«evangelizzatori con Spirito [che] significa evangelizzatori che pregano e lavorano. Dal punto di vista dell’evangelizzazione, non servono né le proposte mistiche senza un forte impegno sociale e missionario, né i discorsi e le prassi sociali e pastorali senza una spiritualità che trasformi il cuore» (n. 262). Sia Teresa sia Francesco usano uno stile molto diretto, sapienziale e testimoniale. E ciò li porta a una visione integrale e globale dell’esperienza cristiana. Teresa è la cronista di una grande avventura interiore, quella vissuta da lei stessa; Francesco, in modo sobrio, lascia intendere che il suo insegnamento non è mai pura teoria, ma che è passato per la “verifica” del suo itinerario interiore, itinerario segnato da un’intensa attività esteriore, che ha però anche avuto il suo tempo di deserto, dopo gli anni come provinciale e come rettore della Facoltà Teologica di San Miguel. Mi riferisco al suo ritiro a Córdoba, tempo di ministero pastorale — soprattutto nel confessionale — e di molta preghiera.
Il Papa ritiene necessario che la missione poggi su una base spirituale e si
pone, e ci pone, un interrogativo dal sapore teresiano, per il suo realismo e
la sua franchezza: «Che amore è quello che non sente la necessità di parlare
della persona amata, di presentarla, di farla conoscere?» (n. 264). E non solo
l’apostolato, ma anche la più alta teologia è stata teologia in ginocchio o,
con termine equivalente, una teologia contemplativa.
A Barcellona, in occasione del recente Congresso internazionale sulla
pastorale delle grandi città, ci siamo confrontati con questo spirito
contemplativo che ci chiede il documento pontificio quando dice: «Abbiamo
bisogno di riconoscere la città a partire da uno sguardo contemplativo, ossia
uno sguardo di fede che scopra quel Dio che abita nelle sue case, nelle sue
strade, nelle sue piazze» (n. 71). Il vero missionario, il vero evangelizzatore
«non smette mai di essere discepolo» (n. 266).
È una verità degna di essere ricordata in questo Anno della vita consacrata;
è un’esistenza che ci ricorda sempre la vita religiosa nella diversità dei suoi
carismi. L’evangelizzazione come azione esteriore deve nascere sempre da
un’esperienza interiore. In Teresa questa esigenza risplende in modo singolare
nella sua contemplazione sempre incentrata sull’umanità di Gesù Cristo.
La contemplazione cristiana è anche attenta al popolo. «Gesù stesso è il
modello di questa scelta evangelizzatrice che ci introduce nel cuore del
popolo» (n. 269). «Gesù vuole che tocchiamo la miseria umana, che tocchiamo la
carne sofferente degli altri» (n. 270). Qui appare quella che è stata
giustamente definita la «mistica degli occhi aperti», così presente nella
recente esperienza latinoamericana, plasmata nel documento di Aparecida, che ha
valorizzato questo sguardo contemplativo del sensus fidei fidelium,
espresso nella teologia del popolo.
Confrontiamolo con un’espressione di santa Teresa: «Darei mille vite per
salvare una sola anima». Lo spirito del Carmelo teresiano è profondamente
missionario e, al tempo stesso, ecclesiale e popolare. Lo spirito teresiano non
è elitario, bensì profondamente popolare. Lei stabilisce un nesso fondamentale tra
la vita contemplativa femminile e la dinamica evangelizzatrice della Chiesa, di
tutta la Chiesa. Con la sua riforma riempie la clausura di echi apostolici.
Vuole che i suoi monasteri siano una sorgente spirituale per il popolo. La sua
passione per la pagina evangelica della samaritana ne è l’espressione.
Teresa voleva una campana nei suoi monasteri o «colombaie della Vergine» —
neanche fosse un modesto cembalo o cembalino! — perché risuonasse per quanti
erano dentro e per quanti stavano fuori. «Vuole che la gente attorno lo sappia,
e vuole che almeno le sue monache lo sappiano; stanno lì per tutti, sono per
tutti».
Di fronte allo scisma della cristianità a seguito della riforma luterana,
Teresa si propone di fare quello che può, malgrado il suo essere donna, poiché
dirà che il mondo tiene le donne abbastanza «rinchiuse». «Vedendomi donna e
dappoco, nonché incapace a essere utile in ciò che avrei voluto a servizio del
Signore, poiché tutta la mia ansia era, come lo è tuttora, che avendo egli
tanti nemici e così pochi amici, decisi di fare quel poco che dipendeva da me.
Decisi cioè di seguire i precetti evangelici con tutta la perfezione possibile
e di adoperarmi perché queste religiose che son qui facessero lo stesso». «I
grandi uomini e donne di Dio sono stati grandi intercessori» (n. 283). Non
possiamo mai stancarci d’intercedere! «Così scopriamo che intercedere non ci
separa dalla vera contemplazione, perché la contemplazione che lascia fuori gli
altri è un inganno» (n. 281). È quella che ho chiamato la «mistica degli occhi
aperti», aperti alla sofferenza dei fratelli.
Tutto ciò si realizza in modo straordinario in Teresa di Gesù, che ci ha
dato la sua personale definizione della orazione come «trattare di amicizia,
stando spesso a trattare in solitudine con Chi sappiamo che ci ama». E dirà
anche che il nucleo essenziale della preghiera «non consiste nel molto pensare,
ma nel molto amare». Teresa chiamerà questa esperienza fondamentale «aver
cominciato a fare orazione». Amore a Dio e orazione in Teresa sono la stessa
cosa: il sole che illumina e riscalda la sua vita, così piena di prove di ogni
tipo che affronterà sempre con una «determinata determinazione».
Tutti gli eventi della sua vita si riflettono nella preghiera come in uno
specchio. Li sottopone tutti alla presenza di Dio e all’illuminazione dello
Spirito Santo. E si mette all’ascolto della voce interiore. Questa è, a mio
parere, la Teresa più importante, la Teresa interiore. Perciò, in questo
centenario teresiano, credo che tutti dobbiamo rendere grazie a Dio «per il
dono di questa grande donna», come dice Papa Francesco nel messaggio rivolto al
vescovo di Ávila, monsignor Jesús García, per l’inizio degli atti del quinto
centenario della nascita della santa.
Mentre ci avviciniamo alla fine di questo quinto centenario, ritengo che
Teresa di Gesù si presenti a noi come un’esimia testimonianza della «forza
missionaria dell’intercessione» (nn. 281-283), ossia della preghiera. Teresa
testimonia che, affinché sia stabile e feconda, la riforma ecclesiale deve
essere preceduta e accompagnata — essendo la sua stessa «anima» — da un
profondo rinnovamento spirituale e interiore. Non è proprio quello che ci
chiede con urgenza Papa Francesco in questo momento della Chiesa e del mondo?
Riferendosi alla famosa frase di san Benedetto, la Evangelii gaudium
invita a essere «evangelizzatori con Spirito [che] significa evangelizzatori
che pregano e lavorano. Dal punto di vista dell’evangelizzazione, non servono
né le proposte mistiche senza un forte impegno sociale e missionario, né i
discorsi e le prassi sociali e pastorali senza una spiritualità che trasformi
il cuore» (n. 262).
Sia Teresa sia Francesco usano uno stile molto diretto, sapienziale e testimoniale.
E ciò li porta a una visione integrale e globale dell’esperienza cristiana.
Teresa è la cronista di una grande avventura interiore, quella vissuta da lei
stessa; Francesco, in modo sobrio, lascia intendere che il suo insegnamento non
è mai pura teoria, ma che è passato per la “verifica” del suo itinerario
interiore, itinerario segnato da un’intensa attività esteriore, che ha però
anche avuto il suo tempo di deserto, dopo gli anni come provinciale e come
rettore della Facoltà Teologica di San Miguel. Mi riferisco al suo ritiro a
Córdoba, tempo di ministero pastorale — soprattutto nel confessionale — e di
molta preghiera.
di Lluís Martínez Sistach
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