«Ciò che
più arroventa come interrogativo l’uomo è il tempo. Perché l’uomo – a
differenza del gatto o di qualsiasi altro esistente – ci vive dentro. E lo sa. Da quando si alza al mattino a
quando, solitamente stanco, si corica alla sera. La terribile costante
scansione del tempo, poi, insinua nell’uomo un’altra domanda: se esso cesserà,
oppure no. Il che significa: l’uomo si domanda continuamente se esista o no il
divenire e, qualora esistesse, se esso possa (tra)passare in eternità»[1].
Cos'è il tempo? Cos'è l'eternità? Una questione prettamente filosofica,
dato che interpella il pensiero ed il riflettere dell’essere umano. Come
afferma Agostino, in una delle pagine più belle delle Confessioni, l’attesa dell’animo, come il suo ricordare e prestare
attenzione, le tre forme del tempo, appartengono a tutta la vita dell’uomo, al
succedersi delle umane generazioni, composte dalle singole vite degli uomini[2].
Nell’analizzare il concetto di tempo nella cultura africana abbiamo pensato
di interrogare due eminenti esponenti di essa, ossia Mbti ed Agostino di Ippona,
e vedere come il concetto di tempo appartenga a quella che vien detta la
vitalogia africana, basandosi fortemente sul presente e sull’esperienza che di
esso fa l’essere umano. Infatti, non si può slegare il tempo dalla vita della
popolazione, nemmeno quando esso si declina come futuro o eternità. Vedremo,
allora, come poter sostituire ad un calcolo prettamente matematico del tempo
una cronologia dei fenomeni, che scandiscono la vita di ogni persona.
Ma il tempo esiste? Esiste il passato, il presente ed il futuro? Oppure
«in
realtà il tempo non c’è. Ci ammanta, ci opprime, eppure non c’è. È progetto
della mia “temporalizzazione”, progetto da cui nascono tutte le ambivalenze del
tempo che sperimentiamo: da un lato è fuggitivo e noi corriamo per superarlo,
integrarlo, farne qualcosa, ma nello stesso tempo ci fagocita, ci assorbe;
potenza che ci opprime, ci preme»[3].
La nostra riflessione non si fermerà solo a definire le coordinate del
tempo, ma cercherà anche di mostrare l’importanza, come sottolineava Kenneth D.
Kuanda, di dare redenzione al tempo, cercando di abitare questo ‘spazio’ con
responsabilità diventando sempre più coscienti del ruolo che l’essere umano
riveste nell’universo[4].
1. Il concetto di tempo
nel pensiero africano
1.1 La
visione vitalogica del tempo
Se volessimo trovare
con una battuta la definizione di tempo nella cultura africana, potremmo dire
che essa è la vita corrente. Così, infatti, rispose il nobile novantottenne
Nkeigbeng della tribù Bangwa del Camerun alla domanda su cosa sia il tempo per
lui. Vita, tempo e spazio sono un tutt’uno tra loro, anzi, è la vita stessa che
a volte viene chiamata tempo, a volte spazio e altre volte vita[5].
Ci troviamo all’interno di una cultura fortemente legata all’esperienza, al
vissuto quotidiano. Una cultura, perciò, in cui la memoria è particolarmente
quella visiva, ove la conoscenza si trasmette oralmente e, dove, è assai
difficile concepire la realtà del tempo (eleng)
senza legarla a quella dello spazio (eliugh).
Come sottolinea a questo riguardo Nkafu Nkemnkia, siamo all’interno di un
problema prettamente ontologico, così come quello della vita, di Dio, dell’uomo
e del cosmo, un problema nel quale vita ed essere si rincorrono fino al punto
di divenire inseparabili. La vita nella cultura africana è, in poche parole,
«il primo trascendentale che si esprime “nell’eleng – nel tempo e
nell’eliugh – nello spazio”
manifestando così gli infiniti modi del
suo apparire e mutare»[6].
Proprio all’interno di questa questione metafisica
veniamo catapultati sul valore che assume il presente a discapito del passato e
del futuro. Infatti, mentre il presente determina il valore della conoscenza,
il passato è contenuto all’interno del presente, ed il futuro può appartenere
solo all’immaginazione e alla speranza. Esiste, allora, solo il presente ed
esso va vissuto in pienezza. Non abbiamo, quindi, la distinzione classica tra
presente, passato e futuro, ma ci troviamo in un eterno presente in cui abita
un fortissimo desiderio di immortalità[7]
ed in cui il tempo che scorre veloce viene considerato come un ‘feticcio’ del
Creatore, ossia come una momentanea ed ininterrotta espressione di un Dio che è
anche Creatore. Il tempo appartiene, quindi, a Dio e lui stesso lo concede ai
viventi perché ne facciano un uso responsabile[8].
Da ciò si denota quella che si può chiamare la dimensione
collettiva del tempo, fortemente legata alle relazioni tra gli individui[9],
che riguardano il rapporto con gli altri, con Dio e con il mondo. I rapporti
tra gli individui richiedono un lasso di tempo da trascorrere, ma al tempo che
passa ci rimanda anche il continuo mutamento del mondo intorno a noi ed anche
il mondo oltre noi, ossia quello ultraterreno, appartenente a Dio e agli
spiriti. Per la cultura africana quest’ultimo non è un mondo astratto, bensì ci
si può relazionare con esso in maniera molto concreta, tramite i riti ed i
culti, con parole, preghiere e gesti diversi che confluiscono nella dimensione
della festa. Tutto questo avviene logicamente nel tempo.
È impossibile, quindi, separare la visione del tempo con quella
della realtà. Meglio, possiamo giungere alla conoscenza della concezione del
tempo solo all’interno della visione africana della realtà, ossia nella
vitalogia[10]. La
realtà del tempo viene, allora, considerata entro una dimensione ontologica e
vitalogica, che punta principalmente sull’essere e sul presente. L’attimo
presente, afferma Nkafu Nkemnkia, è l’anticipazione dell’eternità[11],
«si
nasce e si muore non già nel passato né in futuro ma nell’attimo presente.
Nella dimensione temporale dunque la priorità non è il futuro né il passato ma
il presente. Nella contemplazione della realtà c’è unità tra il “prima e il poi” cosicché a nessuno viene
in mente di rimandare la gioia e la felicità a un altro momento così come a
nessuno è possibile vivere solo della gioia di un tempo passato»[12].
Dopo aver brevemente e
sommariamente analizzato la concezione del tempo all’interno della logica
africana, vogliamo ora soffermarci sulla prospettiva tracciata da uno dei maggiori
esponenti della cultura di questa bellissima terra. Mbiti ha cercato di
studiare la realtà del tempo all’interno di quella della religione, che impegna
l’intera vita dell’essere umano, da prima della nascita fino a dopo la morte.
Il vivere, come lui stesso scrive, «significa essere coinvolti in una
rappresentazione religiosa. Ciò è fondamentale perché significa che l’uomo vive
in un universo religioso. Sia quel mondo che praticamente tutte le attività
umane in esso sono percepiti e vissuti attraverso interpretazioni e significati
religiosi […]. Gli africani hanno la loro ontologia, ma si tratta di
un’ontologia religiosa»[14].
Con l’analisi del concetto di tempo il nostro teologo keniota vuole trovare la
chiave di lettura per aprire la porta della comprensione dei concetti
filosofici e teologici più basilari della cultura africana.
1.2.1 Il tempo potenziale e il
tempo reale
Nella cultura africana
il tempo non riveste un grande interesse accademico, poiché con esso si intende,
soprattutto,
«una composizione di eventi che
hanno avuto luogo, che stanno avvenendo al momento e che devono avvenire
inevitabilmente o nel prossimo futuro. Ciò che non ha avuto luogo […] viene
incluso nella categoria del “non-tempo”. Ciò che deve avvenire con certezza o è
inserito nel ritmo dei fenomeni naturali appartiene alla categoria del tempo potenziale o inevitabile»[15].
Gli eventi futuri
appartengono ad un tempo potenziale, mentre il passato ed il presente a quello
reale, poiché sono vissuti dagli uomini e, in quanto tali, divengono reali. Il
futuro, invece, non rientra nell’esperienza dell’individuo e, siccome non può
essere esperito, non acquista un senso reale. Entro questa prospettiva Mbiti
spiega la motivazione dell’inesistenza, nel mondo africano, del computo del
tempo tramite calendari numerici, sostituiti da altri calendari, detti dei fenomeni: una madre conta i mesi
lunari della sua gravidanza così come un viaggiatore per contare i giorni di
viaggio si avvale dell’alba del sole e così via. Il tempo ha un significato solo
se è collegato ad un evento[16].
Seguendo questa prospettiva Mbiti analizza il giorno, il mese e l’anno segnando
una corrispondenza con quelli che sono gli eventi naturali che lo
caratterizzano: le ore 6 sono il tempo della mungitura, il mese di ottobre è
chiamato ‘Il Sole’, dato che il sole in questo mese è molto caldo, e così via.
Il problema maggiore si pone per l’anno, in quanto non si considerano,
ovviamente, il numero matematico dei giorni, ma gli eventi: in questo modo un
anno potrà avere 350 giorni, mentre un altro 390, ma gli eventi regolari sono
sempre fissi e sono quelli che fanno restare costante la lunghezza dell’anno[17].
A questo punto il
nostro studioso della sua cultura africana pone la distinzione tra microtempo e
macrotempo, a partire dalle parole swahili sasa
e zamani. Come commenta Nkafu
Nkemnkia, mentre con sasa si vuole
indicare ciò che sta per accadere, il futuro prossimo o il passato, con zamani siamo nel futuro incerto e
lontano od anche il passato illimitato, il periodo oltre il quale non possiamo
procedere, il ‘cimitero del tempo’[18]. Il sasa
si proietta nel zamani e il zamani si sovrappone al sasa. Leggiamo le parole di Mbiti, «nel
pensiero africano il sasa “ingoia”
ciò che nel concetto lineare o occidentale di tempo verrebbe considerato come
futuro. Eventi […] nella dimensione sasa
devono essere sul punto di accadere, stare per realizzarsi o essere stati
vissuti recentemente. Sasa è il
periodo più significativo per l’individuo, poiché egli ha un ricordo personale
degli eventi o fenomeni oppure sta per viverli e provarli di persona»[19].
Lo zamani è, invece, il macrotempo e non è il solo passato, bensì
possiede il proprio passato, presente e futuro. In esso confluisce e scompare
il sasa, ossia, quando gli eventi si
vanno realizzando, si spostano all’indietro nella dimensione zamani. Mbiti, per differenziare
ulteriormente queste due dimensioni del tempo, sostiene che si possa intendere
con zamani il periodo del mito, che
dona senso al sasa, che può a sua
volta essere visto come il periodo del vivere cosciente[20].
1.2.2 Storia e preistoria
«Alla domanda se esiste
un futuro al quale tutto tende, Mbiti risponde che nel pensiero africano non
esiste il concetto di storia che muova verso un apice culminante nel futuro o
verso un certo fine ultimo»[21],
dato che la gente non è solita fare dei piani per un futuro lontano, che
consisterebbe solamente nel costruire dei castelli in aria. In questo modo,
come cercavamo di mostrare nel sottoparagrafo precedente, lo zamani è il tempo che interessa alle
persone, che non credono in un mondo che deve venire. In questo modo, Mbiti
conclude che storia e preistoria sono dominate dal mito[22],
tramite il quale il pensiero africano tenta di offrire una spiegazione della
creazione dell’universo, dell’origine dell’uomo. Nascono, allora, tradizioni
orali che trascendono la scala temporale matematica, dato che la storia orale
non presenta nessuna data da ricordare. Nessun mito o tradizione orale
riguarda, invece, la fine del mondo, in quanto
«il tempo non ha fine. I popoli africani
si aspettano che la storia umana duri per sempre nel ritmo del movimento dal
sasa allo zamani e non esiste nulla che suggerisca come questo ritmo possa
giungere al suo termine: giorni, mesi, stagioni e anni non hanno fine, così
come non c’è fine nel ritmo di nascita, matrimonio, procreazione e morte»[23].
In questo ritmo
ontologico della storia si pone in evidenza come «tutta la vita ha un circolo
eterno legato all’esperienza»[24],
che esprime molto bene la concezione della vitalogia africana di Nkafu Nkemnkia.
La nostra storia ci pone in contatto con esperienze quotidiane usuali (come la
procreazione o la vecchiaia, la semina o la raccolta) ed inusuali (come
l’eclissi o un parto gemellare), che manifestano come il concetto di tempo sia
estremamente legato a ciò che accade nella vita. Per questo, afferma Nkafu
Nkemnkia, nella cultura africana «il telos della vita è il vivere poiché […]
non si prevede alcun cataclisma […]. Per l’africano, dichiara Mbiti, non esiste
l’anno, non esiste uno, due, cinque, settanta o cento. Esiste l’uomo, esiste la
vita»[25].
1.2.3 Morte ed immortalità
Vorremmo concludere
questo paragrafo dedicato al pensiero di Mbiti, tracciando alcune linee della
sua escatologia. Come sostiene il nostro teologo keniota, non solamente la
vecchiaia porta al passaggio dal sasa allo
zamani, ma anche la morte. Certamente
è un passaggio graduale, in quanto dopo la morte della persona, quest’ultima
continua ancora ad esistere nella dimensione sasa tramite il ricordo di amici e parenti[26].
Solamente quando muore l’ultimo di coloro che rendono viva e permanente la
memoria del defunto, costui è morto veramente ed entra nella dimensione zamani. Fino a che la persona viene
chiamata per nome, Mbiti afferma che si ha a che fare con un ‘morto-vivente’,
morto fisicamente ma vivo nella memoria della gente. Fino a che questo morto
viene reso vivo dai ricordi, esso si trova nello stato di ‘immortalità
personale’[27], che si
realizza tramite la procreazione e la somiglianza fisica nei figli e nipoti.
Dopo la morte dell’ultimo conoscente del defunto costui muore veramente ed
entra nello stadio di immortalità collettiva e il processo della morte giunge
definitivamente a completezza: il defunto diviene così membro della comunità
degli spiriti[28].
2. La prospettiva “vitalogica” di Agostino d’Ippona
In
questo capitolo vogliamo analizzare il concetto di tempo che ci offre un
eminente esponente della cultura nord africana quale il vescovo di Ippona,
Agostino, cercando di ritrovare in lui gli elementi della vitalogia africana
delineati nei paragrafi precedenti.
Studiando la
prospettiva agostiniana concernente la tematica del tempo non possiamo
trascurare quanto il Dottore d’Ippona scrive nelle pagine memorabili delle sue Confessioni, «Che cosa è […] il tempo?
Se nessuno me lo chiede, lo so; se dovessi spiegarlo a chi me ne chiede, non lo
so: eppure posso affermare con sicurezza di sapere che se nulla passasse, non
esisterebbe un passato; se nulla sopraggiungesse, non vi sarebbe un futuro: se
nulla esistesse, non vi sarebbe un presente»[29].
Vediamo, allora, di intraprendere l’iter
argomentativo seguito dal nostro filosofo.
2.1 Il tempo come questione
metafisica
La
riflessione tracciata da Agostino sul tempo, nelle Confessioni, segue in particolar modo due binari: da un lato nega
l’essere del tempo usando un’argomentazione scettica, mentre dall’altra parte
ne riafferma l’essere[30].
La condizione di esistenza del tempo sta tutta nel suo cessare d’esistere,
sostiene il Vescovo d’Ippona[31],
e, per questo motivo, dovrebbe essere impossibile anche il suo calcolo.
Comunque, parliamo lo stesso di tempo lungo o di tempo breve, senza tener conto
che non può essere tale ciò che non esiste[32].
Allo
stesso modo, però, anche se il tempo non esiste e se di esso non se ne possa
calcolare l’estensione, noi abbiamo l’abitudine di raccontare ciò che
ricordiamo o riusciamo a volte a predire eventi che si realizzano[33].
Questo perché è soprattutto l’animo a dare senso al tempo tramite delle
immagini impresse in esso. Scrive Agostino, a questo proposito, che «quando si
raccontano avvenimenti passati veri, non si tiran fuori dalla memoria gli
avvenimenti in se stessi, ma espressioni formate dalle loro immagini che si
sono impresse a guisa di orme nell’animo per mezzo dei sensi»[34].
La stessa cosa avviene nel predire le cose future.
Nell’animo,
quindi, passato e futuro, per esistere, sono allo stato di presente[35]
e per questo possono essere conosciuti e misurati. Infatti,
«possiamo
misurare il tempo che passa, e lo misuriamo per la percezione che ne abbiamo.
Ora, chi può misurare il passato, che non esiste più, o il futuro che non
esiste ancora? A meno che uno osi affermare che si può percepire e misurare il
non esistente. Dunque si può aver la percezione e misurare il tempo quando sta
passando, ma quando è passato non è possibile, perché non esiste»[36].
In
questo modo non abbiamo più, secondo Agostino, passato, presente e futuro, ma
il presente del passato (ricordo), il presente del presente (prestare
attenzione) e il presente del futuro (attesa). Queste tre dimensioni del tempo
sono tre forme presenti nell’anima[37].
Essa può essere considerata, in questo modo, lo spazio del tempo e proprio nell’anima,
infatti, troviamo l’estensione del tempo. Facciamo parlare lo stesso Dottore
d’Ippona con le sue stesse parole,
«L’animo
attende, presta attenzione, ricorda […]. Chi potrebbe negare che il futuro non
esiste ancora? Ma nell’animo vive l’attesa del futuro. Chi potrebbe negare che
il passato non esiste più? Ma nell’animo vive la memoria del passato. E chi
negherà che il tempo presente manca di estensione perché non è che un punto
transeunte? Ma dura l’attenzione attraverso la quale il futuro tende al
passato. Non si può avere dunque un futuro lungo – non esiste ancora -, ma il
lungo futuro è la lunga attesa del futuro; non si può avere un passato lungo –
non esiste più -, ma il lungo passato è il lungo ricordo del passato»[38].
Nella
interiorità dell’animo, inoltre, il tempo perde il carattere di dispersione che
ha condotto l’essere umano a rovinare il suo legame originario con Dio, che
abita nella sua memoria dal momento in cui l’uomo Lo ha conosciuto[39].
Avviene così la comprensione che esiste un tempo che possieda un inizio e un(a)
fine[40]
e che può essere anche considerato anticipazione d’eternità.
2.2 Tempo ed eternità
Il tempo come
condizione appartenente alle creature è quanto di più certo Agostino possa
subito intravedere con la sua ratio.
Siamo creature e non siamo il Creatore, siamo mutevoli non eterni ed il tempo è sempre posto in relazione con un
mutamento, con un divenire. In Dio tutto ciò non lo troviamo, poiché è solo e
sempre presente, non c’è in Lui un prima o un dopo, è immutabile. Come scrive
Cipriani, «La mutabilità è il sigillo indelebile dell’abissale distanza
esistente tra il Creatore e le creature, tra la fonte dell’Essere e gli esseri
che sono in una certa misura: non si può chiamare propriamente eterno ciò che
muta in qualche parte»[41].
La vita dell’uomo è mutabile e contingente, ma è chiamata ad essere eterna
proprio all’interno del tempo, che diviene così «lo spazio entro il quale la
creatura razionale può meritarsi di partecipare all’eternità beata di Dio»[42]. Quindi, Agostino ci richiama alla mente un
disegno di Dio Creatore, che si dispiega proprio nel tempo, che diviene il
luogo dove prende dimora l’amore trinitario intervenendo in modi diversi. A
questo disegno divino l’uomo può dare il suo assenso o può rispondere con la
sua ribellione, comunque è chiamato a mettersi in gioco.
Il tempo, allora,
diviene storia, acquista un senso per l’essere umano e non è più soggiogato
dalla presenza del fato e del caso, bensì è fortemente legato alla volontà di
Dio[43].
Certamente, questa storia si avvale di diversi momenti, in quanto l’uomo è
passato da un tempo originario felice, in cui viveva e godeva dell’unione con
Dio, della stabilità e della sicurezza, ad un tempo della molteplicità, della
instabilità e della incertezza, come lo definisce Cipriani, il seaculum del peccato e della morte[44].
È il tempo della distensio animae[45],
ove l’anima subisce la dispersione e la frammentarietà data dalla molteplicità.
Come scrive lo stesso Agostino, «la mia vita scorre nell’afflizione […] mi sono
dissipato nella successione dei tempi che non conosco: di modo che il mio
pensiero, intimo recesso della mia anima, viene smembrato dal tumulto delle
vicende, fino a che purgato e sciolto nel fuoco del tuo amore, io mi immergerò
in Te»[46].
Questo tempo come distensio animae non è dato dall’unione
dell’anima con un corpo corruttibile, tipica concezione di un pensiero
platonico, ma è causato dalla nostra scelta di peccato. Per questo il nostro
convertirci, per Agostino, è ciò che può permetterci di vivere il tempo della
molteplicità senza l’angoscia, bensì nell’attesa del compimento finale.
Soltanto aderendo a Cristo il presente molteplice e dispersivo, decrepito ed
invecchiato, diviene un tempo di redenzione, segnato dalla grazia e proteso
verso l’eternità[47]. Come
scrive nelle Confessioni il Vescovo
di Ippona,
«[…] più cara che la vita è la
tua grazia, e la mia vita è dissipazione, e la tua mano mi ha raccolto nel mio
Signore, il Figliuol dell’uomo, mediatore fra Te, l’Unico, e noi […], dimentico
del passato, non più rivolto alle cose future e transitorie, ma proteso verso
ciò che mi sta davanti, non in dissipazione (secundum distentionem) ma in tensione di spirito (secundum intentionem) – io Lo seguo a
cogliere la palma della celeste chiamata, là dove ascolterò il canto delle
lodi, contemplerò il tuo gaudio che non ha futuro né passato»[48].
2.2.1 La bellezza come relazione di tempo ed
eternità
Analizzando
il libro decimo delle Confessioni,
Andrea Colli nota una complementarità tra l’eterno/bello ed il tempo, dato che
«l’immediatezza
dell’atto percettivo rivela un valore che lo trascende o meglio lo ‘converte’
in un’esperienza di eternità. In questa prospettiva l’itinerario agostiniano
non si costituisce come una ‘corsa ad ostacoli’ verso una meta eterna, quanto
piuttosto come un continuo e costante approfondimento dell’attrattiva nei
confronti delle bellezze mutevoli, in quanto occasione di percezione del bello
attraverso le strutture invariabili in essa inscritte»[49].
Passando all’esame del libro undicesimo, Colli
mostra come Agostino, trattando del tempo, accosti alla distentio altri due movimenti, ossia l’intentio e l’extentio,
che rispettivamente riguardano una riflessione su di sé, il primo, la
possibilità di cogliere gnoseologicamente l’eternità, il secondo[50].
Entrambi questi movimenti non risentono della dispersione del tempo, tanto che
Agostino evidenzia la possibilità di associare «al divenire cronologico il
mantenimento di un ‘essere sempre se stessi’ (intentio), in base a cui l’io può continuare ad affermare di essere
sé, nonostante debba inevitabilmente sottomettersi al decorso temporale»[51].
Nella extentio, invece, si denota la
possibilità posta dal filosofo di Ippona di poter elevare la mente umana a Dio.
Il pensiero, infatti, è quell’intimo recesso della nostra anima, che viene
smembrato dal tumulto delle vicende, fino a che si immerge in Dio purgato e
sciolto nel fuoco del suo amore[52].
Nella bellezza noi possiamo scorgere l’eternità, allo stesso tempo l’antico e
il nuovo, come Agostino immortala nel celeberrimo passo delle sue Confessioni[53]. Una bellezza che attraversa anche le
creature, le «cose belle che Tu hai creato»[54]
e sulle quali il nostro filosofo si buttava, una bellezza che poteva essere
messa a rischio dalla corruzione del tempo e che ci mostra che Dio è «dove
rifulge all’anima mia luce che non ha limiti di spazio, armonia che non
svanisce nel tempo, profumo che il vento non disperde, gusto che la voracità
non nausea, amplesso che la sazietà non scioglie»[55].
Ecco, allora, che la bellezza eterna passa anche tramite la bellezza, che è
stata partecipata alla creature, mostrandoci che l’eternità non si manifesta
come una sorta di Deus ex machina, ma
venga a costituirsi «all’interno dell’esperienza estetica assumendo la fisicità
della bellezza e declinandosi secondo il processo cronologico, senza tuttavia
essere vincolato a esso»[56].
La dinamica che lega in
maniera intrinseca l’eternità con la bellezza ci mostra la vitalogia di questo
autentico filosofo africano, che non si avvale mai di semplici elucubrazioni
metafisiche, bensì usa le sue strutture percettive e l’esperienza che da esse
si genera. In questo modo anche per il problema estetico ha senso prendere le
mosse da quel vissuto temporale in cui esso si manifesta. Come sostiene Colli,
«L’esperienza percettiva della
bellezza non è […] ostaggio di una soggettività arbitraria, ma si sottomette a
rapporti proporzionali stabili e oggettivi secondo cui le cose si manifestano
armoniche, ordinate, unitarie; ed è proprio questa la prospettiva entro cui si
svela la relazione tra la bellezza e l’orizzonte cronologico, poiché tutto ciò
che diciamo essere, lo diciamo in quanto permane ed è uno, l’unità è la forma
di ogni bellezza»[57].
Conclusione
Nella persona il tempo trova la
possibilità di innalzarsi ad eternità e diviene un tempo redento. Con l’essere
umano, abbiamo avuto modo di vedere, che il tempo è storia, grazie all’apporto
della libertà umana, che si fa discontinuità e imprevedibilità nelle scelte e
rende il tempo lacerato e frammentario.
Il tempo redento ci apre la via
all’eternità, al tempo dell’Eterno. Questo è stato il contributo che Agostino
ha portato nel pensiero africano, ossia il vedere nel tempo l’impronta di un
fine ultimo, di una bellezza antica e sempre nuova, che è il contatto con
l’Eterno, l’Immutabile, con ciò che conferisce senso a chi è solo mutabile e
soggetto al divenire, alla creatura. Agostino rilegge l’esperienza che l’uomo
fa del tempo nella dinamica tra Creatore e creatura, per andare oltre la distensio animae e raggiungere una
visione armonica ed unitaria della storia.
La vitalogia agostiniana rispecchia
in maniera evidente la cultura africana di cui l’Ipponate è ovviamente figlio.
Una visione non accademica del tempo, l’incentrarsi del tempo sul presente, la
rilevanza data all’esperienza concreta della persona, sono le caratteristiche
che qualificano la domanda sull’uomo e sulla vita. In Agostino la vitalogia si
arricchisce dell’elemento cristiano, donandole una finalità a volte in essa non
presente.
Il porre in evidenza la
via pulchritudinis ci ha permesso di mostrare come la bellezza
divenga il centro del legame tra il
tempo e l’eternità e come sia una nota caratteristica della vitalogia
agostiniana. In Agostino il futuro, che, per la cultura africana non ha senso
conoscere, assume il volto dell’incontro con quella Bellezza antica e sempre
nuova, che è stata il motore costante della sua ricerca intellettuale e
spirituale. Agostino ha rischiato di perdersi nei meandri del tempo, ma
l’Eterno lo ha chiamato, folgorandolo con il suo splendore[58].
Come sosteneva Mbiti, tutta la nostra vita, può essere compresa grazie alla
religione, poiché il tempo come lo spazio, sono tutti dei modi dove vivere la
fede[59].
[1] G. Pasquale, “Tempo
ed eternità. Ciò che può sillabare la filosofia”, in CredereOggi 29 (2009) p. 55.
[2] Cfr. Agostino, Confessioni, XI, 28 (tr.it a cura di C. Vitali, BUR, Milano 1998 e qui di seguito).
[3] Pasquale, “Tempo
ed eternità”, p. 56.
[4] Cfr. M. Nkafu nkemnkia, Il pensare africano come “vitalogia”, Città Nuova, Roma 1995, p.
49.
[5] Cfr. Id., “Tempo e spazio nel pensiero
africano”, in Aquinas
42 (1999) p. 367.
[7] A questo
riguardo il villaggio diviene il luogo in cui custodire tempo e spazio, mentre
compare la figura degli antenati, «i vivi per eccellenza, per sempre stabiliti
nella invisibile immortalità, membri sempre attivi e pieni di sollecitudine per
la comunità familiare terrena, […] sono più presenti dei viventi sensibili;
incarnano la maggiore simbolizzazione della vita» (L. Boka di Mpasi, “Gli antenati mediatori in Africa”, in La Civiltà Cattolica 4 (1994) p. 371). La cultura africana
conferisce il termine ‘antenato’a coloro, uomini o donne, che hanno dato
origine ad un clan oppure ad una tribù. Come sottolinea Scarin, gli antenati
sono una figura centrale del pensiero africano, in quanto sono «forza
originante, fonte sorgiva, presenza permanente che mantengono in essere la
propria comunità nel susseguirsi delle generazioni, affinché non si
affievoliscano, non si spengano, ma si dilatino in esperienza vitale di
consistenza numerica e vigore intellettuale […]. L’antenato è l’alleato
privilegiato nella relazione “teo-andropica”, tra Dio e l’uomo nella sua
comunità» (A. Scarin, “La
rinascita dell’antenato nelle religioni tradizionali africane”, in CredereOggi 18 (1998) pp. 67 – 68).
L’antenato appartiene alla ‘forza vitale’, a quella vita comune a tutti gli
uomini che si unisce alla vita eterna in una concezione olistica della realtà.
L’antenato, infatti, non rinasce ma prolunga la sua vita nei discendenti a tal
punto che «il nascere dell’antenato è inerente all’esistenza dell’individuo,
del gruppo e del clan, da cui non ci si può scindere. Si potrebbe quindi
affermare che si è persona umana, e tale persona umana, in quanto si proviene
da tale antenato» (Ivi, p. 67).
[9] « “l’io” africano è sempre
uguale a un “tu/voi” […] ogni “io” equivale sempre a un “tu/voi” che richiama
l’alterità […]. “L’Altro/Voi” si confronta sempre con un “Io/Noi” tanto che il
“Noi” vuol dire semplicemente il “vivente” ossia la comunità in quanto
“soggetto reale e sociale”» (Ibidem). La persona si struttura
facendo sì che il “Noi” prevalga sull’ “Io”, dato che per l’individuo è
impossibile realizzarsi al di fuori della sua comunità o tribù, pena l’essere
come un pesce fuor d’acqua. Siamo dinanzi ad una unione vitale così importante
che anche i morti vengono considerati viventi e membri della propria famiglia
in eterno (cfr. Id., Il pensare africano, p. 147). In questo
modo comprendiamo come nella cultura africana veramente il senso della vita di
una persona si trova collocato nel ed attraverso il rapporto che intercorre con gli altri. Ciascuno
contiene l’altro ed ogni africano si sente appartenente ad una specifica tribù
dalla quale proviene e nella quale l’essenza da sperimentare è proprio la
relazione d’amore. Senza amore non vi è comunità e, quindi, risulta impossibile
scoprire il senso della vita. Oltretutto la sua tribù di provenienza decide
anche della qualità della persona, se è degna di una buona reputazione o meno
(cfr. Id., “‘Vitalogia africana’. La visione africana della
persona umana nella prospettiva vitalogica”, in Salesianum 73 (2011) pp. 27 - 29).
[10] La vitalogia è una visione unitaria
della realtà come si presenta alla mente africana. È il criterio della scienza
africana secondo una prospettiva indagata e una terminologia coniata da Martin
Nkafu Nkemnkia, che durante i suoi studi di filosofia si preoccupò di mettersi
alla ricerca dell’essenza di un pensiero africano autoctono non importato dalla
filosofia occidentale. In sintesi il nucleo di questo pensiero tipicamente
africano sta tutto nel mettere al centro il vissuto quotidiano come punto di
partenza di ogni questione e domanda di senso (cfr. Id., “Il
Figlio dell’Uomo e gli uomini del duemila. Le culture africane”, in Nuntium (11/2000) p. 53).
[12] Ibidem.
[13] Nato in Kenia,
Mbiti ha studiato teologia a Cambridge ed il suo testo più famoso è African Religion and Philosophy (ed. it.
Oltre la magia). Per un
approfondimento di questo studioso rimandiamo a Nkafu
nkemnkia, Il pensare africano,
pp. 53 – 64 e, sempre dello stesso autore, “Tempo e spazio nel pensiero
africano”, pp. 375 - 379.
[14] J. S. Mbiti, Oltre la magia, SEI, Torino 1992, p. 17.
[15] Ivi, p. 19.
[16] «Nella società
occidentale o tecnologica, il tempo è un bene che deve essere utilizzato,
venduto o comprato, ma nella vita tradizionale africana il tempo deve essere
creato o prodotto. L’uomo non è schiavo del tempo, invece, egli “fa” tutto il
tempo che desidera» (ivi, pp. 20 –
21).
[17] Cfr. Ivi, pp. 22 – 24.
[18] Cfr. Nkafu nkemnkia, Il pensare africano, pp. 59 – 60
[19] Mbiti, Oltre la magia, pp. 24 – 25.
[20] Cfr. Ivi, p. 25.
[21] Nkafu nkemnkia, “Tempo
e spazio nel pensiero africano”, p. 379.
[22] Cfr. Mbiti, Oltre la magia, p. 26.
[23] Ibidem.
[24] Nkafu nkemnkia, “Tempo
e spazio nel pensiero africano”, p. 380.
[25] Ibidem.
[26] Se non
avvenisse questo passaggio di dimenticanza in maniera graduale ma fosse
subitaneo, ciò significherebbe che il morto-vivente è stato scacciato dal
periodo sasa, è stato, quindi,
scomunicato, e la sua immortalità personale è stata distrutta e lui stesso
consegnato ad uno stato di non esistenza. I viventi che causano tutto ciò,
dimenticandosi subito del loro defunto, rischiano malattie e sfortune varie
(cfr. Mbiti, Oltre la magia, p. 29).
[27] Cfr. Ivi, p. 28.
[28] Cfr. Ivi, p. 29.
[29] Agostino,
Confessioni, XI, 14.
[30] Cfr. F. Dal Bo, “Lo spazio della memoria
nelle ‘Confessioni’ di Agostino”, in Studia
Patavina 47 (2000) p. 156.
[31] Cfr. Agostino, Confessioni, XI, 14.
[32] Cfr. Ivi, XI, 15.
[33] Cfr. Dal Bo, “Lo spazio della memoria”, p.
157.
[34] Agostino, Confessioni, XI, 18.
[35] Cfr. Ibidem.
[36] Ivi, XI, 16.
[37] Cfr. Ivi, XI, 20.
[38] Ivi, XI, 28.
[39] Cfr. Ivi, X, 25.
[40] Cfr. Dal Bo, “Lo spazio della memoria”, p.
157.
[41] N.
Cipriani, “Il tempo in S. Agostino”, in Rivista di
scienze religiose 16 (2002) p. 367.
[43] Cfr. Ivi, pp. 368 - 369.
[44] Cfr. Ibidem.
[45] Il tempo come distensio animae è la definizione dataci
da Plotino, che vede in esso la perdita dell’unità nel cadere nella
dissipazione e nella dispersione. L’anima dovrebbe tornare in se stessa,
riscoprendo la sua natura intelligibile ed eterna, senza interessarsi delle
cose di questo mondo, nemmeno delle opere sociali, che provocano solamente un
aggravamento della situazione già fortemente instabile. L’unica via che il
tempo ci offre è la contemplazione intellettuale tramite la quale possiamo tentare
di attingere all’Uno (cfr. Ivi, p. 366).
[46] Agostino, Confessioni, XI, 29.
[47] Cfr. L. Manca, “Volontà e tempo in S.
Agostino. Uno sguardo a possibili implicazioni reciproche”, in Rivista di Scienze religiose 23 (2009)
p. 170. Afferma Agostino, «L’infanzia se ne vola passando nella fanciullezza;
tu cerchi l’infanzia ed essa non c’è più, perché al suo posto c’è già la
fanciullezza. Ma questa in un attimo vola nell’adolescenza; cerchi la
fanciullezza e non la trovi. L’adolescente diventa giovane; cerchi
l’adolescente e non c’è più. Il giovane diventa vecchio e non lo trovi più. La
nostra vita, nelle sue varie età, non si arresta; e dovunque c’è fatica,
dovunque stanchezza, dovunque deterioramento» (Agostino,
Commento ai Salmi, 62, 6, tr. it a
cura di M. Simonetti, Fondazione
Lorenzo Valla-Mondadori, Roma-Milano 1998).
[48] Id., Confessioni,
XI, 29 (il corsivo è mio).
[49] A. Colli, “Pulchritudo tam antiqua et tam nova. Bellezza e tempo nel pensiero
di Agostino”, in Vivens Homo 19
(2008) p. 173.
[50] Cfr. Ivi, p. 171.
[51] Ibidem.
[52] Cfr. Agostino, Confessioni, XI, 29.
[53] «Tardi ti ho
amato, o bellezza tanto antica e tanto nuova, tardi ti ho amato» (ivi, X, 27).
[54] Ibidem.
[55] Ivi, X, 6.
[56] A. Colli, “Pulchritudo tam antiqua et tam nova, p. 172.
[57] Ivi, p. 168.
[58] Cfr. Agostino, Confessioni, XI, 27.
[59] Cfr. Nkafu nkemnkia, “Tempo
e spazio nel pensiero africano”, pp. 375 - 376. Abbiamo fatto
riferimento nel testo allo spazio trattando di Mbiti, in realtà dobbiamo
precisare che lui amava parlare di luogo piuttosto che di spazio, come Nkafu
Nkemnkia sottolinea.
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