli è stato un
“filosofo francescano”. Questa caratteristica non è affatto marginale nella sua
ricerca filosofica. Egli è alla ricerca di un pensiero razionale che sostenga la
sua religiosità, il suo misticismo. Egli vuole fare della teologia una scienza,
avente un proprio oggetto e metodo di indagine. Addirittura un sapere superiore
a quello filosofico. Questo traspare anche dall’opuscolo che stiamo prendendo
in esame, in quanto ogni affermazione che in esso viene fatta è sostenuta da
molteplici rationes e condotta in
maniera graduale ed argomentativa. Nulla è detto in maniera “dogmatica”.
La
reductio nasce allora all’interno di
un pensatore che «è un Cristiano che filosofa, e non un filosofo che è anche Cristiano. Bonaventura è un
mistico. Egli guarda il mondo con gli occhi della fede. La ragione è un instrumentum fidei: la ragione legge ciò
che la fede illumina; la ragione è una grammatica scritta con l’alfabeto della
fede».
Nel
De reductione Bonaventura tratta di
quattro lumi, che ci riserviamo di trattare successivamente. Vogliamo ora
soffermarci però sul terzo, ossia quello della conoscenza filosofica. Esso è,
secondo il nostro filosofo, un lume interiore, in quanto indaga le cause
interne e nascoste, attraverso i principi delle discipline e delle verità
naturali che sono posti naturalmente nell’essere umano. Dopo aver tripartito la
conoscenza filosofica in razionale, naturale e morale, Bonaventura passa ad
analizzare le ragioni formali che vengono perseguite dal nostro intelletto nel
giudicare la realtà. Esse possono esser dette ragioni formali, se sono inerenti
alla materia; intellettuali, rispetto
all’anima; ideali, rispetto alla sapienza divina. Delle prime si occupa la
Fisica, delle seconde la Matematica e delle terze la Metafisica. Quest’ultima è
chiamata a conoscere quel principio primo dal quale provengono le ragioni
ideali. Esso è Dio, principio e fine di ogni cosa e la metafisica vi arriva a
partire dal molteplice presente nella realtà fino ad ascendere all’uno. Tra
le varie scienze filosofiche la metafisica si trova quindi ad occupare la
posizione più elevata, ossia quella riguardante la conoscenza di tutti gli enti
che essa stessa riconduce all’unico Principio Primo. Come sottolinea la
studiosa Elisa Cuttini, Bonaventura attraverso il verbo reducere vuole «indicare la necessità di riportare una realtà che
voglia essere veramente compresa alla fonte dalla quale essa deriva».
Il
filosofo francescano vuole, quindi, riportare tutto a quel «Padre dei lumi», di
cui parla Giacomo nella sua omonima lettera (1,17) e da cui provengono tutte le
cose, comprese le conoscenze, che non sono altro che delle sue illuminazioni.
Come infatti afferma Bonaventura nell’apertura del suo opuscolo, è proprio nel
Padre dei lumi che «si tocca l’origine d’ogni illuminazione, e insieme si
manifesta l’emanar generoso di molteplice lume da quella luce fontale».
2.
Le
arti
Spesso
il Medioevo ha avuto la fama di essere il “periodo oscuro” o buio del pensiero
filosofico. Invece non è affatto così, dato che si è caratterizzato non solo
per un’accettazione autoritativa del dato rivelato, ma anche per aver tentato,
con la Scolastica soprattutto, un approccio razionale della rivelazione. Le varie
costruzioni sistematiche, che durante questo periodo si sono sviluppate, hanno
cercato di penetrare la verità di cui la fede si faceva portatrice. La fede
esige di essere compresa. È in questa ottica che si sviluppa anche il pensiero
di Bonaventura da Bagnoregio, tutto intento nel mostrare come possano essere
considerate ragionevoli anche le verità della dottrina cristiana. La vera philosophia sembrava così essere
una sintesi di fede e ragione.
In
ciò si riassume la tensione tra ragione e fede, tensione che si riversava anche
all’interno del mondo accademico di allora, nel quale si aveva la netta
distinzione tra una facoltà detta “delle arti liberali” (divisa in trivio e
quadrivio) ed una facoltà di teologia. Lo studio delle arti liberali era
propedeutico a quello teologico e forniva un’accurata conoscenza filosofica. Il
magister artium era infatti, possiamo
dire, considerato alla pari di un professore di filosofia.
Ma
cosa sono e quali sono queste artes
liberales o disciplinae? Esse costituiscono il curriculum degli studi profani. Di loro si trova, secondo gli
studiosi, una prima sistematizzazione in un’opera di Marco Terenzio Varrone, i Disciplinarum libri, andati purtroppo
perduti.
Queste discipline sono sette e sono dette “liberali” in quanto il loro studio
era riservato agli uomini che erano liberi, appunto, da impegni materiali. Nel
corso della storia furono divise in due ambiti, uno più specificatamente
letterario, il trivio, e l’altro più
matematico, il quadrivio. Del primo
ambito fanno parte la grammatica, la logica o dialettica e la retorica. Del
secondo, invece, l’aritmetica, la geometria, la musica e l’astronomia.
La
conoscenza delle arti del trivio permetteva allo studente di possedere quei
principi che regolavano il linguaggio umano permettendogli di esprimere il
vero. La grammatica, infatti, permetteva al discente di avere gli strumenti per
formulare un’espressione significante; la logica di distinguere il vero dal
falso e di procedere per via argomentativa nelle esposizioni scientifiche. La
retorica, invece, faceva acquisire allo studente uno stile persuasivo, in grado
di rendere persuasivo l’insegnamento.
Di
tutt’altro genere erano le discipline che componevano il quadrivio. Queste
erano collegate allo studio del numero in sé come la matematica, legato allo
spazio come la geometria, in relazione al tempo e al suono come la musica, o al
movimento come l’astronomia. Il quadrivio era considerato nel Medioevo ciò che
era la fisica nella sapienza antica ed il suo nome è dovuto ad un suggerimento
del filosofo Boezio.
Il
ruolo delle artes divenne nel corso
del Medioevo sempre più importante in quanto erano portatrici della totalità
del pensiero filosofico e sostenitrici di quella vera philosophia che si mostrava essere come la sintesi di fede e
ragione. Grazie ad esse era possibile analizzare il linguaggio in cui era
composto il testo biblico, le sue argomentazioni logiche. Come annota Giulio
d’Onofrio esse erano spesso identificate allegoricamente da alcuni autori come
Cassiodoro alle sette colonne, di cui ci parla il libro dei Proverbi (9,1) poste a sostegno del tempio della Sapienza di Salomone.
Questo per indicare che l’intelligenza umana può fare da supporto alla verità
divina, anche se non potrà mai sostituirsi ad essa. Essa conosce sempre la
verità attraverso un’illuminazione che proviene da Dio, cosa che è presente
anche nell’opuscolo di Bonaventura.
L’esigenza
di spiegare la parola di Dio e di difenderla contro eventuali attacchi e
contestazioni implica, d’altra parte, che il teologo faccia ricorso agli
strumenti concettuali che il sapere profano mette a sua disposizione. Che le
discipline filosofiche aiutino l’anima a contemplare la Trinità divina, è
affermato in modo assai chiaro nell’Itinerarium;
ma è soprattutto nella De reductione
che il contesto teorico giustifica la pretesa bonaventuriana di annoverare tali
discipline tra le sorgenti di luce che elevano l’uomo a Dio. L’incipit
dell’opera – un versetto dell’epistola di Giacomo utilizzato come abbiamo visto
anche altre volte da Bonaventura – chiarisce infatti come ogni realtà sia
espressione della luce divina e quindi in grado di indirizzare ad essa. Se la
sapienza di Dio è diffusa in tutte le creature, in conformità del loro grado di
perfezione ontologica, è nella Scrittura che essa si rivela nel modo più alto e
compiuto. Anzi, dopo il peccato di Adamo ed il conseguente indebolirsi nell’uomo
della capacità di leggere nelle realtà sensibili gli invisibilia Dei, la Scrittura è divenuta l’unica via d’accesso al
creato.
Ricondurre
tutte le conoscenze e le artes umane
alla teologia e, mediante questa, alla Scrittura, equivale quindi ad evidenziare
le potenzialità espressive che esse possiedono e la loro capacità di rinviare,
al di là delle realtà fenomeniche che costituiscono il loro proprio oggetto, ai
contenuti della sapientia Dei
racchiusa nel triplice senso spirituale (allegorico, tropologico, anagogico)
della Bibbia. In ognuna di esse “si
esprimono”, infatti, i tre punti
essenziali della rivelazione scritturistica: l’Incarnazione del Verbo;
la regola secondo cui vivere; l’unione con Dio dell’anima purificata. L’interpretazione
bonaventuriana del sapere umano mostra dunque la chiara sollecitudine del magister francescano di servirsi in modo
appropriato delle molteplici risorse che egli ha a disposizione e che deve
porre a servizio dell’homo viator nel
suo itinerario verso la salvezza. Scrive Bonaventura: «tutte queste cognizioni
a quella della sacra scrittura sono ordinate […]. Onde nella cognizione della
sacra scrittura deve fondarsi ogni nostra cognizione, e specialmente
nell’intelligenza anagogica; per la quale la nostra illuminazione risale a Dio,
donde mosse».
3.
La
teologia
L’affermarsi
della scienza di ispirazione aristotelica, nel corso della prima metà del
secolo XII, aveva imposto, come abbiamo precedentemente notato, anche alla
teologia di ripensare e definire in modo rigoroso il proprio statuto
epistemologico e le proprie tecniche argomentative, rinunciando alla posizione
di aprioristica autosufficienza da sempre rivendicata. Il sapere scientifico
dove innalzarsi, secondo Bonaventura, a quello sapienziale, in quanto «il frutto
di tutte le scienze è questo, che in tutte s’edifichi la fede, s’onorifichi
Dio, si compongano i costumi, s’attingano le consolazioni».
Nuove
questioni erano in tal modo entrate di diritto in ambito teologico. Esse
concernevano sia la natura, il metodo, l’ambito della teologia; sia il suo
rapporto con la filosofia e, più in generale, con le altre artes; sia, infine, il posto che occorreva riservare in essa alla
Scrittura. Bonaventura avvertiva il rischio che nei giovani teologi si
allentasse il legame del saper teologico nei confronti dei testi biblici, dai
quali esso aveva costantemente tratto la materia della propria ricerca. Per
questo egli andava compiendo un’analisi puntuale della struttura e del metodo
dei testi sacri, la quale gli consentiva di fornire una serie di regole
ermeneutiche volte a garantire che essi siano intesi e insegnati in conformità
al loro modo di procedere.
Secondo
il magister francescano ciò che
principalmente caratterizzava la Scrittura era il fatto di non limitarsi a
fornire all’uomo un patrimonio di conoscenze, ma di proporsi anche come fonte
di orientamento per il suo agire, inclinandone la volontà a bene operare
mediante le tecniche argomentative che le sono proprie. Le verità in essa
contenute sono, per loro natura, tali da coinvolgere la vita umana nelle sue
diverse dimensioni, e da richiedere una risposta impegnata sul piano del
concreto esistere e non su quello meramente speculativo; infatti, fine della parola
di Dio rivelata dalla Scrittura è che l’uomo divenga migliore e si salvi.
Questo
richiamo alla Scrittura aveva lo scopo di evidenziare come in essa si situi il
punto di partenza del lavoro teologico. Il discorso sull’uomo, su Dio si fonda,
quindi, sul discorso di Dio all’uomo. Partendo
dalla Sacra Scrittura il teologo imparava a leggere le perfezioni divine
rivelate nell’universo visibile e a decifrare i misteri della vita cristiana
celati nelle diverse forme umane di conoscenza. La Scrittura, infatti, insegna
che Dio è il primo principio e ne rivela la sua natura e il suo agire nella
storia, ed è soprattutto sotto questo profilo che essa è alla base della
scienza teologica.
Prima
di divenire oggetto di riflessione il dato scritturistico deve essere creduto
per fede. Senza soppiantare la fede, lasciandole anzi interamente il merito
dell'assenso, la teologia struttura scientificamente il dato della rivelazione
per mezzo di un apparato concettuale e dimostrativo.
Ma
la reductio artium di cui tratta
Bonaventura nel suo breve opuscolo è legata alla teologia, come è scritto nel
titolo della sua opera, o alla Sacra Scrittura. Da quando siamo andati fin qui
dicendo sembra di più alla seconda, anche perché non si trova mai nel testo
l’espressione reductio artium ad theologiam.
In fin dei conti, evidenzia la Cuttini, la teologia potrebbe essere vista come
la prima tra le scienze solo in relazione al suo oggetto di studio, dato che
rimane pur essere una conoscenza umana. Cosa, questa, che non si può dire della
Sacra Scrittura, la quale rimanda al valore dell’autorità di Dio rispetto alla
realtà umana. Per cui è impossibile credere che il magister francescano abbia optato per una identificazione della
teologia con la Sacra Scrittura.
Anche perché per Bonaventura, buon interprete di Agostino, la teologia altro
non è che l’interpretazione della Sacra Scrittura. Non è però di questo parere
Antonio Blasucci, secondo il quale il filosofo francescano potrebbe intendere
con il termine “Sacra Scrittura” non solo la verità rivelata ma anche le opere
dei teologi. In questo modo si avrebbe un uso “promiscuo” dei termini teologia
e Sacra Scrittura.
Analizzando il testo si evince comunque che la parola “teologia” compare solo
una volta contro le quattordici di “Sacra Scrittura”.
Inoltre sembra quasi certo che Bonaventura voglia mettere in contrasto la
scienza umana con ciò che non può essere considerato frutto del ragionamento o
della ricerca personale, ossia con ciò che è ispirato direttamente da Dio.
Il
lume della Sacra Scrittura, il quarto lume trattato nell’opuscolo, è detto dal
nostro filosofo superiore, in quanto ha in sé la capacità di guidare il
pensiero umano verso ciò che supera la ragione. Ecco perché non è possibile,
nel leggere il testo sacro, soffermarsi al solo senso letterale. Esso è il più
evidente ma non permette che una conoscenza superficiale di Dio e dei suoi
precetti. La Sacra Scrittura, invece, nasconde, secondo Bonaventura, un
triplice senso spirituale, ossia quello allegorico, con cui comprendere ciò che
si deve credere di Dio e dell’essere umano, morale, con cui capire come si
debba vivere, e anagogico, con il quale chiarire come si debba aderire a Dio.
Il primo rimanda alla fede, il secondo ai costumi mentre il terzo alla sintesi
degli altri due.
In
alcuni Sermoni scritti per l’Avvento il nostro magister, prendendo spunto dal Paradiso terrestre, sottolinea la differenza esistente tra
una comprensione letterale della Sacra Scrittura e una spirituale, attribuendo
alla prima l’immagine dell’albero della conoscenza del bene e del male e alla
seconda quella dell’albero della vita. Quest’ultimo è identificabile con lo
stesso Gesù Cristo e si può accedere a lui tramite una lettura spirituale della
Scrittura.
La
Sacra Scrittura rimanda, allora, il lettore alla illuminazione di gloria, ossia
a quella illuminazione che è eterna, in quanto senza fine. Infatti, per
Bonaventura,«tutte queste cognizioni a quella della sacra scrittura sono
ordinate; e quivi s’inchiudono, si perfezionano, e per mezzo di lei sono
ordinate all’illuminazione eterna». La
mente umana, infatti, non riesce, nella sua ricerca filosofica della verità, a
cogliere le cause ultime e per questo è costretta a bussare alla porta della
teologia e della mistica, ossia a coloro che posseggono la marcia in più del
lume della fede alimentato dalla Sacra Scrittura.
Quest’ultima, come ovviamente ogni illuminazione che proviene dall’alto, mira,
secondo Bonaventura, al compimento della carità.
L’amore, anzi la carità, è stata alla
base della dottrina bonaventuriana. Egli, trovandosi a La Verna, scrisse un
libro intitolato Itinerario della mente
in Dio. In quel libro egli sosteneva che l’intelligenza doveva essere come
le ali del Serafino che, proprio a La Verna, era apparso a san Francesco. Ali
risplendenti e infiammate: ali risplendenti perché come fuoco di carità doveva
essere l’intelligenza del cristiano, non per valere di più, ma per capire e
amare di più quelle verità che la mente infiammata scopre salendo verso
l’eterna verità che è Dio, infinito amore e assoluta carità.
Quindi,
riassumendo, possiamo sostenere che la parzialità delle arti sia per
Bonaventura niente altro che il rifrangersi della luce con la quale Dio
illumina il mondo: prima del peccato originale Adamo sapeva leggere indirettamente
Dio nel Liber Naturae (nel creato),
ma la caduta è stata anche perdita di questa capacità. Per aiutare l'uomo nel
recupero della contemplazione della somma verità, Dio ha inviato all'uomo il Liber Scripturae, conoscenza
supplementare che unifica ed orienta la conoscenza umana, che altrimenti
smarrirebbe se stessa nell'autoreferenzialità. Attraverso l'illuminazione della
rivelazione, l'intelletto agente è capace di comprendere il riflesso divino
delle verità terrene inviate dall'intelletto passivo, quali pallidi riflessi
delle verità eterne che Dio perfettamente pensa mediante il Verbo.
4.
L’illuminazione
Il pensiero di Bonaventura, come si
evince in maniera palese dalle pagine del De
reductione, è caratterizzata dalla argomentazione della dottrina
dell’illuminazione. Secondo Giulio d’Onofrio questa teoria consentirebbe al magister francescano «di accogliere e
perfezionare, applicandola nel mondo più adeguato alla verità cristiana, la
dottrina filosofica sull’intelletto agente, che è di recepire grazie ad
un’informazione illuminativa superiore e fare proprie le regulae fondanti della conoscenza universale dei dati particolari».
La teoria dell’illuminazione risulta,
quindi, essere un perno della filosofia bonaventuriana, dato che per il nostro
filosofo francescano può essere solo l’illuminazione a garantire l’oggettività
della conoscenza.
Direbbe a questo punto Étienne Gilson: «Impegniamoci dunque sulla via
illuminatrice»;
cosa questa che ci apprestiamo a fare anche noi ripercorrendo le pagine del
breve opuscolo di Bonaventura.
Fin dalle primissime righe del suo
saggio il nostro filosofo distingue quattro lumi come cause della conoscenza in
noi della realtà. Elenca così la presenza di un lume esteriore e di uno
interiore; di uno inferiore e di uno superiore. Il primo è il lume dell’arte
meccanica, il secondo è legato alla conoscenza filosofica, il terzo alla
conoscenza dei sensi e l’ultimo alla grazia e alla sacra scrittura.
Il lume di arte meccanica è definito
esteriore, in quanto fornisce una conoscenza legata a ciò che è artificiale e
costruito dall’essere umano e quindi esterno all’uomo. Riprendendo la dottrina
di Ugo di san Vittore, Bonaventura inoltre suddivide l’arte meccanica in sette
rami, ossia in «Lanificio, Armadura, Agricoltura, Caccia, Navigazione, Teatro e
Medicina».
E sottolinea che ognuna di queste arti ha come scopo o il piacere o la comodità
dell’essere umano. Il piacere, poiché liberano l’uomo dalla tristezza o dalla
povertà; la comodità, in quanto giovano all’uomo. Tra le arti che procurano
piacere il nostro filosofo pone il teatro dove la musica, le favole e gli
spettacoli dei mimi sono finalizzati a curare la dimensione ludica della vita
sociale dell’uomo. Tra quelle che rendono la vita più comoda egli pone, invece,
l’attività tessile ed agricola, finalizzate al coprirsi, all’alimentarsi e
all’aiuto reciproco. Ma Bonaventura non si ferma qui, cercando anche dentro di
queste ultime un ulteriore distinzione. Infatti, egli evidenzia, il nostro modo
di coprirsi può avvenire attraverso dei tessuti molli o lisci come la lana o
con una materia dura e forte, come le armature. Avremo, quindi, nel primo caso
coloro che lavorano la lana e nel secondo caso i fabbri, i quali operano con il
ferro, con la pietra e con ogni tipo di metallo. Per quanto concerne
l’alimentazione, anche qui si apre una ulteriore distinzione, ossia quella tra
gli alimenti vegetali e gli alimenti animali. Nel primo caso l’arte dell’essere
umano a cui si fa riferimento è l’agricoltura, mentre nel secondo la caccia.
Anche l’attività che è finalizzata all’aiuto reciproco viene suddivisa dal
nostro magister secondo due modalità,
ossia in quella che sopperisce alle mancanze dell’uomo e in quella che cerca di
rimuovere gli ostacoli o le infermità. Al primo tipo appartiene l’arte nautica,
che offre un prezioso contributo al commercio e, in particolar modo, a quello
tessile ed agricolo; al secondo tipo la medicina, intesa sia come medicina
chirurgica sia come medicina farmaceutica.
Come abbiamo scritto sopra il secondo
lume di cui tratta Bonaventura, in questo circolo delle arti e delle scienze
esposto nel suo opuscolo filosofico, è il lume della conoscenza sensibile. Esso
è definito dal filosofo francescano “inferiore”, poiché legato alla conoscenza
apportata dall’uso dei cinque sensi. Infatti, esplicita il magister seguendo in parte il pensiero di Agostino, se la luce che
ci permette di distinguere le cose corporee è nel massimo grado della sua
purezza abbiamo la vista; se si interseca con l’aria, l’udito; se con il vapore,
l’odorato; con l’umore il palato e con le materie grosse il tatto.
Del terzo e del quarto lume, ossia di
quello della conoscenza filosofica e di quello inerente la sacra scrittura, non
tratto perché già affrontato nelle pagine precedenti e non vorremmo compiere
un’inutile, a nostro giudizio, ripetizione di quanto già detto. Abbiamo,
infatti, già scritto di come il fondamento della conoscenza sia quella luce
divina grazie alla quale vi è la possibilità di porre una relazione tra ciò che
è finito e i suoi esemplari divini. È l’idea che si possiede dell’infinito a
permettere all’intelletto umano di conoscere ciò che è finito. Ci sembra più
opportuno, allora, spendere qualche parola sulla dottrina dell’esemplarismo, che
fa da sostegno a quella dell’illuminazione.
Questa dottrina riporta il filosofo
francescano a riprendere in mano quella che secondo lui è stata la genialità di
Platone, il quale, come sostiene d’Onofrio, «ha saputo scoprire la necessità di
un intermediario eterno tra le cose visibili e Dio, in cui si riflettessero le
leggi eterne fissate con la creazione per la natura e, a un tempo, per la
razionalità che indaga».
Riprendendo, quindi, in mano la
filosofia platonica, Bonaventura sostiene che in Dio ci sono le Idee, gli
archetipi delle realtà finite, i loro modelli. Le cose che noi sperimentiamo
sono solo delle similitudini di esse. In questo modo egli fornisce di Dio
l’immagine di un creatore artista del quale il mondo non è altro che un libro
nel quale sono impresse le tracce della sua presenza. Queste possono essere
seguire il modo delle vestigio, se
riguardano creature irrazionali, delle immagini,
se riguardano creature intellettuali, delle somiglianze,
se riguardano creature deiformi. La materia, inoltre, possiede in sé delle rationes seminales, che
altro non sono se non delle forze intrinseche poste all’interno della materia
stessa per guidarne il divenire. Sono la causa “esemplare” appunto che dirige
la materia verso quel fine voluto dal Creatore.
In questo modo Bonaventura ha mostrato
come il libro della natura possa essere letto in un modo diverso dal filosofo
della natura, dallo scienziato, ossia in un modo contemplativo. Non si guarda
alla natura per sé, ma si ricercano in essa le orme lasciate impresse in essa
da Dio. Se per lo scienziato i fenomeni della natura non sono altro che un
qualcosa determinato da leggi necessarie immanenti alla natura stessa, non così
per il contemplativo, il quale è mosso da un desiderio sapienziale che lo porta
a ricercare nella natura una vera e propria teleologia. In questo modo il mondo
non verrebbe più inquadrato solo all’interno della logica dei bisogni
dell’essere umano, ma verrebbe osservato secondo la prospettiva della sapienza
divina. Per
Bonaventura, quindi, non si può ritenere che vi sia una natura autonoma dalla
sua radice divina. La ragione naturale può conoscere solo nella misura in cui
sia collegata alla luce divina e all’azione della grazia.
5.
Christus unus omnium magister
Come
andavamo deducendo nel precedente paragrafo il cristiano guarda al mondo in
maniera differente dal filosofo aristotelico. Quest’ultimo vede la realtà solo
come un qualcosa da indagare in quanto generatrice di molteplici curiosità; il
cristiano invece legge essa alla luce della rivelazione di Cristo. Così scrive
nel De reductione: «dalla mente
somma, la quale è conoscibile agl’intimi sensi della mente nostra, uscì ab
eterno la similitudine, l’immagine, il Figlio. Il quale poi, venuta la pienezza
de’ tempi, s’unì alla mente e alla carne, cioè all’uomo, ch’Egli avea formato e
che prima non era: e per mezzo di Lui tutte le menti nostre si riportano a Dio,
ricevendo per fede nel cuore quella similitudine del Padre». Il Cristo è la finalità del cristiano,
egli è il medium essentiae divinae e
le idee divine presenti nel Verbo increato sono l’exemplum della realtà creata. Per
questo motivo secondo Bonaventura non vi è per l’essere umano altro modo per
conoscere le cose create e quelle soprannaturali di Gesù Cristo. Lui è l’anello
di congiunzione tra la scienza e la sapienza, in quanto è Lui che racchiude in
unità il divino e l’umano. Così sottolinea nel De reductione: «somma e nobilissima perfezione nell’universo non
può essere, se la natura che ha le ragioni seminali, e la natura che ha le
intellettuali, e la natura che ha le ideali, non convengano tutte in una unità
di persona: il che fu fatto nell’incarnazione del Figliuolo di Dio». Proprio per questo motivo si deve
guardare alla teologia come alla scienza perfetta. Essa, infatti, è quella che
«avvicina più di tutte gli uomini alla Verità e perché è la sola in grado di
operare la reductio ad unum del
sapere e della volontà».
Lo
scopo della teologia è conoscere Cristo, in quanto solo conoscendolo ed
amandolo è dato all’essere umano di accedere alla conoscenza della realtà
divina e dei progetti di Dio. Cristo, inoltre, è il termine della sacra
scrittura, il principio e la fine, «Alfa ed Oméga» di tutte le cose. Quanto
stiamo andando affermando ci riporta al concetto di rettitudine, di cui tratta il filosofo francescano al termine del
breve opuscolo. Il lume della sacra scrittura, che ci permette di conoscere
Cristo, è strettamente connesso con il lume della filosofia morale, il cui
scopo è appunto la rettitudine. Se Dio è rettitudine somma, sostiene
Bonaventura, poiché è principio e fine di tutte le cose, nonché loro mezzo,
altra somma rettitudine consiste nel seguire le norme divine senza deviare.
Questo è ciò che spetta all’essere umano. Egli è chiamato a piegare il suo
volere al volere di Dio, ossia ai suoi precetti, consigli e monizioni. E l’uomo
è capace di questa rettitudine, in quanto cammina in maniera retta, avendo il
capo rivolto verso l’alto, verso Dio.
Cristo
è il solo maestro, per Bonaventura, poiché Lui è il solo pedagogo interiore
mediante il quale si comprende la verità, non a partire da un linguaggio
razionale, ma da una illuminazione interiore. Abita il profondo della nostra
anima e da lì illumina i concetti più oscuri della nostra mente. Scrive von
Balthasar commentando il pensiero del Doctor
seraphicus: «Tutta la teologia umana si risolve soltanto in ministero reso
alla dottrina dell’unico Teologo, e tutti i maestri della cristianità hanno da
tendere all’amore conformandosi a questo Maestro, e devono perciò concordare
con le sue opinioni».
Secondo
Bonaventura tutte le parole dei sapienti provengono in realtà da un’unica voce,
quella dell’unico pastore. In Cristo, quindi, tutte le dottrine trovano
un’unità, nonostante la presenza di alcuni impedimenti che si frappongono a
questa unificazione, tra i quali il magister
elenca la presunzione, il dissenso e la disperazione di raggiungere il
vero. Questi ostacoli possono, secondo lui, essere rimossi solo da Cristo, in
quanto per ogni credente egli è maestro contro
ogni presunzione, unico contro ogni
dissenso e nostro contro ogni
scettico relativismo che porta alla disperazione di giungere alla verità. Per
usare un’immagine di Mario Sgarbossa potremmo dire che il Cristo Crocefisso è
stata la “biblioteca” nella quale il nostro magister
ha appreso tutte queste conoscenze,
manifestando così tutta la sua spiritualità e figliolanza francescana,
caratterizzata da una riflessione filosofica e teologica ampiamente imbevuta di
pietà affettiva.
Bonaventura,
infatti, ha rappresentato nel Medioevo una delle massime espressioni di quel
filone di pensiero che fece del cristocentrismo l’orizzonte di comprensione
della filosofia e della teologia. Armonizzando fede e ragione, il Doctor seraphicus approdò al primato del
Bene, senza porlo mai come alternativa del Vero e dell’Intelletto. Tra gli
attributi che il magister francescano
usa per riferirsi a Cristo vi sono quelli di “centro” e di “punto medio”. Il
Cristo infatti è per lui il punto focale di tutto l’universo, sia fisico sia
spirituale; inoltre è anche misura e significato di ogni realtà. La filosofia
di Bonaventura, quindi, è caratterizzata da un cristocentrismo che rivela un
teocentrismo tipicamente francescano, ossia nel quale l’amore di Cristo porta
il filosofo ad avere una particolare attenzione nei confronti dell’umiltà,
della povertà, dell’umiliazione e della spoliazione di sé assunte da Cristo per
ogni essere umano.
Conclusione
Il
passaggio dalla filosofia greca a quella medievale non è stato affatto
semplice, in quanto la cultura cristiana ha nutrito verso quella ellenica un
sentimento contrastante di amore e di odio. Alla radice del cristianesimo,
infatti, vi è la matrice giudaica, la quale avversava in molti aspetti la
cultura greca. Basti pensare alle novità che apportava il testo sacro della
Bibbia all’interno della cultura umana: la credenza in un unico Dio e in una
vita oltre la morte, nonché la promozione di un regno celeste che era destinato
ad arrivare in maniera più o meno imminente.
Molti
filosofi cristiani, come Bonaventura da Bagnoregio, hanno riletto la filosofia
ellenica secondo una chiave di lettura prettamente cristiana, servendosene per
cercare di risolvere la questione del rapporto tra la fede e la ragione, ossia
tra la teologia e la stessa filosofia. L’opera che abbiamo cercato di
analizzare brevemente in queste pagine ne è un classico esempio. Infatti tra i
filosofi che seguiranno questo filone compare, insieme ad Anselmo e Tommaso,
anche il nostro magister francescano.
Egli, come abbiamo cercato di mostrare, ha tentato di portare la fede e la
ragione ad una vera conciliazione, guardando alla teologia come ad una vera e
propria scienza a partire dalla sua considerazione con la Parola di Dio.
Bonaventura
è stato, allora, un costruttore di quella vera
philosophia che altro non è se non la sintesi tra fede e ragione. Secondo
lui, infatti, non vi può essere mai contraddizione tra la verità perseguita
dalla religione e la verità ricercata dalla filosofia, dato che la vera
filosofia è la vera religione e viceversa. La verità, infatti, non può essere
considerata contraddittoria, in quanto proviene dalla rivelazione di Dio, da
cui, come nell’ottica anselmiana del Monologion,
proviene l’intelligenza e la fede al tempo stesso. La verità, proprio per
questo motivo, non può mai essere contraria alla fede, anzi, come sostiene
Pietro Abelardo nella sua Dialectica,
è la stessa conoscenza, che, quando è vera, ci conduce vicino alla fede.
Riprendendo
la scena evangelica, tanto cara a Scoto Eriugena, di Pietro e Giovanni che
corrono verso il sepolcro vuoto commenta Giulio d’Onofrio che «la fede e la
religione corrono insieme verso la pagina sacra, nell’intento di penetrare
all’interno del suo significato letterale e accostarsi all’unione di divino e
umano in Cristo».
Il credere e il comprendere si intrecciano vicendevolmente, tanto che Anselmo
tratta di una intelligenza della fede (intellectus
fidei) che riprende il circolo
ermeneutico agostiniano del credo ut
intelligam, intelligo ut credam,
sostenuto dall’Ipponate nel 410 in una Epistola
a Consenzio. Agostino evidenzia, nell’anno del saccheggio di Roma da parte dei
Visigoti, come «la ragione naturale deve essere attivata dal credente sia prima
dell’atto di fede, per giustificarlo, sia successivamente, per consolidarne i
contenuti».
In questo modo la relazione tra fides e
ratio diviene una habitudo, una relazione naturale tramite
la quale è possibile attingere all’unica verità. Nella complementarità di fede
e ragione, fin dagli inizi della speculazione cristiana, è vista la condizione
essenziale per la sopravvivenza della stessa filosofia, che non viene così
ridotta ad un mero supporto metodologico per l’orientamento pratico della vita.
Si
viene formando in questo modo una christiana
doctrina, che grazie all’apporto dei Padri della Chiesa, è in grado di far
fronte sia ai dubbi dei credenti che alle insidie poste dagli eretici. La
dottrina cristiana è rinforzata, infatti, sia dalla stabilità razionale che
dall’origine rivelata delle sue tesi. Il Logos,
termine filosofico, penetra all’interno della tradizione cristiana ed i primi
predicatori del Vangelo possono, grazie alla terminologia filosofica, intessere
dialoghi con le scuole pagane del tempo. Viene riconosciuta allora l’esistenza
di due biblioteche, quella facente capo alla letteratura umana e quella propria
della letteratura divina, che devono camminare insieme fino al raggiungimento
di una sana doctrina, che sia una ed
indiscutibile. Boezio, nel saggio scaturito durante la sua carcerazione prima
della morte, De Consolatio Philosophiae,
afferma che solo il bene supremo a cui porta la filosofia può dare la vera
felicità. Egli stesso ci dice che la filosofia è “amore della sapienza”.
L’amore della sapienza è l’amore di Dio e «la philosophia christiana può effettivamente aspirare a proporsi come
una doctrina compiutamente
sistematica, comprensiva, dall’inizio alla fine dei tempi, della verità intera
del reale scaturita dall’atto creatore di Dio».
Le
pagine del De reductione di
Bonaventura lanciano allora una grande provocazione e sfida alla filosofia
contemporanea, nel vedere il pensiero come uno strumento di salvezza per l’essere
umano di tutti i tempi, grazie al quale è possibile non tanto dichiarare la
morte di Dio e dell’uomo, bensì essere condotti per mano fino all’Assoluto.
Bibliografia
1. Fonti primarie
1.1
Opere di Bonaventura
Della
riduzione delle arti alla teologia, Tipografia degli
Accattoncelli, Napoli 1868.
Itinerario
dell’anima a Dio, Rusconi, Milano 1996.
1.2 Altri autori
von Balthasar Hans Urs, Gloria. Un’estetica teologica, Jaca Book,
Milano 2001.
2. Letteratura secondaria
2.1
Opere su Bonaventura
2.1.1 Introduzioni
generali
Corvino
Francesco, Bonaventura da Bagnoregio:
francescano e pensatore, Città Nuova, Roma 2006.
Cuttini
Elisa, Ritorno a Dio: filosofia,
teologia, etica della mens nel
pensiero di Bonaventura di Bagnoregio, Rubbettino, Soveria Mannelli 2002.
Ratzinger
Joseph, San Bonaventura. La teologia
della storia, Porziuncola, Assisi 2008.
Sgarbossa
Mario, Bonaventura: il teologo della
perfetta letizia, Città Nuova, Roma 1997.
2.1.2 Temi
specifici
Bianco
Michele, Reditus ad Deum. Filosofia e
teologia in san Bonaventura fra preghiera e mistica, Sinestesie, Avellino
2012.
Blasucci
Antonio, “Il De reductione artium ad
theologiam: l’uso teologico della filosofia”, in Incontri Bonaventuriani 8 (1973) 25.
Di Maio
Andra, “Cristianesimo in dialogo con i non cristiani. L’approccio
‘testimoniale’ di Francesco e Bonaventura”, in Gregorianum 87 (2006) 762-780.
Mazzarella
Pasquale, “L’esemplarismo in Anselmo d’Aosta e in Bonaventura da Bagnoregio”,
in Analecta Anselmiana 1 (1969)
145-164.
2.2
Altre opere
Aa. Vv.,
Figure del pensiero medievale. La nuova
razionalità. XIII secolo, IV, Jaca Book-Città Nuova, Milano-Roma 2009.
Ciola
Nicola, Gesù Cristo Figlio di Dio. I.
Vicenda storica e sviluppi della tradizione ecclesiale, Borla, Roma 2012.
d’Onofrio Giulio, Storia del pensiero medievale, Città Nuova, Roma 2011.
Gilson
Étienne, La filosofia nel Medioevo. Dalle
origini patristiche alla fine del XIV secolo, La Nuova Italia, Scandicci
1973.
Le Goff Jacques, La civiltà dell’Occidente medievale, Einaudi, Torino 1981.
Petriglieri
Ignazio, L’avventura della fede. Ovvero
l’intellectus fidei tra ragione e
ragioni, Armando, Roma 2010.
Reale
Giovanni–Antiseri Dario, Il pensiero occidentale dalle origini ad
oggi, I, La Scuola, Brescia 1983.