Scrive Pierre Jacerme,
nella sua Introduzione alla filosofia
occidentale, che il dibattito
ontologico del VI-V secolo a.C. tra Eraclito e Parmenide è la chiave per
comprendere la nascita del pensiero metafisico in Occidente, come reazione a
questi due pensatori[1].
Il pensiero di Eraclito
parte dalla constatazione dell’incessante fluire delle cose, dal filosofo
immortalata con l’immagine del fiume, le cui acque perennemente scorrono, non
permettendo a nessuno di immergersi per due volte nelle stesse. Vi è, quindi,
un eterno divenire, visto dal filosofo come incessante passaggio dal non-essere
all’essere (generazione) e dall’essere al non-essere (corruzione). Questa
constatazione dell’incessante fluire e divenire delle cose mostra al filosofo
come l’essere e il non-essere si implichino vicendevolmente e necessariamente:
non c’è essere senza non essere e viceversa. Vi è quindi un passaggio
cronologico dal ‘non-essere ancora’ all’ ‘essere’ al ‘non-essere più’, che
sottolinea al tempo stesso come l’essere una cosa implichi nello stesso momento
il non-essere tutte le altre cose (per ‘essere X’ deve necessariamente ‘essere
non-Y’, ‘essere non-Z’…). Questo perché per Eraclito l’essere e il non-essere
si implicano vicendevolmente in un doppio senso, diacronico e sincronico. Nel
frammento 49 Eraclito afferma: «Noi scendiamo e non scendiamo nello stesso
fiume, noi stessi siamo e non siamo». Questo eterno divenire viene alimentato,
inoltre, dall’opposizione, dal contrasto da cui poi si genera anche l’essere
della realtà. È celeberrima la frase eraclitea per cui «la guerra è la madre di
tutte le cose e di tutte regina» (fr. 53). Questa contrapposizione è, però,
solo dialettica, dato che «ciò che è opposizione si concilia e dalle cose
differenti nasce l’armonia più bella» (fr. 8), il conflitto non divide ma
garantisce il divenire delle cose, per cui «la malattia rende dolce la salute,
la fame rende dolce la sazietà e la fatica rende dolce il riposo» (fr. 111).
Vi è, infatti, un
principio che permette il superamento dialettico del conflitto in una armonia
ed esso è il logos, quella Ragione
che Eraclito identifica per la sua forma sempre diversa con il fuoco. Il logos è la realtà comune a tutte le cose
e che permette di chiamare ‘cosmo’ la realtà. Da questo logos provengono tutte le cose ma l’uomo è incapace di comprenderlo
(cfr. fr. 1) ed in esso vi è la identificazione dialettica degli opposti, tanto
che «comune nel cerchio è il principio e la fine» (fr. 103). Il logos è un termine assai complesso che
può essere tradotto in vario modo. In Eraclito troviamo due sfere semantiche,
quella di logos come ‘dire’ o quella
di logos come ‘raccogliere’, ‘legare
insieme’. Scrive il filosofo: «Non ascoltando me, ma soltanto il logos, è saggio ammettere che tutte le
cose sono una unità» (fr. 50).
Il pensiero di
Parmenide si discosta, in parte, da quello di Eraclito, in quanto non condivide
il ruolo positivo che l’altro filosofo ha assegnato al non-essere e al
divenire. Nel suo poema Sulla natura Parmenide
allude ad Eraclito come ad una persona avente due teste che lo portano ad una
perenne contraddizione. Il poema narra, infatti, di una rivelazione divina,
avuta dallo stesso Parmenide durante un viaggio dove la dea lo conduce con
delle cavalle alate ad apprendere la Verità delle cose (cfr. fr 1). In questo
modo il filosofo si trova dinanzi ad un bivio, da cui si diramano due sentieri:
quello della Notte (metafora della via dell’errore) e quello del Giorno
(metafora della via della verità). Il sentiero che va percorso è quest’ultimo,
dove si afferma che l’Essere è e non è possibile che non sia, differentemente
dall’altro per cui il non-Essere non è ed è necessario che non sia (cfr. fr.
2). Ci troviamo, secondo il Reale, alla prima formulazione del principio di non
contraddizione[2],
dove si intende per ‘Essere’ il Tutto, la Realtà nella sua Totalità e la
qualità dell’esistenza in quanto tale. In questo modo Parmenide rigetta
l’eracliteo divenire giudicato inammissibile perché contraddittorio. D’altra
parte l’Eleate si muove anche nella direzione di cogliere ciò che le cose hanno
in comune tra loro, ossia il fatto di essere. In questo modo si riaccende il
dibattito intorno all’archè ed al sostrato, portando però alla trasformazione
della cosmologia all’ontologia. Mentre infatti gli altri filosofi vedevano
questo principio primo in un elemento della natura in Parmenide esso coincide
con l’Essere stesso.
L’Eleate pone poi in
stretta relazione l’Essere con l’Apparire giungendo, però, ad una diversa
conclusione da quella sostenuta da Eraclito. Mentre in quest’ultimo, infatti,
Essere ed Apparire coincidono, in Parmenide questo non avviene ed il divenire è
spiegato come un entrare ed un uscire dal cerchio dell’Apparire, ricordando
sempre che la Realtà nella sua Totalità appartiene alla sfera dell’Essere.
Eraclito, quindi, trattando di generazione e corruzione mostra di fermarsi a
ciò che i sensi attestano, cadendo così in errore, mentre l’Eleate considera
che la Verità sta nella ragione, che afferma che l’Essere è (cfr. fr. 7). I
sensi illudono, poiché ci fanno percepire la molteplicità delle cose e ci
testimoniano il non-Essere, mentre la ragione dice che l’Essere è pura
stabilità e non vi è dialettica tra Essere e non-Essere.
Percorrendo la via
dell’Essere Parmenide trova dei ‘segni indicatori’ (cfr. fr. 8), i quali
rivelano la natura dell’Essere stesso, ossia il suo non avere né passato né
futuro, il suo essere ingenerato ed incorruttibile, il suo essere indivisibile
ed immobile, il suo essere assolutamente compiuto come una sfera, che per gli
antichi era l’immagine della perfezione limitata per essere colta con la ragione, il suo essere uno e continuo. Il
filosofo identifica anche pensiero ed Essere (cfr. fr. 3), in quanto il
pensiero può essere tale solo se è un pensiero di qualcosa, un pensiero che ha
l’Essere come oggetto e, al tempo stesso, l’Essere ha come condizione
intrinseca quella di essere pensato (cfr. fr. 8). Essere, Pensiero e Linguaggio
si implicano mutuamente, dato che non è possibile né dire né pensare ciò che
non è (cfr. ibidem). Questo non
avviene con l’Essere che è Verità, a-letheia,
uscita dall’oblio, dal nascosto[3].
Se da un lato Parmenide
salva l’Essere, dall’altro perde i fenomeni. Questa è la grande aporia lasciata
aperta dall’Eleate ed è per questo motivo che la filosofia che succederà a lui
avrà come urgenza quella di salvare i fenomeni.
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