martedì 9 dicembre 2014

La fede in Buber

In queste poche righe voglio offrire una semplice analisi di quelli che sono i primi tre capitoli dell’opera di Martin Buber, Due tipi di fede[1], riguardanti il rapporto tra la fede nella concezione ebraica e in quella cristiana. L’autore le pone una dinanzi all’altra come tipi o generi di fede essenzialmente differenti[2], a tal punto che qualcuno ha preferito calcare maggiormente sulla traduzione ‘generi’ anziché ‘tipi’[3].
L’opera, di cui noi ci soffermiamo in particolar modo sui primi tre capitoli, nasce da un ciclo di lezioni riguardanti l’origine del cristianesimo a partire dall’ebraismo, incontri che Buber tenne, nel 1942, in una piccola sinagoga. Si trattò di un fatto veramente fuori dall’usuale, era la prima volta che in un luogo di culto ebraico venivano commentati dei brani evangelici e si discuteva della ebraicità di Gesù[4].
Il nostro breve elaborato si divide in tre brevi capitoli, che hanno lo scopo di rispondere alla domanda concernente l’essere del credente tramite tre icone neotestamentarie, presentate da Buber stesso all’interno di ogni suo capitolo. Chi è, dunque, il credente? Come si esprime la sua fede? Come in un puzzle, piano piano scopriamo che un credente è tale se fonda la sua esperienza religiosa a partire dalla relazione personale con Dio, una fede-fiducia che è chiamata a precedere la fede-credenza degli asserti della dogmatica. Le questioni teologiche verranno, così, ricondotte alla questione esistenziale, dato che le due esperienze di fede (esistenziale e noetica) derivano sempre dall’esperienza di un uomo. Afferma Buber che «quando io ‘credo’, nell’uno o nell’altra modalità, nel processo del credere entra in gioco tutto il mio essere, la totalità del mio essere, anzi in sostanza il processo del credere diventa possibile solo per il fatto che quel rapporto di fede è un rapporto di tutto il mio essere»[5], inclusa ovviamente l’intera funzione noetica della persona. Addentriamoci, allora, nella lettura di questa opera che segnò gli inizi storici del dialogo ebraico-cristiano.

1.   Il credente come colui che cammina nella via di Dio



«E giunti presso i discepoli, li videro circondati da molta folla e da scribi che discutevano con loro. Tutta la folla, al vederlo, fu presa da meraviglia e corse a salutarlo. Ed egli li interrogò: «Di che cosa discutete con loro?». Gli rispose uno della folla: «Maestro, ho portato da te mio figlio, posseduto da uno spirito muto. Quando lo afferra, lo getta al suolo ed egli schiuma, digrigna i denti e si irrigidisce. Ho detto ai tuoi discepoli di scacciarlo, ma non ci sono riusciti». Egli allora in risposta, disse loro: «O generazione incredula! Fino a quando starò con voi? Fino a quando dovrò sopportarvi? Portatelo da me». E glielo portarono. Alla vista di Gesù lo spirito scosse con convulsioni il ragazzo ed egli, caduto a terra, si rotolava spumando. Gesù interrogò il padre: «Da quanto tempo gli accade questo?». Ed egli rispose: «Dall'infanzia; anzi, spesso lo ha buttato persino nel fuoco e nell'acqua per ucciderlo. Ma se tu puoi qualcosa, abbi pietà di noi e aiutaci». Gesù gli disse: «Se tu puoi! Tutto è possibile per chi crede». Il padre del fanciullo rispose ad alta voce: «Credo, aiutami nella mia incredulità». Allora Gesù, vedendo accorrere la folla, minacciò lo spirito immondo dicendo: «Spirito muto e sordo, io te l'ordino, esci da lui e non vi rientrare più». E gridando e scuotendolo fortemente, se ne uscì. E il fanciullo diventò come morto, sicché molti dicevano: «È morto». Ma Gesù, presolo per mano, lo sollevò ed egli si alzò in piedi. Entrò poi in una casa e i discepoli gli chiesero in privato: «Perché noi non abbiamo potuto scacciarlo?». Ed egli disse loro: «Questa specie di demòni non si può scacciare in alcun modo, se non con la preghiera» (9, 14-29).

L’evento si incentra tutto sul binomio credere-potere[6], a partire dal quale si evince come la fede di Gesù, evidenziata dal nostro filosofo, possa essere considerata una emunà pura, contro la quale si scontra la fede dei discepoli. Gesù guarisce perché crede, i discepoli non possono guarire perché non credono. Così l’evangelista pone sulle labbra del padre l’espressione «aiuta la mia incredulità» (v. 24), esclamazione che dovrebbe essere posta sulla bocca, invece, dei seguaci di Gesù, come attestazione della loro incapacità di compiere il miracolo richiesto.
La fede, quindi, si mostra essere non prettamente e solamente un fatto concernente il cuore della persona, in quanto le proprie convinzioni interiori non sono sufficienti. Buber lo sottolinea molto attentamente riportando l’episodio di Simon Mago, che volle volare dal Campidoglio verso il luogo dove si trovava Nerone. Era certo di poter volare, ma in quel gesto che compie trova solo la sua morte[7].  Gesù non è un uomo che crede di poter guarire, perché ritiene di possedere delle capacità straordinarie tipiche di un mago, non è uno stregone con dei poteri particolari. La fede genuina è proprio dell’uomo in quanto tale e non solo dell’uomo Gesù, come potere legato alla sua persona. Il passo parallelo dell’evangelista Matteo esplicita, secondo Buber, proprio questa considerazione, mettendo a confronto la poca fede con l’incredulità. Nel testo evangelico si legge che

«Appena ritornati presso la folla, si avvicinò a Gesù un uomo che, gettatosi in ginocchio, gli disse: «Signore, abbi pietà di mio figlio. Egli è epilettico e soffre molto; cade spesso nel fuoco e spesso anche nell'acqua; l'ho già portato dai tuoi discepoli, ma non hanno potuto guarirlo». E Gesù rispose: «O generazione incredula e perversa! Fino a quando starò con voi? Fino a quando dovrò sopportarvi? Portatemelo qui». E Gesù gli parlò minacciosamente, e il demonio uscì da lui e da quel momento il ragazzo fu guarito. Allora i discepoli, accostatisi a Gesù in disparte, gli chiesero: «Perché noi non abbiamo potuto scacciarlo?». Ed egli rispose: «Per la vostra poca fede. In verità vi dico: se avrete fede pari a un granellino di senapa, potrete dire a questo monte: spostati da qui a là, ed esso si sposterà, e niente vi sarà impossibile. [Questa razza di demòni non si scaccia se non con la preghiera e il digiuno]» (17, 14-21).

Il capitolo primo di Buber termina analizzando un’altra congruenza tra Mc ed Is, una vicinanza linguistica legata al partecipio ‘credente’, colui che crede, usato in maniera assoluta, senza l’indicazione di ciò in cui si crede. Infatti, aggiungere a credente ‘in Dio’[10], provocherebbe un indebolimento del concetto stesso di credente, dato che «ogni aggiunta, che solitamente serve a caratterizzare uno stato psichico, non riuscirebbe affatto a cogliere la cosa intesa, ossia la realtà relazionale che per natura sua trascende il mondo della persona»[11].

2.   Il credente come colui che ha fiducia


Anche il secondo capitolo dell’opera di Buber, che stiamo esaminando, viene introdotto con una immagine evangelica, quella della predicazione di Gesù in Galilea con il suo pressante invito alla conversione, giacché il Regno di Dio si è avvicinato[12]. Riferendosi ad uno studio di Klostermann[13], il nostro filosofo ebreo affronta, inizialmente, il problema riguardante la storicità del versetto evangelico per poi focalizzarsi sul come prestar fede alla signoria di Dio sul mondo che si avvicina. L’uomo deve prestar fede, deve afferrare questo contenuto centrale del messaggio e, per farlo, è chiamato ad ascoltare, distogliendosi dalle sue vie sbagliate e ponendosi sulla strada di Dio, entrando nella comunione con lui e abbandonandosi al suo potere[14].
Ma l’aver fiducia non può essere considerato come «un semplice stato d’animo che viene esigito a integrazione della conversione»[15]. La fiducia a cui si richiama Buber non può essere una mera pistis, bensì deve assumere i caratteri dell’emunà, deve essere un coinvolgimento totale della intera vita del credente e della sua persona, un affidamento totale della sua persona e non solamente un riconoscer per vero che[16]. Quindi la teshuvà, ossia la conversione vista nella prospettiva del tornare indietro, ritornare, viene concepita proprio come un tornare a Dio impegnando tutta la dimensione psicofisica dell’uomo. In questo modo scopriamo, in questo rapporto con Dio, tre principi fondamentali della fede umana, ossia il riconoscimento della sovranità regale, la fedeltà a lui come conversione totale e l’emunà[17]. Questa dimensione della fede viene assimilata dal nostro filosofo alla relazione fra due partner, un dialogo che, anche se venisse intessuto da due interlocutori non alla pari, è chiamato a conservare sempre una certa libertà.
Analizzando alcuni testi veterotestamentari Buber cerca di comprendere sempre più in profondità il significato originario da attribuire alla fede. Nel testo di 2Cr 20,20 troviamo l’invito a credere da parte di Giosafat al suo esercito prima di partecipare al combattimento, mentre in Is 7, 9 l’oracolo di Isaia ad Acaz di Giuda, nel quale si pone il nesso tra l’aver fiducia e l’essere stabili. Il tener testa come il tener duro sono i significati originari a cui rimandano l’aver fiducia e il credere[18], tanto che «La vera consistenza delle fondamenta di un’esistenza umana deriva dalla vera consistenza del rapporto basilare di quest’uomo con la Potenza che fonda il suo essere»[19]. Inquadrando la fede solo entro la dimensione della pistis, non riusciamo a cogliere il carattere esistenziale della fede, espresso dall’emunà.
Concludendo il secondo capitolo della sua opera Buber propone una sintesi tra il pensiero di Isaia e quello di Gesù, affermando come entrambi non vogliano intendere una fede in Dio, ma «una fede che si realizzi nella totalità della vita»[20].

3.   Il credente come colui che dubita e dialoga con se stesso




Siamo dinanzi alla differenza fra due generi di fede, sostiene Buber terminando il suo capitolo, tra la fede come condizione nella quale uno si trova (emunà) e la fede come avvenimento che ci succede o un atto che si è compiuto (pistis). Il popolo di Israele non è ancorato ad una fede che acquisisca la forma di una mera proposizione di fede[25], bensì ad un esercizio dell’affidamento di tutto se stessi, un atto di abbandono in Colui che è credibile. Il credere veterotestamentario diviene allora un atto complesso che non può essere considerato né isolato né teorico, ma può costituire un atteggiamento principalmente di fiducia e di certezza, nel quale il credente si trova immerso con tutta la sua esistenza. Il Dio di Israele è un Dio fedele e verso di lui e della sua parola ci si può abbandonare con un’obbedienza veramente incrollabile[26].

 

Conclusione


Buber termina la sua opera sui due tipi di fede evidenziando come la crisi del nostro tempo interessi sia l’emunà che la pistis. Infatti la fede ebraica è stata colpita dalla divaricazione della nazione dalla religione, tramite il fenomeno della secolarizzazione avvenuto durante l’emancipazione promossa dall’Illuminismo ebraico; e così «una fede come la emunà, nella quale la religiosità del singolo è così profondamente legata a quella del suo popolo, risente del declino delle comunità tradizionali»[27]. La fede cristiana, invece, risente fortemente della crisi dell’individuo, di una fede vissuta nella interiorità senza possibilità di manifestarsi esteriormente. A questa crisi Buber prospetta una possibilità di soluzione, che trova il suo nucleo in un avvicinamento dei due tipi di fede tramite un dialogo incessante e fruttuoso, in vista di un profondo rinnovamento: l’Ebraismo dovrebbe sforzarsi, infatti, a porre al centro l’unicità della persona umana nel vivere la fede comunitaria, mentre al Cristianesimo dovrebbe essere chiesto di uscire da un certo individualismo della fede per vivere maggiormente la sua dimensione comunitaria.
Questo dialogo, che il nostro filosofo propose, fu un passo stupefacente nel cammino di queste due fedi, dopo secoli di reciproco disprezzo. Buber rivaluta Gesù per la sua fede, definendolo uno dei massimi esponenti dell’emunà ebraica[28], ponendosi così in quel  cambiamento culturale di riscoperta della figura e dell’ebraicità del Gesù storico iniziata, in particolar modo, con la pubblicazione a Gerusalemme nel 1922 di Yesù ha-Nozrì di Joseph Klausner. Gesù veniva spogliato dalle contaminazioni ellenistiche per essere restituito al mondo ebraico[29]. Buber, a nostro avviso, prosegue su questa linea e lo fa cercando di analizzare la fede gesuana, da lui ritenuta una fede tipicamente e totalmente ebraica.
Il rapporto tra pistis ed emunà non è sempre così chiaro negli studiosi che interpretano il pensiero di Buber, dato che non sembra per tutti molto nitida la differenza che il nostro autore ebreo propone delle due. Un esempio è il giudizio di David Flusser nella Postfazione ai Due tipi di fede, dove sostiene che «quello dei due generi di fede sia un problema interno al Cristianesimo»[30] e che la pistis greca alla fine significhi la medesima cosa della emunà ebraica, dato che la fede è «un bisogno umano universale che nasce continuamente per necessità di natura anche non-religiosa»[31].
L’attualità dell’opera di Buber e del suo pensiero la possiamo ritrovare nel dibattito fra la religione e la modernità, tema che stava molto a cuore allo stesso nostro filosofo ebreo, alla quale dedicò nel 1953 una raccolta di testi intitolata L’eclissi di Dio[32]. Dinanzi ad interlocutori come Heidegger, Sartre e Jung o al grido di Nietzsche, che denunciano una crisi della religione[33], Buber incalza sostenendo che Dio non è morto, bensì si è eclissato, dato che nel rapporto tra noi o lui si è posto un Ego onnipotente, che tutto possiede, tutto fa e a tutto si adatta e che non è capace di riconoscere né Dio né un reale Assoluto, che manifesti la sua origine non-umana all’uomo. L’Ego ci oscura la luce del cielo[34]. La filosofia di Jung ci ha fatto perdere la relazione dialogica con Dio, con il Tu che è finito per divenire semplicemente un contenuto psicologico, reale solo nell’uomo che lo può pensare e sentire. Buber critica la cultura moderna, perché, se ha prodotto un ritorno al sacro, mostra il divino come ciò che è misterioso in noi e non come un Altro che ci sta di fronte e con il quale possiamo veramente dialogare e comunicare[35]. La sfida accolta dal nostro filosofo è la sfida che viene rivolta anche a noi dall’attuale paradigma culturale, sfida alla quale siamo chiamati a rispondere rimpossessandoci e riscoprendo la dimensione esistenziale e noetica della nostra fede.



[1] M. Buber, Due tipi di fede. Fede ebraica e fede cristiana, San Paolo, Cinisello Balsamo 1995 (ed. orig. Zwei Glaubensweisen, Gerlingen, Verlag Lambert Schneider, Zürich 1950).
[2] Cfr. N. Bombaci, “Due tipi di fede di Martin Buber. La problematicità di una distinzione alla luce del dibattito critico”, in Itinerarium 9 (2001) p. 127.
[3] Nella prefazione all’edizione italiana dell’opera di Buber Sorrentino traduce, ad eccezione che nel titolo, Glaubensweiseni con ‘generi di fede’, poiché vuole evidenziare come l’emunà e la pistis abbiano proprio una differenza sostanziale, di genere, riprendendo questo tipo di traduzione dal libro di Schleiermacher Dottrina della fede. Siamo dinanzi ad una scelta metodologica discutibile, dato che l’emunà e la pistis possono essere anche intese come due tipologie della stessa fede, giacché Buber mostra un intreccio tra l’aver fiducia in qualcuno e il credere per vero che sia avvenuta una certa cosa.
[4] Cfr. Bombaci, “Due tipi”, p. 129.
[5] Buber, Due tipi, p. 58.
[6] Buber definisce questi due termini ‘parole-motivo’ (cfr. Buber, Due tipi p. 67).
[7] Cfr. Ibidem, pp. 68-69.
[8] Ibidem, p. 70.
[9] Cfr. Ibidem, p. 71.
[10] Questa aggiunta, evidenzia Buber, non è presente nemmeno nei vangeli sinottici (cfr. Ibidem, p. 72).
[11] Ivi.
[12] Cfr. Mc 1, 15; Mt 3,2 e 4, 17.
[13] Das Markusevangelium, Tübingen, 19262.
[14] Cfr. Buber, Due tipi, p. 74.
[15] Ivi.
[16] Analizzando il valore semantico della fede, Fisichella giunge a sostenere che il termine neotestamentario pistis non trova riscontro nella concezione veterotestamentaria di un’emunà, che prima di esser intesa come fede, indica l’onestà, la verità e la lealtà di Dio che si mostra fedele nel mantenere le sue promesse (cfr. Dt 7, 9; Is 49, 7). Il termine ebraico risulta essere, nella sua espressione di fede, molto complesso, dato che sottintende vari atteggiamenti del pio israelita, quali il rifugiarsi, l’attendere, il confidare, lo sperare, il trovare riparo e l’avere timore (cfr. R. Fisichella, La fede come risposta di senso. Abbandonarsi al mistero, Figlie di San Paolo, Milano 2005, pp. 71-72).
[17] Cfr. Buber, Due tipi, p. 77.
[18] Buber sottolinea, a questo proposito, come la radice ebraica ‘amn esprima proprio questo significato di tener testa e tener duro, secondo una forma verbale causativa (aver fiducia, porre la propria confidenza in) e una forma verbale passiva (essere sostenuti, essere stabili). Chiarisce Fisichella, trattando della radice originaria del credere, che se «nell’uso comune della lingua ‘credere’ equivale ad appoggiarsi su qualcuno che offre garanzie (Gen 45, 26), riferito a Jhwh, invece, esprime l’atto dell’abbandono totale e fiducioso in lui, perché lo si scopre come un Dio geloso e fedele […]. L’intera esistenza personale deve essere posta nel solco del rapporto con Jhwh; il cuore del credente deve essere ‘indiviso’ (Os 10, 2) […]. Fuori da questo orizzonte, rimane solo il tradimento dell’uomo e la sua apostasia verso altri dèi; in una parola, il peccato di chi ha abbandonato Dio e per questo cade nell’incapacità di ritrovare unità nella propria esistenza. Il cuore diventa ‘diviso’, incapace di amare e alla fine sfocia nella solitudine della morte» (La fede, pp. 72-73).
[19] Ivi.
[20] Ibidem, p. 78.
[21] Cfr. Ibidem, p. 79. Buber rimane, comunque, scettico e critico verso questa interpretazione, osservando come la domanda posta da Gesù non possa essere intesa né come una domanda vera e propria né come una domanda socratica e possa essere, invece, una semplice conversazione avvenuta tra il Maestro e i suoi camminando per la strada. Buber si distanzia, allora, da Bultmann e rilegge in questo dialogo anche la difficoltà da parte di un uomo di prendere coscienza di se stesso. Stessa considerazione viene fatta per ciò che concerne il racconto delle tentazioni di Gesù nel deserto. Secondo Bombaci, l’interpretazione di Buber non è condivisa da Ben-Chorin, il quale, più che un’esplicitazione di una incertezza, vede nella questione sollevata da Gesù una ‘domanda d’amore’, un atto d’amore che richiede la prova d’amore (cfr. Bombaci, “Due tipi”, p. 130).
[22] Secondo Buber l’atteggiamento dialogico presentatoci dall’evangelista Marco è quello tipico dell’uomo biblico originario, che riesce a cogliere l’eterno nel profondo dell’attimo reale piuttosto che nello spirito fuori del tempo. Gesù, nella tradizione sinottica, è situato proprio in questa visione biblica originaria (cfr. Buber, Due tipi, p. 82). La critica di Buber dell’aver causato il passaggio dall’emunà alla pistis ricade, allora, sul testo giovanneo e sulle lettere paoline, che spogliano l’emunà  altamente pura del Nazareno per la creazione della figura di un Cristo, nel quale nemmeno lo stesso Gesù avrebbe creduto. Gesù non vuole essere considerato un Dio da venerare, ma desidera soltanto esortare i suoi discepoli ad aver fiducia, ad aprirsi senza mediazioni né esitazioni al rapporto con Dio, alla relazione di dialogo con il Tu eterno (cfr. N. Bombaci, “Ebraismo e Cristianesimo: «due tipi di fede» a confronto nel pensiero di Martin Buber”, in http://mondodomani.org/dialegesthai/par.7). Paolo di Tarso è stato colui che ha segnato con le sue lettere il passaggio dal Nazareno al Cristo da venerare e «l' ‘immagine’ del Figlio creata dalla teologia giovannea e paolina, lungi dal ‘rivelare’ all'uomo la misericordia del Padre, si interpone tra Dio e l'uomo, precludendo a questi l'immediatezza della relazione che è propria della religiosità autentica. Inoltre, la dicotomia instaurata dal pensiero di Paolo tra vita e spirito, natura e soprannatura, ha creato le premesse per una visione del mondo, ampiamente diffusa nella cultura dei paesi nei quali si è affermato storicamente il cristianesimo, per la quale la realtà storica e cosmica sono consegnate, dal volere di un Dio ‘nascosto’, in balìa di forze cieche e tiranniche» (Ivi).
[23] L’esempio che Buber introduce riguarda il patriarca Abramo, il quale ammette in maniera immediata che il Non-Presente è presente a partire dalla sua ferma fiducia. Abramo crede perché ha fiducia, sottolinea il nostro filosofo, e non viceversa (cfr. Buber, Due tipi, p. 82 nota 5). Il Bombaci scrive che ad Abramo è dato di vedere il cammino di Dio e su questo cammino muove i suoi passi a tal punto che nella maturità di fede di questo patriarca coesiste, tra lui e Dio, la reciprocità del vedere e dell’essere visto. Abramo non si affida tanto alla verità della promessa fattagli da Dio, ma confida in Colui che gli si è rivelato entrando in relazione con lui. Assistiamo nel Patriarca ad una conferma della verità che asserisce noeticamente con il suo atto di fede fiduciale, nella quale essa diviene verità per qualcuno e non semplicemente una verità logico-filosofica. È l’atto vitale che coglie la verità da credere. In questo modo comprendiamo come l’emunà sia fatta di fedeltà e fiducia. Non è tanto Dio, allora, a confermare l’uomo, ma l’uomo a confermarsi di fronte a Dio con la sua volontà e con il suo agire. In questo modo Buber vuole evitare il giuridicismo che macchia Paolo e la teologia cristiana, dove la giustificazione sembra scendere dall’alto in base alla professione della verità da credere nella fede. L’atto di fiducia, e non solamente il credere che o il ritener per vero, deve essere ciò che permette l’accesso ad una relazione autentica con Dio (cfr. Bombaci, “Ebraismo e Cristianesimo”, par. 6). Interessante e degno di nota è anche il paragrafo che Fisichella dedica alla fede di Abramo, come luogo di convergenza delle tre grandi religioni monoteiste, che vedono in essa tre espressioni chiave: «fiducia piena e totale nelle promesse che Jhwh compie, obbedienza alla parola e al comando che gli viene rivolto e, infine, conoscenza di Dio negli avvenimenti della sua vita. Abramo, quindi, crede a Dio che gli promette una discendenza nonostante l’età avanzata sua e di Sara, si affida a lui e si abbandona alla sua parola, ma nello stesso tempo ha piena certezza che la promessa fatta si sarebbe realizzata» (La fede, pp. 79-80).
[24] Cfr. Id., “Due tipi”, p. 134.
[25] Interessante è la nota critica che Buber pone nei confronti di un Giudaismo medievale, che abbia inclinato verso un credere come una professione di fede in senso dogmatico tanto rigida come quella professata dalla Chiesa cristiana (cfr. Buber, Due tipi, p. 83). Si sta ovviamente riferendo a Mosè Maimonide (1135-1204), che volle riassumere in tredici articoli la fede del popolo ebraico: 1.esistenza del creatore; 2. la sua unità; 3. la sua immaterialità; 4. la sua eternità; 5. l’obbligo di servire e adorare lui solo; 6. l’esistenza della profezia; 7. la superiorità di Mosè su tutti i profeti; 8. la rivelazione della Legge a Mosè sul Sinai; 9. la natura invariabile della Legge; 10. l’onniscienza di Dio; 11. la ricompensa sia in questo che nell’altro mondo; 12. la venuta del Messia; 13. la risurrezione dei morti (cfr.  H. Wahle, Ebrei e cristiani in dialogo: un patrimonio in comune da vivere, Paoline, Milano 2000, pp. 38ss; P. Coda – C. Hennecke (a cura di), La fede: evento e promessa, Città Nuova, Roma 2000, pp. 198ss).
[26] Cfr. Fisichella, La fede, p. 80.
[27] Bombaci, “Ebraismo e Cristianesimo”, par 7.
[28] Cfr. Buber, Due tipi, p. 175.
[29] La letteratura su questa tematica è veramente sterminata, noi ci limitiamo a rimandare per una breve e sintetica analisi al recentissimo N. Ciola, Gesù Cristo Figlio di Dio.I. Vicenda storica e sviluppi della tradizione ecclesiale, Borla, Roma 2012, pp. 47-60.
[30] D. Flusser, A proposito di «Due tipi di fede» di Martin Buber, in Buber, Due tipi, p. 211.
[31] Ivi.
[32] M. Buber, L’eclissi di Dio. Considerazioni sul rapporto tra religione e filosofia, Mondadori, Milano 1990 (ed. orig. Gottesfinsternis, Manesse Verlag , Zürich 1953).
[33] Al dialogo e al confronto con questi eminenti esponenti del pensiero filosofico moderno Buber dedica il capitolo intitolato “La religione e il pensiero moderno” (cfr. Ibidem, pp. 69-98).
[34] Cfr. Ibidem, p. 127.
[35] Cfr. S. Quinzio, Introduzione, in Buber, L’eclissi di Dio, p. 7.

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