La situazione attuale che vede migliaia di persone coinvolte
in un fenomeno migratorio di assai vaste proporzioni richiama alla mente
l’arrivo dentro i confini dell’Europa romana di popolazioni diverse che ne
avrebbero mutato il disegno e il destino. In quel caso il fenomeno si connotò
come una vera e propria conquista militare oltre che politica e sociale, oggi
si tratta di uno spostamento pacifico, soggetto a mille difficoltà e a rischi
di viaggio, che per i nostri standard di vita e di mobilità risultano
impensabili. Da una parte genti bellicose, dall’altra popoli mossi più dal
bisogno e dalla necessità di sopravvivere che dalla volontà di dominio. Eppure
questi due momenti storici sono accomunabili nel fatto che entrambi costringono
i contemporanei di oggi come quelli di allora a confrontarsi con l’altro, con
chi non ha una comune storia e tradizione, con chi ha religioni e culture
diverse da quelle solite e collaudate.
Le migrazioni dei popoli del V secolo obbligarono la
«Romania» (con tale termine si indicavano tutti i territori dove si erano
spinte le istituzioni e la civiltà romana) a fare i conti con questo “diverso”
che molto spesso con violenza si faceva avanti e si imponeva con le sue ragioni
d’essere e il suo diritto a esistere. Il sacco di Roma del 410 rappresenta in
tal senso una data decisiva perché si prendesse coscienza della mutata realtà storica.
Si tratta di un momento di discrimine forse maggiore di quello del 476, anno
ufficiale della caduta dell’impero romano d’Occidente. Inoltre la circostanza
che in quel giro di anni si fossero trovati a convivere alcuni tra i più
importanti Padri della Chiesa ha reso sicuramente più facile che rimanesse una
traccia di quegli avvenimenti negli scritti e, soprattutto, ne fosse consegnata
ai posteri una interpretazione.
Girolamo, Agostino, Orosio, Salviano — per rimanere solo ai
maggiori — tutti viventi al tempo della discesa di Alarico, sono interpellati
dai nuovi avvenimenti storici e la loro condizione di uomini di fede e di
cultura li obbliga a dare delle risposte che certamente non potevano essere
banali e liquidatorie nei confronti di un fenomeno che — essi stessi si
accorgevano — avrebbe cambiato il volto e la geografia dell’Europa.
Agostino si distacca
da una interpretazione legata strettamente al contingente. La sua diventa una
riflessione sui mali della storia. L’invito è a trascendere il presente
rovinoso, mediante il distacco dalle cose materiali, e a puntare su altre
realtà di natura spirituale, partecipando in tal modo all’edificazione di
quella città di Dio, la cui proiezione nel mondo, la Chiesa, si conserverà fino
alla fine dei tempi, «sino a quando — scrive, rivelando una posizione nuova che
avrà seguito nella riflessione teologica posteriore — essa abbraccerà tutti i
popoli, inclusi i barbari» (Epistola 93, 9, 31; Patrologia Latina 33, 337).
Per Salviano in un certo senso i barbari vengono a essere
integrati in un sistema che ne fa degli strumenti di Dio per attivare un
processo di conversione degli animi e delle coscienze. Essi partecipano così a
pieno titolo alla storia della salvezza, rientrando anch’essi in quel disegno
provvidenziale che definisce «il modo di governare di Dio».
Come si evince da questa breve esposizione, le risposte che i
Padri della Chiesa propongono di fronte al fenomeno delle migrazioni dei popoli
non sono mai riduttive. L’affacciarsi dell’estraneo, dello straniero obbliga a
delle correzioni di rotta, impone delle svolte e dei mutamenti, rende necessari
degli adattamenti.
di Lucio Coco
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