mercoledì 31 dicembre 2014

La teologia filosofica nel razionalismo dell'età moderna


Una caratteristica fondamentale della filosofia moderna in rapporto alla teologia filosofica è il fatto che essa si sia posta il problema di Dio. Infatti, secondo Faggiotto, gli autori che dipingono il panorama filosofico dell’età moderna hanno presentato il problema della metafisica, mettendo in questione la stessa indagine metafisica ed evidenziandone i suoi limiti. In questo modo si è messo in discussione Dio stesso, in quanto è l’oggetto più alto della metafisica. Secondo Leonardo Messinese «porre filosoficamente il problema di Dio significa dare una risposta allo scetticismo e all’ateismo del tempo».[1]

Testimone di quanto abbiamo appena detto è proprio il pensiero filosofico cartesiano, il quale sembra seguire la pista scettica per poi divenire, invece, una apologia della fede cristiana contro gli attacchi della scienza meccanicistica. Il problema dell’esistenza o meno di Dio in Cartesio viene posto considerando l’idea innata di Dio che l’essere umano possiede come di una sostanza infinita, eterna, immutabile, indipendente, onnisciente e dalla quale tutto proviene ed è stato creato. Non può essere un’idea soggettiva, in quanto da un essere finito e limitato non può scaturire l’idea di un essere infinito ed illimitato. Inoltre l’esistenza è parte integrale dell’essenza, tanto che è impossibile possedere l’idea di Dio senza ammetterne l’esistenza (prova ontologica anselmiana). La veridicità dell’esistenza di Dio debella ogni possibile demonio ingannatore ed ogni possibile dubbio ed incertezza relativi all’efficacia delle facoltà conoscitive. Dio è il garante delle verità chiare e distinte a cui l’uomo potrà arrivare con la sua ragione. La ragione umana trova così come garante del suo potere conoscitivo Dio stesso pur rimanendo una ragione umana, finita e non divina. Le verità sono eterne perché Dio è immutabile. Quindi per Cartesio il punto di partenza della conoscenza è la ragione, ma, poi, il filosofo tende a Dio non avendo trovato in essa il garante della verità. In questo modo non si comprende se il fondamento del conoscere sia il cogito o Dio.

Malebranche studia assiduamente il pensiero cartesiano trovando molto interessante in esso la distinzione netta tra anima e corpo che egli rilesse grazie al platonismo agostiniano all’interno della spiritualità cristiana. Secondo la sua prospettiva filosofica l’anima possiede la funzione di pensare e di volere, ma è totalmente separata dal corpo. La conoscenza può avvenire, quindi, solamente a partire dalla sua unione immediata e diretta con Dio. Come sostiene Cartesio anche per Malebranche si conoscono solo le idee, dato che gli oggetti rimangono invisibili allo spirito, non potendo interagire con esso. Quello che il soggetto conosce lo conosce in Dio, senza poter cogliere Dio nella sua essenza assoluta. Noi conosciamo i corpi tramite la rivelazione divina. Dio è, quindi, garante ancora una volta del nostro conoscere. La prova dell’esistenza di Dio poggia per questo filosofo sull’infinitudine ed anche per questo filosofo come per Cartesio l’esistenza di Dio è legata alla presenza del suo concetto in noi. Per questo motivo la proposizione “c’è un Dio” è certa quanto la proposizione “penso, dunque sono”. L’infinitezza di Dio porta il filosofo ad una forma di panteismo, nella quale Dio diviene colui che contiene tutto in sé. Egli ha creato l’universo e l’universo è in Dio; Egli è tutto in tutto, è tutto interamente nella sua immensità e tutto interamente in tutti i corpi estesi localmente.

A partire dalla contraddizione cartesiana nel definire la sostanza, per Spinoza Dio è l’unica sostanza, che è causa di se stesso e che deve esistere necessariamente. Le due res cartesiane, che nel filosofo francese erano sostanze, in questo autore vengono considerati come due degli infiniti attributi dell’unica sostanza, che è libera ed eterna. Il Dio spinoziano non possiede però personalità, non ha né volontà né intelletto, ed è libero in quanto legato alla necessità della sua natura. È causa immanente dell’universo e, perciò, è inseparabile dalle sue creature. Nella necessità divina, per il filosofo olandese, vi può essere la radice di ogni certezza così come la ragione di tutto. Nulla esiste che possa essere contingente dato che tutto proviene dalla necessità assoluta di essere propria di Dio. Se il mondo viene definito dal filosofo come natura naturata, Dio è la natura naturans. Spinoza tratta quindi del Deus sive natura secondo una filosofia panteistica, per la quale tutto è manifestazione necessaria di Dio o addirittura Dio stesso. Anche la mente umana, dato che percepisce le cose secondo verità, è parte dell’intelletto infinito di Dio e possiede una conoscenza adeguata dell’essenza eterna ed infinita di Dio. È impossibile dubitare di Dio, secondo Spinoza, a meno che non si abbia di lui una falsa rappresentazione.

Anche nel sistema filosofico leibniziano si nota come Dio assuma un ruolo davvero centrale, tanto che il filosofo ha cercato di offrire varie prove della sua esistenza. Alla domanda sul perché esista qualcosa al posto del niente, Leibniz, facendo riferimento al principio di ragion sufficiente, da lui stesso tematizzato, sostiene che la ragione che spiega l’essere non appartiene al contingente, il quale, a sua volta, ha sempre bisogno di un’altra ragione, ma faccia capo ad una sostanza che sia un essere necessario e causa di se stesso. Per questo motivo Dio è il solo essere necessario che vi sia, il solo essere in cui coincidono essenza ed esistenza. Nelle cose create, invece, l’esistenza è la realizzazione e l’attuazione delle essenze, ossia dei possibili. È sempre Dio, con la sua perfezione, a risolvere l’altro quesito leibniziano sul perché ciò che esiste non possa essere altrimenti. Le cose che sono rispecchiano il miglior modo possibile di essere, perché Dio, Essere perfettissimo, ha scelto il mondo più perfetto di tutti quelli possibili. Nel creare Dio non segue una necessità metafisica come in Spinoza, bensì una necessità morale, che lo conduce a realizzare il miglior mondo possibile (ottimismo leibniziano).

Come abbiamo visto nel razionalismo dell’età moderna si è cercato in gran parte di dimostrare l’esistenza di Dio rendendo quest’ultimo un oggetto di indagine della ragione e rischiando di oltrepassare l’ambito della filosofia per cadere in quello della scienza. Oltretutto Dio non può essere un mero oggetto della ricerca filosofica, in quanto Egli è il Tutto dell’essere e del pensiero[2].

 




[1] Leonardo Messinese, Il problema di Dio nella filosofia moderna, Lateran University Press, Città del Vaticano 2001, 28.
[2] Cfr. Ivi, 48.

martedì 30 dicembre 2014

La critica kantiana alla teologia filosofica


Secondo Kant la teologia filosofica si è avvalsa di tre tipi di argomenti per dimostrare l’esistenza di Dio, fisico-teologico, cosmologico e ontologico, ma la ragione non fa più strada perseguendo un cammino rispetto ad un altro, poiché essa cerca solo invano di elevarsi al di sopra del mondo sensibile servendosi della potenza della speculazione. Con queste parole nella Critica della ragion pura  il filosofo di Königsberg affronta il problema riguardante Dio.

Riguardo all’argomentazione a posteriori o cosmologica Kant riconosce che il nostro intelletto non possiede la capacità di usare i principi sintetici della ragion pura in maniera trascendente invece che immanente per giungere alla conoscenza di un Essere supremo. La stessa legge riguardante la relazione di causalità non può condurci a Dio, poiché è una legge empirica che lo farebbe divenire nient’altro che un oggetto esperibile come tutti i fenomeni.

Per questo motivo potrebbe sembrare più adeguata alla natura non empirica di Dio l’argomentazione detta ontologica o a priori, che consiste in un ragionamento fondato su concetti. In questo modo, però, la questione inerente Dio diviene sintetica e non analitica: essa richiede infatti di affermare l’esistenza di questo Essere supremo a partire al concetto che ne abbiamo. Si richiede allora che la conoscenza del soggetto si possa estendere oltre i limiti dell’esperienza, fino all’esistenza di un essere che dovrebbe corrispondere alla idea che il soggetto possiede di Dio. Rispetto a questa idea nessuna esperienza può dirsi adeguata. Per Kant una conoscenza sintetica a priori di un oggetto è possibile solo nella misura in cui l’oggetto possieda quelle condizioni formali che permettono una sua possibile esperienza. I principi che regolano questa conoscenza hanno un valore immanente, dato che sono inerenti ad oggetti propri della conoscenza empirica. La prova ontologica, che risale ad Anselmo e che Kant riprende da Cartesio e da Leibniz, prevede che al concetto di un essere perfettissimo non possa mancare l’attributo dell’esistenza. Ma l’esistenza è sempre frutto dell’esperienza attraverso l’intuizione e non del solo pensiero. Dall’idea è impossibile dedurre la realtà, per cui la prova ontologica è contradditoria.

Per quello che concerne poi la prova fisico-teologica, questa secondo Kant a partire dall’ordine e dalla finalità presente nel mondo pretende di giungere a provare l’esistenza di una mente perfetta creatrice del cosmo. Questa prova però, secondo il filosofo di Königsberg, deve essere criticata, in quanto dall’esperienza dell’ordine presente nel mondo pretende poi di elevarsi all’idea di una causa trascendente, non tenendo conto del fatto che la causa dell’ordine potrebbe essere immanente alla stesso mondo e alle sue leggi. Questa prova riprensenta, quindi, in qualche modo delle tracce delle argomentazioni precedentemente criticate dal filosofo.

Per questi motivi Kant riprende la sua trattazione di Dio nella Critica della ragion pratica, dove l’Essere supremo diviene il garante necessario messo in gioco dall’uomo nel suo agire morale. L’essere umano, secondo il filosofo, trova la sua piena realizzazione, confacente con la sua dignità, nell’agire morale, consistente nella ricerca della virtù. Da qui la necessità che vi sia un giudice giusto che possa giudicare delle sue azioni, assicurando la felicità, come premio, in un’altra vita. Infatti la ricerca della virtù rende degni di essere felici e l’essere degni di essere felici ma il non poterlo essere è, per il filosofo, una cosa assurda. Da ciò si dimostra l’esigenza di un postulato circa l’esistenza di un mondo intelligibile e di un Dio, il quale sia onnisciente ed onnipotente, che doni ad ognuno una felicità in base ai meriti che ha avuto nel seguire la virtù e la legge morale. Dio diviene allora la ragionevole garanzia dell’esistenza di un sommo bene, di una felicità che è proporzionata alla moralità dell’uomo. Il filosofo di Königsberg tratta di un imperativo categorico, una legge morale fondata sul dovere e sull’essere universale. La formula più appropriata di questa legge morale, “agisci in modo che la massima della tua volontà possa valere sempre, al tempo stesso, come principio di una legislazione universale”, fa comprendere come la volontà personale debba adeguarsi al dovere della legge, che vale proprio perché è universale e privo di eccezioni. L’intenzione di fare il proprio dovere, secondo Kant, deve essere libero da fini secondari, in quanto la legge morale non può essere subordinata al desiderio o al piacere personale. Da questa intenzione si genera allora l’altro postulato della filosofia kantiana, quello dell’immortalità dell’anima. Per riuscire ad ottenere il sommo bene, la massima felicità, ci deve essere per Kant una perfetta adeguatezza della volontà alla legge morale. In questo consiste la santità secondo il filosofo di Königsberg, santità che però non è raggiungibile in questo mondo e che abbisogna di un progresso morale che va all’infinito.

La critica compiuta da Kant, secondo l’esame che ne fa lo stesso filosofo, non vuole danneggiare la fede del popolo, anzi essa vuole essere l’opposto, ossia un aiuto contro l’ateismo, il materialismo e l’incredulità di liberi pensatori. Da questo possiamo comprendere la celebre frase kantiana, «Io ho dovuto sopprimere il sapere per sostituirvi la fede», contenuta nella Critica della ragion pura e che è divenuta una chiave di lettura della stessa teologia filosofica hegeliana, tutta racchiusa tra i termini ‘fede’ e ‘sapere’.

Il pensiero critico kantiano non pone fine alla metafisica, come alcuni pensatori sostengono. Egli, secondo Bontadini, ha semplicemente fatto giustizia di una metafisica dogmatica, che fosse una mera scienza delle cose in sé. Kant ha affermato l’ordine ontologico come ciò che trascende l’idea e nega il valore rappresentativo che è stato assegnato all’idea dalla filosofia razionalista moderna. L’operato di Kant è consistito soprattutto nell’aver voluto smascherare la contraddizione nella quale la metafisica razionalista si è trovata avvinghiata. Per questo motivo troviamo nel filosofo di Königsberg una valorizzazione del compito umanistico della filosofia, che ci fa comprendere come a ragione il Bontadini ha ritenuto riduttivo l’intendere la filosofia kantiana come una semplice fondazione della conoscenza scientifica, trascurando quella eccedenza oltre l’ambito indagato dalla scienza a cui essa ci rimanda.

mercoledì 24 dicembre 2014

Auguri di Natale

Carissimi lettori,

voglio augurare a voi tutti un buonissimo Natale facendovi dono delle parole del teologo protestante Dietrich Bonhoeffer contenute in una lettera dal carcere datata 26 dicembre 1943 ed indirizzata a Renate ed Eberhard Bethge:

"possa Dio rendere forti i vostri cuori e non lasci entrare in essi la tristezza, possa ogni giorno indicarvi i compiti che sono degni d'impegno [...]; possa appianare tutte le vostre vie e riunirvi nella gioia".

Tanti cari auguri!!!

domenica 21 dicembre 2014

Dalla lavagna al rosario: il “mestiere” dell’Insegnante di Religione Cattolica


“La centralità della preghiera” è stato il tema del ritiro spirituale di Avvento organizzato dall’Ufficio diocesano per l’Insegnamento della Religione Cattolica domenica 21 dicembre 2014, dalle ore 9.00 alle 13.00, presso le Suore del Divino Amore di Rieti e guidato dal Vicario Generale Mons. Jaroslaw Krzewicki.

Don Jarek ha definito il “mestiere” dell’Insegnante di Religione Cattolica (IRC) come una vera e propria vocazione, che si nutre e trae la sua forza dal sostegno della preghiera e dei sacramenti. Egli, infatti, è una persona abitata dallo Spirito Santo chiamata ad evangelizzare, ossia ad annunciare il Vangelo, nelle aule delle scuole e non solo a trasmettere dei contenuti dottrinali inerenti la religione cattolica. La vita dell’IRC mira, quindi, ad essere un’esistenza trasfigurata dalla presenza di Dio e alimentata costantemente dalla preghiera. Come sottolinea papa Francesco nell’esortazione apostolica Evangelii gaudium, la preghiera è la linfa che riempie di senso e di audacia l’azione del cristiano, il quale sa di non poter mai fare a meno del “polmone della preghiera” per non rischiare di spegnere il suo fervore, di indebolirsi sotto il peso della stanchezza e delle difficoltà che si possono incontrare.

Ma cosa significa pregare? Come si prega? Quali parole si devono usare? Perché è bene pregare? A queste domande il Vicario ha risposto sottolineando come la preghiera sia un dialogo che avviene a partire da un incontro tra l’essere umano e Dio, nel quale nasce un rapporto di fiducia fra i due. Il mezzo che permette di alimentare e rendere viva e vivificante questa relazione è la preghiera. Ponendosi sulla scia del grande maestro e scrittore alessandrino della prima metà del III secolo d.C., Origene, don Jarek ha così proposto agli IRC un vademecum pratico, suddiviso in tre fasi, della preghiera. Nella prima egli ha detto che il pregare consiste semplicemente nel recitare alcune parole una accanto all’altra, inizialmente in maniera meccanica e poi con sempre maggiore cura ed attenzione. Non è un qualcosa di vano e di inutile o del tempo sprecato, ma è il nostro modo di parlare con Dio soprattutto quando attraversiamo momenti di stanchezza o di turbamento. Nella seconda fase si cerca di concentrarsi sul significato delle parole pronunciate, soffermandosi su di esse e provando a coglierne il contenuto. È possibile e fortemente consigliato sia l’uso di testi biblici, i quali diventino la lingua del pregare e il mezzo di meditazione personale per il dialogo con Dio, sia il rosario, che è il compendio di questo vademecum. Nella terza fase, invece, la preghiera diviene contemplazione. Si raggiunge così il “monte Tabor”, nel quale si percepisce la presenza di Dio e si fa esperienza della bellezza, di quella bellezza che spinge l’orante a ritornare a pregare, a risalire sul monte. Come affermava Origene, il cristiano serra gli occhi dei sensi ed apre quelli dell’anima per sollevarsi al di sopra dell’universo delle sue preoccupazioni. Col pensiero riesce così a raggiungere, guidato dallo Spirito di Dio, una regione iperurania, dove, anche se solo per un attimo, riesce a far salire a Dio la sua preghiera, non cercando nulla di piccolo, ma soltanto quelle cose grandi che avviano sulla strada che porta alla beatitudine.

L’invito rivolto dal Vicario ad ogni IRC è stato quello di trasformare la propria vita in preghiera stando sempre davanti a Dio, nella certezza, come sosteneva Cipriano concludendo il suo commento al Padre Nostro, che nella vita oltre alla morte saremo «destinati a pregare di continuo e a ringraziare sempre Dio».

mercoledì 17 dicembre 2014

Il tempo in Agostino e nel pensiero africano


«Ciò che più arroventa come interrogativo l’uomo è il tempo. Perché l’uomo – a differenza del gatto o di qualsiasi altro esistente – ci vive dentro. E lo sa. Da quando si alza al mattino a quando, solitamente stanco, si corica alla sera. La terribile costante scansione del tempo, poi, insinua nell’uomo un’altra domanda: se esso cesserà, oppure no. Il che significa: l’uomo si domanda continuamente se esista o no il divenire e, qualora esistesse, se esso possa (tra)passare in eternità»[1].

Cos'è il tempo? Cos'è l'eternità? Una questione prettamente filosofica, dato che interpella il pensiero ed il riflettere dell’essere umano. Come afferma Agostino, in una delle pagine più belle delle Confessioni, l’attesa dell’animo, come il suo ricordare e prestare attenzione, le tre forme del tempo, appartengono a tutta la vita dell’uomo, al succedersi delle umane generazioni, composte dalle singole vite degli uomini[2].
Nell’analizzare il concetto di tempo nella cultura africana abbiamo pensato di interrogare due eminenti esponenti di essa, ossia Mbti ed Agostino di Ippona, e vedere come il concetto di tempo appartenga a quella che vien detta la vitalogia africana, basandosi fortemente sul presente e sull’esperienza che di esso fa l’essere umano. Infatti, non si può slegare il tempo dalla vita della popolazione, nemmeno quando esso si declina come futuro o eternità. Vedremo, allora, come poter sostituire ad un calcolo prettamente matematico del tempo una cronologia dei fenomeni, che scandiscono la vita di ogni persona.
Ma il tempo esiste? Esiste il passato, il presente ed il futuro? Oppure

«in realtà il tempo non c’è. Ci ammanta, ci opprime, eppure non c’è. È progetto della mia “temporalizzazione”, progetto da cui nascono tutte le ambivalenze del tempo che sperimentiamo: da un lato è fuggitivo e noi corriamo per superarlo, integrarlo, farne qualcosa, ma nello stesso tempo ci fagocita, ci assorbe; potenza che ci opprime, ci preme»[3].

La nostra riflessione non si fermerà solo a definire le coordinate del tempo, ma cercherà anche di mostrare l’importanza, come sottolineava Kenneth D. Kuanda, di dare redenzione al tempo, cercando di abitare questo ‘spazio’ con responsabilità diventando sempre più coscienti del ruolo che l’essere umano riveste nell’universo[4].

1. Il concetto di tempo nel pensiero africano

1.1 La visione vitalogica del tempo

 

Se volessimo trovare con una battuta la definizione di tempo nella cultura africana, potremmo dire che essa è la vita corrente. Così, infatti, rispose il nobile novantottenne Nkeigbeng della tribù Bangwa del Camerun alla domanda su cosa sia il tempo per lui. Vita, tempo e spazio sono un tutt’uno tra loro, anzi, è la vita stessa che a volte viene chiamata tempo, a volte spazio e altre volte vita[5]. Ci troviamo all’interno di una cultura fortemente legata all’esperienza, al vissuto quotidiano. Una cultura, perciò, in cui la memoria è particolarmente quella visiva, ove la conoscenza si trasmette oralmente e, dove, è assai difficile concepire la realtà del tempo (eleng) senza legarla a quella dello spazio (eliugh). Come sottolinea a questo riguardo Nkafu Nkemnkia, siamo all’interno di un problema prettamente ontologico, così come quello della vita, di Dio, dell’uomo e del cosmo, un problema nel quale vita ed essere si rincorrono fino al punto di divenire inseparabili. La vita nella cultura africana è, in poche parole, «il primo trascendentale che si esprime “nell’elengnel tempo e nell’eliughnello spazio” manifestando così gli infiniti  modi del suo apparire e mutare»[6].
    Proprio all’interno di questa questione metafisica veniamo catapultati sul valore che assume il presente a discapito del passato e del futuro. Infatti, mentre il presente determina il valore della conoscenza, il passato è contenuto all’interno del presente, ed il futuro può appartenere solo all’immaginazione e alla speranza. Esiste, allora, solo il presente ed esso va vissuto in pienezza. Non abbiamo, quindi, la distinzione classica tra presente, passato e futuro, ma ci troviamo in un eterno presente in cui abita un fortissimo desiderio di immortalità[7] ed in cui il tempo che scorre veloce viene considerato come un ‘feticcio’ del Creatore, ossia come una momentanea ed ininterrotta espressione di un Dio che è anche Creatore. Il tempo appartiene, quindi, a Dio e lui stesso lo concede ai viventi perché ne facciano un uso responsabile[8].
     Da ciò si denota quella che si può chiamare la dimensione collettiva del tempo, fortemente legata alle relazioni tra gli individui[9], che riguardano il rapporto con gli altri, con Dio e con il mondo. I rapporti tra gli individui richiedono un lasso di tempo da trascorrere, ma al tempo che passa ci rimanda anche il continuo mutamento del mondo intorno a noi ed anche il mondo oltre noi, ossia quello ultraterreno, appartenente a Dio e agli spiriti. Per la cultura africana quest’ultimo non è un mondo astratto, bensì ci si può relazionare con esso in maniera molto concreta, tramite i riti ed i culti, con parole, preghiere e gesti diversi che confluiscono nella dimensione della festa. Tutto questo avviene logicamente nel tempo.
     È impossibile, quindi, separare la visione del tempo con quella della realtà. Meglio, possiamo giungere alla conoscenza della concezione del tempo solo all’interno della visione africana della realtà, ossia nella vitalogia[10]. La realtà del tempo viene, allora, considerata entro una dimensione ontologica e vitalogica, che punta principalmente sull’essere e sul presente. L’attimo presente, afferma Nkafu Nkemnkia, è l’anticipazione dell’eternità[11],

«si nasce e si muore non già nel passato né in futuro ma nell’attimo presente. Nella dimensione temporale dunque la priorità non è il futuro né il passato ma il presente. Nella contemplazione della realtà c’è unità tra il “prima e il poi” cosicché a nessuno viene in mente di rimandare la gioia e la felicità a un altro momento così come a nessuno è possibile vivere solo della gioia di un tempo passato»[12].
    

Dopo aver brevemente e sommariamente analizzato la concezione del tempo all’interno della logica africana, vogliamo ora soffermarci sulla prospettiva tracciata da uno dei maggiori esponenti della cultura di questa bellissima terra. Mbiti ha cercato di studiare la realtà del tempo all’interno di quella della religione, che impegna l’intera vita dell’essere umano, da prima della nascita fino a dopo la morte. Il vivere, come lui stesso scrive, «significa essere coinvolti in una rappresentazione religiosa. Ciò è fondamentale perché significa che l’uomo vive in un universo religioso. Sia quel mondo che praticamente tutte le attività umane in esso sono percepiti e vissuti attraverso interpretazioni e significati religiosi […]. Gli africani hanno la loro ontologia, ma si tratta di un’ontologia religiosa»[14]. Con l’analisi del concetto di tempo il nostro teologo keniota vuole trovare la chiave di lettura per aprire la porta della comprensione dei concetti filosofici e teologici più basilari della cultura africana.

1.2.1 Il tempo potenziale e il tempo reale


Nella cultura africana il tempo non riveste un grande interesse accademico, poiché con esso si intende, soprattutto,

«una composizione di eventi che hanno avuto luogo, che stanno avvenendo al momento e che devono avvenire inevitabilmente o nel prossimo futuro. Ciò che non ha avuto luogo […] viene incluso nella categoria del “non-tempo”. Ciò che deve avvenire con certezza o è inserito nel ritmo dei fenomeni naturali appartiene alla categoria del tempo potenziale o inevitabile»[15].

Gli eventi futuri appartengono ad un tempo potenziale, mentre il passato ed il presente a quello reale, poiché sono vissuti dagli uomini e, in quanto tali, divengono reali. Il futuro, invece, non rientra nell’esperienza dell’individuo e, siccome non può essere esperito, non acquista un senso reale. Entro questa prospettiva Mbiti spiega la motivazione dell’inesistenza, nel mondo africano, del computo del tempo tramite calendari numerici, sostituiti da altri calendari, detti dei fenomeni: una madre conta i mesi lunari della sua gravidanza così come un viaggiatore per contare i giorni di viaggio si avvale dell’alba del sole e così via. Il tempo ha un significato solo se è collegato ad un evento[16]. Seguendo questa prospettiva Mbiti analizza il giorno, il mese e l’anno segnando una corrispondenza con quelli che sono gli eventi naturali che lo caratterizzano: le ore 6 sono il tempo della mungitura, il mese di ottobre è chiamato ‘Il Sole’, dato che il sole in questo mese è molto caldo, e così via. Il problema maggiore si pone per l’anno, in quanto non si considerano, ovviamente, il numero matematico dei giorni, ma gli eventi: in questo modo un anno potrà avere 350 giorni, mentre un altro 390, ma gli eventi regolari sono sempre fissi e sono quelli che fanno restare costante la lunghezza dell’anno[17].
A questo punto il nostro studioso della sua cultura africana pone la distinzione tra microtempo e macrotempo, a partire dalle parole swahili sasa e zamani. Come commenta Nkafu Nkemnkia, mentre con sasa si vuole indicare ciò che sta per accadere, il futuro prossimo o il passato, con zamani siamo nel futuro incerto e lontano od anche il passato illimitato, il periodo oltre il quale non possiamo procedere, il ‘cimitero del tempo’[18]. Il sasa si proietta nel zamani e il zamani si sovrappone al sasa. Leggiamo le parole di Mbiti, «nel pensiero africano il sasa “ingoia” ciò che nel concetto lineare o occidentale di tempo verrebbe considerato come futuro. Eventi […] nella dimensione sasa devono essere sul punto di accadere, stare per realizzarsi o essere stati vissuti recentemente. Sasa è il periodo più significativo per l’individuo, poiché egli ha un ricordo personale degli eventi o fenomeni oppure sta per viverli e provarli di persona»[19].
Lo zamani è, invece, il macrotempo e non è il solo passato, bensì possiede il proprio passato, presente e futuro. In esso confluisce e scompare il sasa, ossia, quando gli eventi si vanno realizzando, si spostano all’indietro nella dimensione zamani. Mbiti, per differenziare ulteriormente queste due dimensioni del tempo, sostiene che si possa intendere con zamani il periodo del mito, che dona senso al sasa, che può a sua volta essere visto come il periodo del vivere cosciente[20].

1.2.2 Storia e preistoria


«Alla domanda se esiste un futuro al quale tutto tende, Mbiti risponde che nel pensiero africano non esiste il concetto di storia che muova verso un apice culminante nel futuro o verso un certo fine ultimo»[21], dato che la gente non è solita fare dei piani per un futuro lontano, che consisterebbe solamente nel costruire dei castelli in aria. In questo modo, come cercavamo di mostrare nel sottoparagrafo precedente, lo zamani è il tempo che interessa alle persone, che non credono in un mondo che deve venire. In questo modo, Mbiti conclude che storia e preistoria sono dominate dal mito[22], tramite il quale il pensiero africano tenta di offrire una spiegazione della creazione dell’universo, dell’origine dell’uomo. Nascono, allora, tradizioni orali che trascendono la scala temporale matematica, dato che la storia orale non presenta nessuna data da ricordare. Nessun mito o tradizione orale riguarda, invece, la fine del mondo, in quanto

«il tempo non ha fine. I popoli africani si aspettano che la storia umana duri per sempre nel ritmo del movimento dal sasa allo zamani e non esiste nulla che suggerisca come questo ritmo possa giungere al suo termine: giorni, mesi, stagioni e anni non hanno fine, così come non c’è fine nel ritmo di nascita, matrimonio, procreazione e morte»[23].

In questo ritmo ontologico della storia si pone in evidenza come «tutta la vita ha un circolo eterno legato all’esperienza»[24], che esprime molto bene la concezione della vitalogia africana di Nkafu Nkemnkia. La nostra storia ci pone in contatto con esperienze quotidiane usuali (come la procreazione o la vecchiaia, la semina o la raccolta) ed inusuali (come l’eclissi o un parto gemellare), che manifestano come il concetto di tempo sia estremamente legato a ciò che accade nella vita. Per questo, afferma Nkafu Nkemnkia, nella cultura africana «il telos della vita è il vivere poiché […] non si prevede alcun cataclisma […]. Per l’africano, dichiara Mbiti, non esiste l’anno, non esiste uno, due, cinque, settanta o cento. Esiste l’uomo, esiste la vita»[25].

1.2.3 Morte ed immortalità


Vorremmo concludere questo paragrafo dedicato al pensiero di Mbiti, tracciando alcune linee della sua escatologia. Come sostiene il nostro teologo keniota, non solamente la vecchiaia porta al passaggio dal sasa allo zamani, ma anche la morte. Certamente è un passaggio graduale, in quanto dopo la morte della persona, quest’ultima continua ancora ad esistere nella dimensione sasa tramite il ricordo di amici e parenti[26]. Solamente quando muore l’ultimo di coloro che rendono viva e permanente la memoria del defunto, costui è morto veramente ed entra nella dimensione zamani. Fino a che la persona viene chiamata per nome, Mbiti afferma che si ha a che fare con un ‘morto-vivente’, morto fisicamente ma vivo nella memoria della gente. Fino a che questo morto viene reso vivo dai ricordi, esso si trova nello stato di ‘immortalità personale’[27], che si realizza tramite la procreazione e la somiglianza fisica nei figli e nipoti. Dopo la morte dell’ultimo conoscente del defunto costui muore veramente ed entra nello stadio di immortalità collettiva e il processo della morte giunge definitivamente a completezza: il defunto diviene così membro della comunità degli spiriti[28].

2. La prospettiva “vitalogica” di Agostino d’Ippona


In questo capitolo vogliamo analizzare il concetto di tempo che ci offre un eminente esponente della cultura nord africana quale il vescovo di Ippona, Agostino, cercando di ritrovare in lui gli elementi della vitalogia africana delineati nei paragrafi precedenti.
Studiando la prospettiva agostiniana concernente la tematica del tempo non possiamo trascurare quanto il Dottore d’Ippona scrive nelle pagine memorabili delle sue Confessioni, «Che cosa è […] il tempo? Se nessuno me lo chiede, lo so; se dovessi spiegarlo a chi me ne chiede, non lo so: eppure posso affermare con sicurezza di sapere che se nulla passasse, non esisterebbe un passato; se nulla sopraggiungesse, non vi sarebbe un futuro: se nulla esistesse, non vi sarebbe un presente»[29]. Vediamo, allora, di intraprendere l’iter argomentativo seguito dal nostro filosofo.

2.1 Il tempo come questione metafisica


La riflessione tracciata da Agostino sul tempo, nelle Confessioni, segue in particolar modo due binari: da un lato nega l’essere del tempo usando un’argomentazione scettica, mentre dall’altra parte ne riafferma l’essere[30]. La condizione di esistenza del tempo sta tutta nel suo cessare d’esistere, sostiene il Vescovo d’Ippona[31], e, per questo motivo, dovrebbe essere impossibile anche il suo calcolo. Comunque, parliamo lo stesso di tempo lungo o di tempo breve, senza tener conto che non può essere tale ciò che non esiste[32].
Allo stesso modo, però, anche se il tempo non esiste e se di esso non se ne possa calcolare l’estensione, noi abbiamo l’abitudine di raccontare ciò che ricordiamo o riusciamo a volte a predire eventi che si realizzano[33]. Questo perché è soprattutto l’animo a dare senso al tempo tramite delle immagini impresse in esso. Scrive Agostino, a questo proposito, che «quando si raccontano avvenimenti passati veri, non si tiran fuori dalla memoria gli avvenimenti in se stessi, ma espressioni formate dalle loro immagini che si sono impresse a guisa di orme nell’animo per mezzo dei sensi»[34]. La stessa cosa avviene nel predire le cose future.
Nell’animo, quindi, passato e futuro, per esistere, sono allo stato di presente[35] e per questo possono essere conosciuti e misurati. Infatti,

«possiamo misurare il tempo che passa, e lo misuriamo per la percezione che ne abbiamo. Ora, chi può misurare il passato, che non esiste più, o il futuro che non esiste ancora? A meno che uno osi affermare che si può percepire e misurare il non esistente. Dunque si può aver la percezione e misurare il tempo quando sta passando, ma quando è passato non è possibile, perché non esiste»[36].

In questo modo non abbiamo più, secondo Agostino, passato, presente e futuro, ma il presente del passato (ricordo), il presente del presente (prestare attenzione) e il presente del futuro (attesa). Queste tre dimensioni del tempo sono tre forme presenti nell’anima[37]. Essa può essere considerata, in questo modo, lo spazio del tempo e proprio nell’anima, infatti, troviamo l’estensione del tempo. Facciamo parlare lo stesso Dottore d’Ippona con le sue stesse parole,

«L’animo attende, presta attenzione, ricorda […]. Chi potrebbe negare che il futuro non esiste ancora? Ma nell’animo vive l’attesa del futuro. Chi potrebbe negare che il passato non esiste più? Ma nell’animo vive la memoria del passato. E chi negherà che il tempo presente manca di estensione perché non è che un punto transeunte? Ma dura l’attenzione attraverso la quale il futuro tende al passato. Non si può avere dunque un futuro lungo – non esiste ancora -, ma il lungo futuro è la lunga attesa del futuro; non si può avere un passato lungo – non esiste più -, ma il lungo passato è il lungo ricordo del passato»[38].

Nella interiorità dell’animo, inoltre, il tempo perde il carattere di dispersione che ha condotto l’essere umano a rovinare il suo legame originario con Dio, che abita nella sua memoria dal momento in cui l’uomo Lo ha conosciuto[39]. Avviene così la comprensione che esiste un tempo che possieda un inizio e un(a) fine[40] e che può essere anche considerato anticipazione d’eternità.

2.2 Tempo ed eternità


Il tempo come condizione appartenente alle creature è quanto di più certo Agostino possa subito intravedere con la sua ratio. Siamo creature e non siamo il Creatore, siamo mutevoli non eterni ed  il tempo è sempre posto in relazione con un mutamento, con un divenire. In Dio tutto ciò non lo troviamo, poiché è solo e sempre presente, non c’è in Lui un prima o un dopo, è immutabile. Come scrive Cipriani, «La mutabilità è il sigillo indelebile dell’abissale distanza esistente tra il Creatore e le creature, tra la fonte dell’Essere e gli esseri che sono in una certa misura: non si può chiamare propriamente eterno ciò che muta in qualche parte»[41]. La vita dell’uomo è mutabile e contingente, ma è chiamata ad essere eterna proprio all’interno del tempo, che diviene così «lo spazio entro il quale la creatura razionale può meritarsi di partecipare all’eternità beata di Dio»[42].  Quindi, Agostino ci richiama alla mente un disegno di Dio Creatore, che si dispiega proprio nel tempo, che diviene il luogo dove prende dimora l’amore trinitario intervenendo in modi diversi. A questo disegno divino l’uomo può dare il suo assenso o può rispondere con la sua ribellione, comunque è chiamato a mettersi in gioco.
Il tempo, allora, diviene storia, acquista un senso per l’essere umano e non è più soggiogato dalla presenza del fato e del caso, bensì è fortemente legato alla volontà di Dio[43]. Certamente, questa storia si avvale di diversi momenti, in quanto l’uomo è passato da un tempo originario felice, in cui viveva e godeva dell’unione con Dio, della stabilità e della sicurezza, ad un tempo della molteplicità, della instabilità e della incertezza, come lo definisce Cipriani, il seaculum del peccato e della morte[44]. È il tempo della distensio animae[45], ove l’anima subisce la dispersione e la frammentarietà data dalla molteplicità. Come scrive lo stesso Agostino, «la mia vita scorre nell’afflizione […] mi sono dissipato nella successione dei tempi che non conosco: di modo che il mio pensiero, intimo recesso della mia anima, viene smembrato dal tumulto delle vicende, fino a che purgato e sciolto nel fuoco del tuo amore, io mi immergerò in Te»[46].
Questo tempo come distensio animae non è dato dall’unione dell’anima con un corpo corruttibile, tipica concezione di un pensiero platonico, ma è causato dalla nostra scelta di peccato. Per questo il nostro convertirci, per Agostino, è ciò che può permetterci di vivere il tempo della molteplicità senza l’angoscia, bensì nell’attesa del compimento finale. Soltanto aderendo a Cristo il presente molteplice e dispersivo, decrepito ed invecchiato, diviene un tempo di redenzione, segnato dalla grazia e proteso verso l’eternità[47]. Come scrive nelle Confessioni il Vescovo di Ippona,

«[…] più cara che la vita è la tua grazia, e la mia vita è dissipazione, e la tua mano mi ha raccolto nel mio Signore, il Figliuol dell’uomo, mediatore fra Te, l’Unico, e noi […], dimentico del passato, non più rivolto alle cose future e transitorie, ma proteso verso ciò che mi sta davanti, non in dissipazione (secundum distentionem) ma in tensione di spirito (secundum intentionem) – io Lo seguo a cogliere la palma della celeste chiamata, là dove ascolterò il canto delle lodi, contemplerò il tuo gaudio che non ha futuro né passato»[48].

2.2.1 La bellezza come relazione di tempo ed eternità


Analizzando il libro decimo delle Confessioni, Andrea Colli nota una complementarità tra l’eterno/bello ed il tempo, dato che

«l’immediatezza dell’atto percettivo rivela un valore che lo trascende o meglio lo ‘converte’ in un’esperienza di eternità. In questa prospettiva l’itinerario agostiniano non si costituisce come una ‘corsa ad ostacoli’ verso una meta eterna, quanto piuttosto come un continuo e costante approfondimento dell’attrattiva nei confronti delle bellezze mutevoli, in quanto occasione di percezione del bello attraverso le strutture invariabili in essa inscritte»[49].

 Passando all’esame del libro undicesimo, Colli mostra come Agostino, trattando del tempo, accosti alla distentio altri due movimenti, ossia l’intentio e l’extentio, che rispettivamente riguardano una riflessione su di sé, il primo, la possibilità di cogliere gnoseologicamente l’eternità, il secondo[50]. Entrambi questi movimenti non risentono della dispersione del tempo, tanto che Agostino evidenzia la possibilità di associare «al divenire cronologico il mantenimento di un ‘essere sempre se stessi’ (intentio), in base a cui l’io può continuare ad affermare di essere sé, nonostante debba inevitabilmente sottomettersi al decorso temporale»[51].
Nella extentio, invece, si denota la possibilità posta dal filosofo di Ippona di poter elevare la mente umana a Dio. Il pensiero, infatti, è quell’intimo recesso della nostra anima, che viene smembrato dal tumulto delle vicende, fino a che si immerge in Dio purgato e sciolto nel fuoco del suo amore[52]. Nella bellezza noi possiamo scorgere l’eternità, allo stesso tempo l’antico e il nuovo, come Agostino immortala nel celeberrimo passo delle sue Confessioni[53]. Una bellezza che attraversa anche le creature, le «cose belle che Tu hai creato»[54] e sulle quali il nostro filosofo si buttava, una bellezza che poteva essere messa a rischio dalla corruzione del tempo e che ci mostra che Dio è «dove rifulge all’anima mia luce che non ha limiti di spazio, armonia che non svanisce nel tempo, profumo che il vento non disperde, gusto che la voracità non nausea, amplesso che la sazietà non scioglie»[55]. Ecco, allora, che la bellezza eterna passa anche tramite la bellezza, che è stata partecipata alla creature, mostrandoci che l’eternità non si manifesta come una sorta di Deus ex machina, ma venga a costituirsi «all’interno dell’esperienza estetica assumendo la fisicità della bellezza e declinandosi secondo il processo cronologico, senza tuttavia essere vincolato a esso»[56].
La dinamica che lega in maniera intrinseca l’eternità con la bellezza ci mostra la vitalogia di questo autentico filosofo africano, che non si avvale mai di semplici elucubrazioni metafisiche, bensì usa le sue strutture percettive e l’esperienza che da esse si genera. In questo modo anche per il problema estetico ha senso prendere le mosse da quel vissuto temporale in cui esso si manifesta. Come sostiene Colli,
«L’esperienza percettiva della bellezza non è […] ostaggio di una soggettività arbitraria, ma si sottomette a rapporti proporzionali stabili e oggettivi secondo cui le cose si manifestano armoniche, ordinate, unitarie; ed è proprio questa la prospettiva entro cui si svela la relazione tra la bellezza e l’orizzonte cronologico, poiché tutto ciò che diciamo essere, lo diciamo in quanto permane ed è uno, l’unità è la forma di ogni bellezza»[57].

Conclusione


Nella persona il tempo trova la possibilità di innalzarsi ad eternità e diviene un tempo redento. Con l’essere umano, abbiamo avuto modo di vedere, che il tempo è storia, grazie all’apporto della libertà umana, che si fa discontinuità e imprevedibilità nelle scelte e rende il tempo lacerato e frammentario.

Il tempo redento ci apre la via all’eternità, al tempo dell’Eterno. Questo è stato il contributo che Agostino ha portato nel pensiero africano, ossia il vedere nel tempo l’impronta di un fine ultimo, di una bellezza antica e sempre nuova, che è il contatto con l’Eterno, l’Immutabile, con ciò che conferisce senso a chi è solo mutabile e soggetto al divenire, alla creatura. Agostino rilegge l’esperienza che l’uomo fa del tempo nella dinamica tra Creatore e creatura, per andare oltre la distensio animae e raggiungere una visione armonica ed unitaria della storia.

La vitalogia agostiniana rispecchia in maniera evidente la cultura africana di cui l’Ipponate è ovviamente figlio. Una visione non accademica del tempo, l’incentrarsi del tempo sul presente, la rilevanza data all’esperienza concreta della persona, sono le caratteristiche che qualificano la domanda sull’uomo e sulla vita. In Agostino la vitalogia si arricchisce dell’elemento cristiano, donandole una finalità a volte in essa non presente.

Il porre in evidenza la via pulchritudinis ci ha permesso di mostrare come la bellezza divenga il centro del legame tra il tempo e l’eternità e come sia una nota caratteristica della vitalogia agostiniana. In Agostino il futuro, che, per la cultura africana non ha senso conoscere, assume il volto dell’incontro con quella Bellezza antica e sempre nuova, che è stata il motore costante della sua ricerca intellettuale e spirituale. Agostino ha rischiato di perdersi nei meandri del tempo, ma l’Eterno lo ha chiamato, folgorandolo con il suo splendore[58]. Come sosteneva Mbiti, tutta la nostra vita, può essere compresa grazie alla religione, poiché il tempo come lo spazio, sono tutti dei modi dove vivere la fede[59].




[1] G. Pasquale, Tempo ed eternità. Ciò che può sillabare la filosofia”, in CredereOggi 29 (2009) p. 55.
[2] Cfr. Agostino, Confessioni, XI, 28 (tr.it a cura di C. Vitali, BUR, Milano 1998 e qui di seguito).
[3] Pasquale, Tempo ed eternità”, p. 56.
[4] Cfr. M. Nkafu nkemnkia, Il pensare africano come “vitalogia”, Città Nuova, Roma 1995, p. 49.
[5] Cfr. Id., Tempo e spazio nel pensiero africano”, in Aquinas 42 (1999) p. 367.
[6] Ivi, p. 369.
[7] A questo riguardo il villaggio diviene il luogo in cui custodire tempo e spazio, mentre compare la figura degli antenati, «i vivi per eccellenza, per sempre stabiliti nella invisibile immortalità, membri sempre attivi e pieni di sollecitudine per la comunità familiare terrena, […] sono più presenti dei viventi sensibili; incarnano la maggiore simbolizzazione della vita» (L. Boka di Mpasi, “Gli antenati mediatori in Africa”, in La Civiltà Cattolica 4 (1994) p. 371). La cultura africana conferisce il termine ‘antenato’a coloro, uomini o donne, che hanno dato origine ad un clan oppure ad una tribù. Come sottolinea Scarin, gli antenati sono una figura centrale del pensiero africano, in quanto sono «forza originante, fonte sorgiva, presenza permanente che mantengono in essere la propria comunità nel susseguirsi delle generazioni, affinché non si affievoliscano, non si spengano, ma si dilatino in esperienza vitale di consistenza numerica e vigore intellettuale […]. L’antenato è l’alleato privilegiato nella relazione “teo-andropica”, tra Dio e l’uomo nella sua comunità» (A. Scarin, “La rinascita dell’antenato nelle religioni tradizionali africane”, in CredereOggi 18 (1998) pp. 67 – 68). L’antenato appartiene alla ‘forza vitale’, a quella vita comune a tutti gli uomini che si unisce alla vita eterna in una concezione olistica della realtà. L’antenato, infatti, non rinasce ma prolunga la sua vita nei discendenti a tal punto che «il nascere dell’antenato è inerente all’esistenza dell’individuo, del gruppo e del clan, da cui non ci si può scindere. Si potrebbe quindi affermare che si è persona umana, e tale persona umana, in quanto si proviene da tale antenato» (Ivi, p. 67).
[8] Cfr. Nkafu nkemnkia, Tempo e spazio nel pensiero africano”, p. 371.
[9] « “l’io” africano è sempre uguale a un “tu/voi” […] ogni “io” equivale sempre a un “tu/voi” che richiama l’alterità […]. “L’Altro/Voi” si confronta sempre con un “Io/Noi” tanto che il “Noi” vuol dire semplicemente il “vivente” ossia la comunità in quanto “soggetto reale e sociale”» (Ibidem). La persona si struttura facendo sì che il “Noi” prevalga sull’ “Io”, dato che per l’individuo è impossibile realizzarsi al di fuori della sua comunità o tribù, pena l’essere come un pesce fuor d’acqua. Siamo dinanzi ad una unione vitale così importante che anche i morti vengono considerati viventi e membri della propria famiglia in eterno (cfr. Id., Il pensare africano, p. 147). In questo modo comprendiamo come nella cultura africana veramente il senso della vita di una persona si trova collocato nel ed attraverso il rapporto  che intercorre con gli altri. Ciascuno contiene l’altro ed ogni africano si sente appartenente ad una specifica tribù dalla quale proviene e nella quale l’essenza da sperimentare è proprio la relazione d’amore. Senza amore non vi è comunità e, quindi, risulta impossibile scoprire il senso della vita. Oltretutto la sua tribù di provenienza decide anche della qualità della persona, se è degna di una buona reputazione o meno (cfr. Id., “‘Vitalogia africana’. La visione africana della persona umana nella prospettiva vitalogica”, in Salesianum 73 (2011) pp. 27 - 29).
[10] La vitalogia è una visione unitaria della realtà come si presenta alla mente africana. È il criterio della scienza africana secondo una prospettiva indagata e una terminologia coniata da Martin Nkafu Nkemnkia, che durante i suoi studi di filosofia si preoccupò di mettersi alla ricerca dell’essenza di un pensiero africano autoctono non importato dalla filosofia occidentale. In sintesi il nucleo di questo pensiero tipicamente africano sta tutto nel mettere al centro il vissuto quotidiano come punto di partenza di ogni questione e domanda di senso (cfr. Id., “Il Figlio dell’Uomo e gli uomini del duemila. Le culture africane”, in Nuntium (11/2000) p. 53).
[11] Cfr. Id., Tempo e spazio nel pensiero africano”, p. 373.
[12] Ibidem.
[13] Nato in Kenia, Mbiti ha studiato teologia a Cambridge ed il suo testo più famoso è African Religion and Philosophy (ed. it. Oltre la magia). Per un approfondimento di questo studioso rimandiamo a  Nkafu nkemnkia, Il pensare africano, pp. 53 – 64 e, sempre dello stesso autore, Tempo e spazio nel pensiero africano”, pp. 375 - 379.
[14] J. S. Mbiti, Oltre la magia, SEI, Torino 1992, p. 17.
[15] Ivi, p. 19.
[16] «Nella società occidentale o tecnologica, il tempo è un bene che deve essere utilizzato, venduto o comprato, ma nella vita tradizionale africana il tempo deve essere creato o prodotto. L’uomo non è schiavo del tempo, invece, egli “fa” tutto il tempo che desidera» (ivi, pp. 20 – 21).
[17] Cfr. Ivi, pp. 22 – 24.
[18] Cfr. Nkafu nkemnkia, Il pensare africano, pp. 59 – 60
[19] Mbiti, Oltre la magia, pp. 24 – 25.
[20] Cfr. Ivi, p. 25.
[21] Nkafu nkemnkia, Tempo e spazio nel pensiero africano”, p. 379.
[22] Cfr. Mbiti, Oltre la magia, p. 26.
[23] Ibidem.
[24] Nkafu nkemnkia, Tempo e spazio nel pensiero africano”, p. 380.
[25] Ibidem.
[26] Se non avvenisse questo passaggio di dimenticanza in maniera graduale ma fosse subitaneo, ciò significherebbe che il morto-vivente è stato scacciato dal periodo sasa, è stato, quindi, scomunicato, e la sua immortalità personale è stata distrutta e lui stesso consegnato ad uno stato di non esistenza. I viventi che causano tutto ciò, dimenticandosi subito del loro defunto, rischiano malattie e sfortune varie (cfr. Mbiti, Oltre la magia, p. 29).
[27] Cfr. Ivi, p. 28.
[28] Cfr. Ivi, p. 29.
[29] Agostino, Confessioni, XI, 14.
[30] Cfr. F. Dal Bo, “Lo spazio della memoria nelle ‘Confessioni’ di Agostino”, in Studia Patavina 47 (2000) p. 156.
[31] Cfr. Agostino, Confessioni, XI, 14.
[32] Cfr. Ivi, XI, 15.
[33] Cfr. Dal Bo, “Lo spazio della memoria”, p. 157.
[34] Agostino, Confessioni, XI, 18.
[35] Cfr. Ibidem.
[36] Ivi, XI, 16.
[37] Cfr. Ivi, XI, 20.
[38] Ivi, XI, 28.
[39] Cfr. Ivi, X, 25.
[40] Cfr. Dal Bo, “Lo spazio della memoria”, p. 157.
[41] N. Cipriani, “Il tempo in S. Agostino”, in Rivista di scienze religiose 16 (2002) p. 367.
[42] Ibidem.
[43] Cfr. Ivi, pp. 368 - 369.
[44] Cfr. Ibidem.
[45] Il tempo come distensio animae è la definizione dataci da Plotino, che vede in esso la perdita dell’unità nel cadere nella dissipazione e nella dispersione. L’anima dovrebbe tornare in se stessa, riscoprendo la sua natura intelligibile ed eterna, senza interessarsi delle cose di questo mondo, nemmeno delle opere sociali, che provocano solamente un aggravamento della situazione già fortemente instabile. L’unica via che il tempo ci offre è la contemplazione intellettuale tramite la quale possiamo tentare di attingere all’Uno (cfr. Ivi, p. 366).
[46] Agostino, Confessioni, XI, 29.
[47] Cfr. L. Manca, “Volontà e tempo in S. Agostino. Uno sguardo a possibili implicazioni reciproche”, in Rivista di Scienze religiose 23 (2009) p. 170. Afferma Agostino, «L’infanzia se ne vola passando nella fanciullezza; tu cerchi l’infanzia ed essa non c’è più, perché al suo posto c’è già la fanciullezza. Ma questa in un attimo vola nell’adolescenza; cerchi la fanciullezza e non la trovi. L’adolescente diventa giovane; cerchi l’adolescente e non c’è più. Il giovane diventa vecchio e non lo trovi più. La nostra vita, nelle sue varie età, non si arresta; e dovunque c’è fatica, dovunque stanchezza, dovunque deterioramento» (Agostino, Commento ai Salmi, 62, 6, tr. it a cura di M. Simonetti, Fondazione Lorenzo Valla-Mondadori, Roma-Milano 1998).
[48] Id., Confessioni, XI, 29 (il corsivo è mio).
[49] A. Colli, “Pulchritudo tam antiqua et tam nova. Bellezza e tempo nel pensiero di Agostino”, in Vivens Homo 19 (2008) p. 173.
[50] Cfr. Ivi, p. 171.
[51] Ibidem.
[52] Cfr. Agostino, Confessioni, XI, 29.
[53] «Tardi ti ho amato, o bellezza tanto antica e tanto nuova, tardi ti ho amato» (ivi, X, 27).
[54] Ibidem.
[55] Ivi, X, 6.
[56] A. Colli, “Pulchritudo tam antiqua et tam nova, p. 172.
[57] Ivi, p. 168.
[58] Cfr. Agostino, Confessioni, XI, 27.
[59] Cfr. Nkafu nkemnkia, Tempo e spazio nel pensiero africano”, pp. 375 - 376. Abbiamo fatto riferimento nel testo allo spazio trattando di Mbiti, in realtà dobbiamo precisare che lui amava parlare di luogo piuttosto che di spazio, come Nkafu Nkemnkia sottolinea.