giovedì 4 dicembre 2014

Il dibattito ontologico tra Eraclito e Parmenide


Scrive Pierre Jacerme, nella sua Introduzione alla filosofia occidentale, che il dibattito ontologico del VI-V secolo a.C. tra Eraclito e Parmenide è la chiave per comprendere la nascita del pensiero metafisico in Occidente, come reazione a questi due pensatori[1].

Il pensiero di Eraclito parte dalla constatazione dell’incessante fluire delle cose, dal filosofo immortalata con l’immagine del fiume, le cui acque perennemente scorrono, non permettendo a nessuno di immergersi per due volte nelle stesse. Vi è, quindi, un eterno divenire, visto dal filosofo come incessante passaggio dal non-essere all’essere (generazione) e dall’essere al non-essere (corruzione). Questa constatazione dell’incessante fluire e divenire delle cose mostra al filosofo come l’essere e il non-essere si implichino vicendevolmente e necessariamente: non c’è essere senza non essere e viceversa. Vi è quindi un passaggio cronologico dal ‘non-essere ancora’ all’ ‘essere’ al ‘non-essere più’, che sottolinea al tempo stesso come l’essere una cosa implichi nello stesso momento il non-essere tutte le altre cose (per ‘essere X’ deve necessariamente ‘essere non-Y’, ‘essere non-Z’…). Questo perché per Eraclito l’essere e il non-essere si implicano vicendevolmente in un doppio senso, diacronico e sincronico. Nel frammento 49 Eraclito afferma: «Noi scendiamo e non scendiamo nello stesso fiume, noi stessi siamo e non siamo». Questo eterno divenire viene alimentato, inoltre, dall’opposizione, dal contrasto da cui poi si genera anche l’essere della realtà. È celeberrima la frase eraclitea per cui «la guerra è la madre di tutte le cose e di tutte regina» (fr. 53). Questa contrapposizione è, però, solo dialettica, dato che «ciò che è opposizione si concilia e dalle cose differenti nasce l’armonia più bella» (fr. 8), il conflitto non divide ma garantisce il divenire delle cose, per cui «la malattia rende dolce la salute, la fame rende dolce la sazietà e la fatica rende dolce il riposo» (fr. 111).

Vi è, infatti, un principio che permette il superamento dialettico del conflitto in una armonia ed esso è il logos, quella Ragione che Eraclito identifica per la sua forma sempre diversa con il fuoco. Il logos è la realtà comune a tutte le cose e che permette di chiamare ‘cosmo’ la realtà. Da questo logos provengono tutte le cose ma l’uomo è incapace di comprenderlo (cfr. fr. 1) ed in esso vi è la identificazione dialettica degli opposti, tanto che «comune nel cerchio è il principio e la fine» (fr. 103). Il logos è un termine assai complesso che può essere tradotto in vario modo. In Eraclito troviamo due sfere semantiche, quella di logos come ‘dire’ o quella di logos come ‘raccogliere’, ‘legare insieme’. Scrive il filosofo: «Non ascoltando me, ma soltanto il logos, è saggio ammettere che tutte le cose sono una unità» (fr. 50).

Il pensiero di Parmenide si discosta, in parte, da quello di Eraclito, in quanto non condivide il ruolo positivo che l’altro filosofo ha assegnato al non-essere e al divenire. Nel suo poema Sulla natura Parmenide allude ad Eraclito come ad una persona avente due teste che lo portano ad una perenne contraddizione. Il poema narra, infatti, di una rivelazione divina, avuta dallo stesso Parmenide durante un viaggio dove la dea lo conduce con delle cavalle alate ad apprendere la Verità delle cose (cfr. fr 1). In questo modo il filosofo si trova dinanzi ad un bivio, da cui si diramano due sentieri: quello della Notte (metafora della via dell’errore) e quello del Giorno (metafora della via della verità). Il sentiero che va percorso è quest’ultimo, dove si afferma che l’Essere è e non è possibile che non sia, differentemente dall’altro per cui il non-Essere non è ed è necessario che non sia (cfr. fr. 2). Ci troviamo, secondo il Reale, alla prima formulazione del principio di non contraddizione[2], dove si intende per ‘Essere’ il Tutto, la Realtà nella sua Totalità e la qualità dell’esistenza in quanto tale. In questo modo Parmenide rigetta l’eracliteo divenire giudicato inammissibile perché contraddittorio. D’altra parte l’Eleate si muove anche nella direzione di cogliere ciò che le cose hanno in comune tra loro, ossia il fatto di essere. In questo modo si riaccende il dibattito intorno all’archè ed al sostrato, portando però alla trasformazione della cosmologia all’ontologia. Mentre infatti gli altri filosofi vedevano questo principio primo in un elemento della natura in Parmenide esso coincide con l’Essere stesso.

L’Eleate pone poi in stretta relazione l’Essere con l’Apparire giungendo, però, ad una diversa conclusione da quella sostenuta da Eraclito. Mentre in quest’ultimo, infatti, Essere ed Apparire coincidono, in Parmenide questo non avviene ed il divenire è spiegato come un entrare ed un uscire dal cerchio dell’Apparire, ricordando sempre che la Realtà nella sua Totalità appartiene alla sfera dell’Essere. Eraclito, quindi, trattando di generazione e corruzione mostra di fermarsi a ciò che i sensi attestano, cadendo così in errore, mentre l’Eleate considera che la Verità sta nella ragione, che afferma che l’Essere è (cfr. fr. 7). I sensi illudono, poiché ci fanno percepire la molteplicità delle cose e ci testimoniano il non-Essere, mentre la ragione dice che l’Essere è pura stabilità e non vi è dialettica tra Essere e non-Essere.

Percorrendo la via dell’Essere Parmenide trova dei ‘segni indicatori’ (cfr. fr. 8), i quali rivelano la natura dell’Essere stesso, ossia il suo non avere né passato né futuro, il suo essere ingenerato ed incorruttibile, il suo essere indivisibile ed immobile, il suo essere assolutamente compiuto come una sfera, che per gli antichi era l’immagine della perfezione limitata per essere colta con  la ragione, il suo essere uno e continuo. Il filosofo identifica anche pensiero ed Essere (cfr. fr. 3), in quanto il pensiero può essere tale solo se è un pensiero di qualcosa, un pensiero che ha l’Essere come oggetto e, al tempo stesso, l’Essere ha come condizione intrinseca quella di essere pensato (cfr. fr. 8). Essere, Pensiero e Linguaggio si implicano mutuamente, dato che non è possibile né dire né pensare ciò che non è (cfr. ibidem). Questo non avviene con l’Essere che è Verità, a-letheia, uscita dall’oblio, dal nascosto[3].

Se da un lato Parmenide salva l’Essere, dall’altro perde i fenomeni. Questa è la grande aporia lasciata aperta dall’Eleate ed è per questo motivo che la filosofia che succederà a lui avrà come urgenza quella di salvare i fenomeni.



[1] Cfr. Pierre Jacerme, Introduzione alla filosofia occidentale. Eraclito, Parmenide, Platone, Cartesio, Christian Marinotti, Milano 2010, 70.
[2] Cfr. Giovanni Reale, “Introduzione”, in Parmenide, Sulla natura, Bompiani, Milano 2001, 15.
[3] Cfr. Pierre Jacerme, cit., 77.

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