venerdì 8 gennaio 2016

La sfida delle migrazioni

La situazione attuale che vede migliaia di persone coinvolte in un fenomeno migratorio di assai vaste proporzioni richiama alla mente l’arrivo dentro i confini dell’Europa romana di popolazioni diverse che ne avrebbero mutato il disegno e il destino. In quel caso il fenomeno si connotò come una vera e propria conquista militare oltre che politica e sociale, oggi si tratta di uno spostamento pacifico, soggetto a mille difficoltà e a rischi di viaggio, che per i nostri standard di vita e di mobilità risultano impensabili. Da una parte genti bellicose, dall’altra popoli mossi più dal bisogno e dalla necessità di sopravvivere che dalla volontà di dominio. Eppure questi due momenti storici sono accomunabili nel fatto che entrambi costringono i contemporanei di oggi come quelli di allora a confrontarsi con l’altro, con chi non ha una comune storia e tradizione, con chi ha religioni e culture diverse da quelle solite e collaudate.
Paolo Orosio in una miniatura  del codice  di Saint-Epvre (XI secolo)
Le migrazioni dei popoli del V secolo obbligarono la «Romania» (con tale termine si indicavano tutti i territori dove si erano spinte le istituzioni e la civiltà romana) a fare i conti con questo “diverso” che molto spesso con violenza si faceva avanti e si imponeva con le sue ragioni d’essere e il suo diritto a esistere. Il sacco di Roma del 410 rappresenta in tal senso una data decisiva perché si prendesse coscienza della mutata realtà storica. Si tratta di un momento di discrimine forse maggiore di quello del 476, anno ufficiale della caduta dell’impero romano d’Occidente. Inoltre la circostanza che in quel giro di anni si fossero trovati a convivere alcuni tra i più importanti Padri della Chiesa ha reso sicuramente più facile che rimanesse una traccia di quegli avvenimenti negli scritti e, soprattutto, ne fosse consegnata ai posteri una interpretazione.
Girolamo, Agostino, Orosio, Salviano — per rimanere solo ai maggiori — tutti viventi al tempo della discesa di Alarico, sono interpellati dai nuovi avvenimenti storici e la loro condizione di uomini di fede e di cultura li obbliga a dare delle risposte che certamente non potevano essere banali e liquidatorie nei confronti di un fenomeno che — essi stessi si accorgevano — avrebbe cambiato il volto e la geografia dell’Europa.
Agostino si distacca da una interpretazione legata strettamente al contingente. La sua diventa una riflessione sui mali della storia. L’invito è a trascendere il presente rovinoso, mediante il distacco dalle cose materiali, e a puntare su altre realtà di natura spirituale, partecipando in tal modo all’edificazione di quella città di Dio, la cui proiezione nel mondo, la Chiesa, si conserverà fino alla fine dei tempi, «sino a quando — scrive, rivelando una posizione nuova che avrà seguito nella riflessione teologica posteriore — essa abbraccerà tutti i popoli, inclusi i barbari» (Epistola 93, 9, 31; Patrologia Latina 33, 337).
Per Salviano in un certo senso i barbari vengono a essere integrati in un sistema che ne fa degli strumenti di Dio per attivare un processo di conversione degli animi e delle coscienze. Essi partecipano così a pieno titolo alla storia della salvezza, rientrando anch’essi in quel disegno provvidenziale che definisce «il modo di governare di Dio».
Come si evince da questa breve esposizione, le risposte che i Padri della Chiesa propongono di fronte al fenomeno delle migrazioni dei popoli non sono mai riduttive. L’affacciarsi dell’estraneo, dello straniero obbliga a delle correzioni di rotta, impone delle svolte e dei mutamenti, rende necessari degli adattamenti.
di Lucio Coco

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