di Cristiana Dobner
Si sacrifica l'essenza della fede ogni volta che si smarrisce la convinzione razionale del suo fondamento. La fede viene così ridotta ad essere una cieca credulità (Wolfhart Pannenberg)
mercoledì 2 settembre 2015
Imperativo del creare
Gershom
Scholem, filosofo e studioso di mistica ebraica con metodo
storiografico, aveva conosciuto Martin Buber da universitario, il loro
rapporto fu amichevole ma anche contrastato per le diverse ottiche
filosofiche e di ricerca sull’ebraismo.
Martin Buber
interprete dell’ebraismo (Firenze, Giuntina, 2015, pagine 103, euro 12)
presenta la conferenza di Gershom Scholem nel contesto del colloquio
Eranos del 1966 — «Creazione e formazione» — dedicata al filosofo morto
pochi mesi prima e ritenuto personalità paradigmatica che esprimeva in
pienezza il suo slancio mai dismesso nell’indagare.
«Buber
si è occupato dell’ebraismo nei due periodi che corrispondono,
parimenti, alle sue fatiche di pensatore in generale. Creazione e
formazione rappresentano in entrambi il perno intorno al quale ruota il
suo pensiero. Egli cercava i momenti creativi in cui erano nate le
grandi forme (Gestalten) e faceva di sé il portavoce di ciò che è
vivente, che irrompeva in quei momenti, contro le forme e le
configurazioni che stavano lentamente morendo, e che quali reliquie di
ore grandiose, rivendicavano il nostro timore o la nostra venerazione».
Martin
Buber legge così la storia dell’ebraismo, in cui era stato educato dal
nonno Salomon, profondo conoscitore del midrash — come sottolinea
Francesco Ferrari nella breve ma compiuta introduzione —, alla luce «di
un vero e proprio imperativo che sostanzia la sua ermeneutica culturale e
religiosa: l’imperativo del creare».
Un
chiarimento di linguaggio consentirà di cogliere l’accezione dei
termini: non si tratta di una creatio ex nihilo quanto un ritornare alla
creatività dell’origine che plasma, del Ursprung. «Buber cercava la
trasformazione creativa dell’ebraismo; egli cercava gli elementi, nella
sua storia e nel suo presente, in cui il principio creativo spezza le
forme e cerca una nuova configurazione».
La
speculazione del filosofo, «un ebreo polacco, e che fino alla fine
della sua vita si sarebbe identificato in quanto tale, ricevette
un’educazione permeata di rigorosa tradizione ebraica e di illuminismo
tedesco», poggiava «sulla distinzione fra religione e religiosità». La
fede, individuale, quindi non poteva che essere concepita come
«irruzione dell’ebreo verso se stesso».
Si
apre però in questo modo l’ambito della libertà religiosa e sospinge
Martin Buber «fin da subito, con enfasi, dalla parte degli eretici
dell’ebraismo, e non di quello che in molti dei suoi primi scritti
chiamava ebraismo ufficiale, contrapposto a quello che invece chiamava
ebraismo sotterraneo».
Il
percorso esistenziale di Martin Buber venne formando la sua personalità
di confine, posto sulla soglia, rendendolo esponente di una sintesi fra
Deutschtum e Judentum e propugnatore di una visione del
Kulturzionismus, del sionismo culturale, portando sulla scena del suo
tempo termini e contenuti quali «nuovo ebraismo», «modernità ebraica».
Egli avrebbe «instancabilmente affinato, custodito e sviluppato, fino
alla fine dei suoi giorni, il senso della trasformazione creativa del
fenomeno che era massimamente vicino al suo cuore».
Non
significa però che Martin Buber fosse un ebreo né ortodosso né
praticante, tanto da far sottolineare a Scholem che si era tenuto «a
distanza dalle istituzioni del culto ebraico con assoluta radicalità, al
punto che in quasi trent’anni da lui vissuti in Israele non fu mai
visto da nessuno in una sinagoga». Già negli scritti giovanili infatti
emerge «una profonda avversione nei confronti della Legge e della
Halakhà».
Come però non scorgere una frattura fra il primo e il secondo Buber? Scholem ritiene di poter operare la sintesi.
«I
pensieri del secondo Buber sono intimamente e saldamente legati con
quelli del primo periodo. Per comprendere il processo del sorgere delle
forme e della configurazioni, Buber cerca sempre e ancora il principio
creativo, ed è adesso convinto d’aver trovato il suo “apriti sesamo”
nell’insegnamento dell’Io-Tu e della vita dialogica». A questo filone di
riflessione si deve aggiungere la scoperta del chassidismo che avrebbe
fatto riconoscere in Buber «il primo pensatore ebraico che vide nella
mistica un tratto fondamentale e una tendenza operante continuamente
nell’ebraismo».
Il
filosofo nel 1933, anno terribile per gli ebrei che dette il via alla
furia nazista, tenne un discorso sull’umanesimo biblico. Scholem vi
riconosce l’interpretazione buberiana dell’ebraismo: «L’umanesimo
biblico non può, a differenza di quello occidentale, elevarsi al di
sopra dei problemi dell’istante; desidera educare a una resistenza, a
una confermazione in essi. Non scappiamo da questa notte di tempesta,
dai lampi che balenano, da questa minaccia di rovina nel mondo del
Lògos, nel mondo della forma compiuta, prestiamo ascolto alla parola in
mezzo ai tuoni, obbediamole! Rispondiamole! Questo terribile mondo è il
mondo di Dio. Ti esige. Dai prova di te come uomo di Dio in esso».
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