In queste poche righe voglio offrire una
semplice analisi di quelli che sono i primi tre capitoli dell’opera di Martin
Buber, Due tipi di fede[1],
riguardanti il rapporto tra la fede nella concezione ebraica e in quella cristiana.
L’autore le pone una dinanzi all’altra come tipi o generi di fede
essenzialmente differenti[2], a
tal punto che qualcuno ha preferito calcare maggiormente sulla traduzione
‘generi’ anziché ‘tipi’[3].
L’opera,
di cui noi ci soffermiamo in particolar modo sui primi tre capitoli, nasce da
un ciclo di lezioni riguardanti l’origine del cristianesimo a partire
dall’ebraismo, incontri che Buber tenne, nel 1942, in una piccola sinagoga. Si
trattò di un fatto veramente fuori dall’usuale, era la prima volta che in un
luogo di culto ebraico venivano commentati dei brani evangelici e si discuteva
della ebraicità di Gesù[4].
Il
nostro breve elaborato si divide in tre brevi capitoli, che hanno lo scopo di rispondere
alla domanda concernente l’essere del credente tramite tre icone
neotestamentarie, presentate da Buber stesso all’interno di ogni suo capitolo. Chi
è, dunque, il credente? Come si esprime la sua fede? Come in un puzzle, piano
piano scopriamo che un credente è tale se fonda la sua esperienza religiosa a
partire dalla relazione personale con Dio, una fede-fiducia che è chiamata a
precedere la fede-credenza degli asserti della dogmatica. Le questioni
teologiche verranno, così, ricondotte alla questione esistenziale, dato che le
due esperienze di fede (esistenziale e noetica) derivano sempre dall’esperienza
di un uomo. Afferma Buber che «quando io ‘credo’, nell’uno o nell’altra
modalità, nel processo del credere entra in gioco tutto il mio essere, la
totalità del mio essere, anzi in sostanza il processo del credere diventa
possibile solo per il fatto che quel rapporto di fede è un rapporto di tutto il
mio essere»[5],
inclusa ovviamente l’intera funzione noetica della persona. Addentriamoci,
allora, nella lettura di questa opera che segnò gli inizi storici del dialogo ebraico-cristiano.
1.
Il credente come colui che cammina nella via di Dio
L’immagine, che apre il trittico
dipinto da Buber e riguardante la figura del credente, è quella della richiesta
di guarigione di un ragazzo fatta da un padre a Gesù, come ci viene attestata
dall’evangelista Marco,
«E giunti presso i discepoli, li videro circondati da molta
folla e da scribi che discutevano con loro. Tutta la folla, al vederlo, fu
presa da meraviglia e corse a salutarlo. Ed egli li interrogò: «Di che cosa
discutete con loro?». Gli rispose uno della folla: «Maestro, ho portato da te
mio figlio, posseduto da uno spirito muto. Quando lo afferra, lo getta al suolo
ed egli schiuma, digrigna i denti e si irrigidisce. Ho detto ai tuoi discepoli
di scacciarlo, ma non ci sono riusciti». Egli allora in risposta, disse loro:
«O generazione incredula! Fino a quando starò con voi? Fino a quando dovrò
sopportarvi? Portatelo da me». E glielo portarono. Alla vista di Gesù lo
spirito scosse con convulsioni il ragazzo ed egli, caduto a terra, si rotolava
spumando. Gesù interrogò il padre: «Da quanto tempo gli accade questo?». Ed
egli rispose: «Dall'infanzia; anzi, spesso lo ha buttato persino nel fuoco e
nell'acqua per ucciderlo. Ma se tu puoi qualcosa, abbi pietà di noi e aiutaci».
Gesù gli disse: «Se tu puoi! Tutto è possibile per chi crede». Il padre del
fanciullo rispose ad alta voce: «Credo, aiutami nella mia incredulità». Allora
Gesù, vedendo accorrere la folla, minacciò lo spirito immondo dicendo: «Spirito
muto e sordo, io te l'ordino, esci da lui e non vi rientrare più». E gridando e
scuotendolo fortemente, se ne uscì. E il fanciullo diventò come morto, sicché
molti dicevano: «È morto». Ma Gesù, presolo per mano, lo sollevò ed egli si
alzò in piedi. Entrò poi in una casa e i discepoli gli chiesero in privato:
«Perché noi non abbiamo potuto scacciarlo?». Ed egli disse loro: «Questa specie
di demòni non si può scacciare in alcun modo, se non con la preghiera»
(9, 14-29).
L’evento si incentra tutto sul
binomio credere-potere[6],
a partire dal quale si evince come la fede di Gesù, evidenziata dal nostro
filosofo, possa essere considerata una emunà
pura, contro la quale si scontra la fede dei discepoli. Gesù guarisce
perché crede, i discepoli non possono guarire perché non credono. Così
l’evangelista pone sulle labbra del padre l’espressione «aiuta la mia
incredulità» (v. 24), esclamazione che dovrebbe essere posta sulla bocca,
invece, dei seguaci di Gesù, come attestazione della loro incapacità di
compiere il miracolo richiesto.
La fede, quindi, si mostra essere
non prettamente e solamente un fatto concernente il cuore della persona, in
quanto le proprie convinzioni interiori non sono sufficienti. Buber lo
sottolinea molto attentamente riportando l’episodio di Simon Mago, che volle
volare dal Campidoglio verso il luogo dove si trovava Nerone. Era certo di
poter volare, ma in quel gesto che compie trova solo la sua morte[7]. Gesù non è un uomo che crede di poter
guarire, perché ritiene di possedere delle capacità straordinarie tipiche di un
mago, non è uno stregone con dei poteri particolari. La fede genuina è proprio
dell’uomo in quanto tale e non solo dell’uomo Gesù, come potere legato alla sua
persona. Il passo parallelo dell’evangelista Matteo esplicita,
secondo Buber, proprio questa considerazione, mettendo a confronto la poca fede
con l’incredulità. Nel testo evangelico si legge che
«Appena ritornati
presso la folla, si avvicinò a Gesù un uomo che, gettatosi in ginocchio, gli
disse: «Signore, abbi pietà di mio figlio. Egli è epilettico e soffre molto;
cade spesso nel fuoco e spesso anche nell'acqua; l'ho già portato dai tuoi
discepoli, ma non hanno potuto guarirlo». E Gesù rispose: «O generazione
incredula e perversa! Fino a quando starò con voi? Fino a quando dovrò sopportarvi?
Portatemelo qui». E Gesù gli parlò minacciosamente, e il demonio uscì da lui e
da quel momento il ragazzo fu guarito. Allora i discepoli, accostatisi a Gesù
in disparte, gli chiesero: «Perché noi non abbiamo potuto scacciarlo?». Ed egli
rispose: «Per la vostra poca fede. In verità vi dico: se avrete fede pari a un
granellino di senapa, potrete dire a questo monte: spostati da qui a là, ed
esso si sposterà, e niente vi sarà impossibile. [Questa razza di demòni non si
scaccia se non con la preghiera e il digiuno]» (17, 14-21).
Chi crede entra nella sfera di Dio,
dove vige l’onnipossibilità, che è ben altra cosa dall’onnipotenza di Dio
intesa come attributo di Colui che può far tutto. Il credente «non possiede il
potere di Dio; al contrario, il potere [di Dio] possiede lui: se e quando egli
si è consegnato a esso ed è dedito ad esso»[8].
L’immagine di credente che si va
delineando dalla interpretazione di Buber non si può trovare né nel mondo
ellenistico né in nessuna altra opera precristiana che non sia quella
veterotestamentaria, dove è ben definita. Possiamo mostrare quanto stiamo
affermando direttamente con le parole del profeta Isaia, «Dice il Signore Dio:
Ecco io pongo una pietra in Sion, una pietra scelta, angolare, preziosa,
saldamente fondata: chi crede non vacillerà» (28, 16). Chi crede non vuole
accelerare la volontà di Dio con l’esercizio della preghiera, come sono
abituati a fare gli increduli e come è tipico della visione neotestamentaria,
poiché chi crede vuole operare secondo i tempi di Dio, vuole camminare nella
sua volontà[9].
Ma Buber non evidenzia solo ciò che differenzia l’AT dal NT, ma legge nelle due
concezioni del credente passivo e di quello attivo anche una vicinanza, dovuta
al fatto che se il credente opera è perché è giunta l’ora di Dio, è Dio stesso
che lo esorta ad agire. Il credente impotente, il malato del vangelo, diviene
potente perché è Dio a renderlo tale, anche se a volte l’uomo non ne sia
nemmeno consapevole.
Il
capitolo primo di Buber termina analizzando un’altra congruenza tra Mc ed Is,
una vicinanza linguistica legata al partecipio ‘credente’, colui che crede,
usato in maniera assoluta, senza l’indicazione di ciò in cui si crede. Infatti,
aggiungere a credente ‘in Dio’[10],
provocherebbe un indebolimento del concetto stesso di credente, dato che «ogni
aggiunta, che solitamente serve a caratterizzare uno stato psichico, non
riuscirebbe affatto a cogliere la cosa intesa, ossia la realtà relazionale che
per natura sua trascende il mondo della persona»[11].
2. Il
credente come colui che ha fiducia
Anche
il secondo capitolo dell’opera di Buber, che stiamo esaminando, viene
introdotto con una immagine evangelica, quella della predicazione di Gesù in
Galilea con il suo pressante invito alla conversione, giacché il Regno di Dio
si è avvicinato[12].
Riferendosi ad uno studio di Klostermann[13], il
nostro filosofo ebreo affronta, inizialmente, il problema riguardante la
storicità del versetto evangelico per poi focalizzarsi sul come prestar fede
alla signoria di Dio sul mondo che si avvicina. L’uomo deve prestar fede, deve
afferrare questo contenuto centrale del messaggio e, per farlo, è chiamato ad
ascoltare, distogliendosi dalle sue vie sbagliate e ponendosi sulla strada di
Dio, entrando nella comunione con lui e abbandonandosi al suo potere[14].
Ma
l’aver fiducia non può essere considerato come «un semplice stato d’animo che
viene esigito a integrazione della conversione»[15]. La
fiducia a cui si richiama Buber non può essere una mera pistis, bensì deve assumere i caratteri dell’emunà, deve essere un coinvolgimento totale della intera vita del
credente e della sua persona, un affidamento totale della sua persona e non
solamente un riconoscer per vero che[16].
Quindi la teshuvà, ossia la
conversione vista nella prospettiva del tornare indietro, ritornare, viene
concepita proprio come un tornare a Dio impegnando tutta la dimensione
psicofisica dell’uomo. In questo modo scopriamo, in questo rapporto con Dio,
tre principi fondamentali della fede umana, ossia il riconoscimento della
sovranità regale, la fedeltà a lui come conversione totale e l’emunà[17].
Questa dimensione della fede viene assimilata dal nostro filosofo alla
relazione fra due partner, un dialogo che, anche se venisse intessuto da due
interlocutori non alla pari, è chiamato a conservare sempre una certa libertà.
Analizzando
alcuni testi veterotestamentari Buber cerca di comprendere sempre più in
profondità il significato originario da attribuire alla fede. Nel testo di 2Cr
20,20 troviamo l’invito a credere da parte di Giosafat al suo esercito prima di
partecipare al combattimento, mentre in Is 7, 9 l’oracolo di Isaia ad Acaz di
Giuda, nel quale si pone il nesso tra l’aver fiducia e l’essere stabili. Il tener testa come il tener duro sono i significati originari a cui rimandano l’aver
fiducia e il credere[18],
tanto che «La vera consistenza delle fondamenta di un’esistenza umana deriva
dalla vera consistenza del rapporto basilare di quest’uomo con la Potenza che
fonda il suo essere»[19].
Inquadrando la fede solo entro la dimensione della pistis, non riusciamo a cogliere il carattere esistenziale della
fede, espresso dall’emunà.
Concludendo
il secondo capitolo della sua opera Buber propone una sintesi tra il pensiero
di Isaia e quello di Gesù, affermando come entrambi non vogliano intendere una
fede in Dio, ma «una fede che si realizzi nella totalità della vita»[20].
3. Il
credente come colui che dubita e dialoga con se stesso
La
terza immagine neotestamentaria, introdotta da Buber, è tratta dal dialogo
marciano tra Gesù e i suoi discepoli. A Gesù interessa sapere cosa pensino i
suoi discepoli di lui,
«Poi Gesù partì con i suoi discepoli verso i villaggi
intorno a Cesarèa di Filippo; e per via interrogava i suoi discepoli dicendo:
Chi dice la gente che io sia? Ed essi gli risposero: Giovanni il Battista,
altri poi Elia e altri uno dei profeti. Ma egli replicò: E voi chi dite che io
sia? Pietro gli rispose: Tu sei il Cristo. E impose loro severamente di non
parlare di lui a nessuno» (8, 27-30).
Anche
in questo capitolo Buber inizia la sua esposizione trattando della ricerca
critica del testo evangelico e mostrando come questa pericope dell’evangelista
Marco possa essere considerata da alcuni studiosi, tra cui Bultmann, una
leggenda di fede, usata dalla comunità nel momento in cui volle professare la
propria confessione di fede. Il nostro filosofo si distanzierà, però, da questa
interpretazione, volendo evidenziare nella domanda posta da Gesù i dubbi che
nutre un uomo, un credente anche santo[21].
Il Gesù di Marco esalta, possiamo affermare, la capacità del credente di
entrare in crisi e di dialogare per prendere coscienza della fede che nutre:
non sarà così nella visione giovannea.
Nel
racconto di Giovanni ci troviamo nel momento in cui il parlare di Gesù si fa
più duro e la sequela richiesta diviene faticosa, a tal punto che molti
iniziano a lasciare il Maestro. Qui si pone lapidaria la domanda di Gesù, «Forse anche voi volete andarvene? Gli rispose Simon Pietro:
Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna; noi abbiamo creduto e
conosciuto che tu sei il Santo di Dio» (6, 67-69). Secondo Buber,
l’evangelista teologo ci presenta una figura spirituale di un Gesù che non è
mai in preda di nessun dubbio od incertezza. Il dialogo tra Gesù e i suoi
discepoli, in questo caso, viene a rivestire una funzione assai diversa: mentre
nella prospettiva marciana si vuole focalizzare la natura di Gesù definendolo
il Cristo, in quella giovannea si vuole tener conto della fede dei discepoli,
evidenziando come loro abbiano creduto e conosciuto al suo essere il Santo di
Dio, consacrato da Dio stesso come Messia. L’asserto di Pietro, sottolineando
il loro credere e conoscere, diviene manifestazione di una teologia assai
raffinata, nella quale scompare, però, l’aspetto semplice, concreto e legato
alla situazione del dialogo marciano[22].
Il
confronto tra i testi dei due evangelisti, Giovanni e Marco, porta Buber ad una
importante conclusione che assimila i sinottici alla dimensione
veterotestamentaria, nei confronti di una fede che crede anche a degli asserti,
ma a partire dall’aver fiducia. È dall’aver fiducia in qualcuno (emunà) che si passa ad aver fede anche a
quello che quel qualcuno dice (pistis)[23].
Giovanni ci introduce dentro una teologia molto più sublime di quella
sinottica, ma al tempo stesso perde l’immediatezza e la reciprocità dell’aver
fiducia[24].
Siamo dinanzi alla differenza fra
due generi di fede, sostiene Buber terminando il suo capitolo, tra la fede come
condizione nella quale uno si trova (emunà)
e la fede come avvenimento che ci succede o un atto che si è compiuto (pistis). Il popolo di Israele non è
ancorato ad una fede che acquisisca la forma di una mera proposizione di fede[25],
bensì ad un esercizio dell’affidamento di tutto se stessi, un atto di abbandono
in Colui che è credibile. Il credere veterotestamentario diviene allora un atto
complesso che non può essere considerato né isolato né teorico, ma può
costituire un atteggiamento principalmente di fiducia e di certezza, nel quale
il credente si trova immerso con tutta la sua esistenza. Il Dio di Israele è un
Dio fedele e verso di lui e della sua parola ci si può abbandonare con
un’obbedienza veramente incrollabile[26].
Conclusione
Buber
termina la sua opera sui due tipi di fede evidenziando come la crisi del nostro
tempo interessi sia l’emunà che la pistis. Infatti la fede ebraica è stata
colpita dalla divaricazione della nazione dalla religione, tramite il fenomeno
della secolarizzazione avvenuto durante l’emancipazione promossa
dall’Illuminismo ebraico; e così «una fede come la emunà, nella quale la religiosità del
singolo è così profondamente legata a quella del suo popolo, risente del
declino delle comunità tradizionali»[27]. La
fede cristiana, invece, risente fortemente della crisi dell’individuo, di una
fede vissuta nella interiorità senza possibilità di manifestarsi esteriormente.
A questa crisi Buber prospetta una possibilità di soluzione, che trova il suo
nucleo in un avvicinamento dei due tipi di fede tramite un dialogo incessante e
fruttuoso, in vista di un profondo rinnovamento: l’Ebraismo dovrebbe sforzarsi,
infatti, a porre al centro l’unicità della persona umana nel vivere la fede
comunitaria, mentre al Cristianesimo dovrebbe essere chiesto di uscire da un
certo individualismo della fede per vivere maggiormente la sua dimensione
comunitaria.
Questo
dialogo, che il nostro filosofo propose, fu un passo stupefacente nel cammino
di queste due fedi, dopo secoli di reciproco disprezzo. Buber rivaluta Gesù per
la sua fede, definendolo uno dei massimi esponenti dell’emunà ebraica[28],
ponendosi così in quel cambiamento
culturale di riscoperta della figura e dell’ebraicità del Gesù storico
iniziata, in particolar modo, con la pubblicazione a Gerusalemme nel 1922 di Yesù ha-Nozrì di Joseph Klausner. Gesù
veniva spogliato dalle contaminazioni ellenistiche per essere restituito al
mondo ebraico[29].
Buber, a nostro avviso, prosegue su questa linea e lo fa cercando di analizzare
la fede gesuana, da lui ritenuta una fede tipicamente e totalmente ebraica.
Il
rapporto tra pistis ed emunà non è sempre così chiaro negli
studiosi che interpretano il pensiero di Buber, dato che non sembra per tutti
molto nitida la differenza che il nostro autore ebreo propone delle due. Un
esempio è il giudizio di David Flusser nella Postfazione ai Due tipi di
fede, dove sostiene che «quello dei due generi di fede sia un problema
interno al Cristianesimo»[30] e
che la pistis greca alla fine
significhi la medesima cosa della emunà
ebraica, dato che la fede è «un bisogno umano universale che nasce
continuamente per necessità di natura anche non-religiosa»[31].
L’attualità
dell’opera di Buber e del suo pensiero la possiamo ritrovare nel dibattito fra
la religione e la modernità, tema che stava molto a cuore allo stesso nostro
filosofo ebreo, alla quale dedicò nel 1953 una raccolta di testi intitolata L’eclissi di Dio[32].
Dinanzi ad interlocutori come Heidegger, Sartre e Jung o al grido di Nietzsche,
che denunciano una crisi della religione[33],
Buber incalza sostenendo che Dio non è morto, bensì si è eclissato, dato che
nel rapporto tra noi o lui si è posto un Ego onnipotente, che tutto possiede,
tutto fa e a tutto si adatta e che non è capace di riconoscere né Dio né un
reale Assoluto, che manifesti la sua origine non-umana all’uomo. L’Ego ci
oscura la luce del cielo[34]. La
filosofia di Jung ci ha fatto perdere la relazione dialogica con Dio, con il Tu
che è finito per divenire semplicemente un contenuto psicologico, reale solo
nell’uomo che lo può pensare e sentire. Buber critica la cultura moderna,
perché, se ha prodotto un ritorno al sacro, mostra il divino come ciò che è
misterioso in noi e non come un Altro che ci sta di fronte e con il quale
possiamo veramente dialogare e comunicare[35]. La
sfida accolta dal nostro filosofo è la sfida che viene rivolta anche a noi
dall’attuale paradigma culturale, sfida alla quale siamo chiamati a rispondere
rimpossessandoci e riscoprendo la dimensione esistenziale e noetica della
nostra fede.
[1] M.
Buber, Due tipi di fede. Fede
ebraica e fede cristiana, San Paolo, Cinisello Balsamo 1995 (ed. orig. Zwei Glaubensweisen, Gerlingen, Verlag Lambert
Schneider, Zürich 1950).
[2] Cfr. N. Bombaci, “Due tipi di fede di Martin Buber. La problematicità di una
distinzione alla luce del dibattito critico”, in Itinerarium 9 (2001) p. 127.
[3] Nella prefazione all’edizione
italiana dell’opera di Buber Sorrentino traduce, ad eccezione che nel titolo, Glaubensweiseni con ‘generi di fede’,
poiché vuole evidenziare come l’emunà e
la pistis abbiano proprio una
differenza sostanziale, di genere, riprendendo questo tipo di traduzione dal
libro di Schleiermacher Dottrina della
fede. Siamo dinanzi ad una scelta metodologica discutibile, dato che l’emunà e la pistis possono essere anche intese come due tipologie della stessa
fede, giacché Buber mostra un intreccio tra l’aver fiducia in qualcuno e il
credere per vero che sia avvenuta una certa cosa.
[4] Cfr. Bombaci, “Due tipi”, p. 129.
[5] Buber,
Due tipi, p. 58.
[6] Buber definisce questi due
termini ‘parole-motivo’ (cfr. Buber,
Due tipi p. 67).
[7]
Cfr. Ibidem, pp. 68-69.
[8] Ibidem, p. 70.
[9]
Cfr. Ibidem, p. 71.
[10] Questa aggiunta, evidenzia Buber,
non è presente nemmeno nei vangeli sinottici (cfr. Ibidem, p. 72).
[11] Ivi.
[12] Cfr. Mc 1, 15; Mt 3,2 e 4, 17.
[13] Das Markusevangelium, Tübingen, 19262.
[14]
Cfr. Buber, Due tipi, p. 74.
[15] Ivi.
[16] Analizzando il valore semantico
della fede, Fisichella giunge a sostenere che il termine neotestamentario pistis non trova riscontro nella concezione
veterotestamentaria di un’emunà, che
prima di esser intesa come fede, indica l’onestà, la verità e la lealtà di Dio
che si mostra fedele nel mantenere le sue promesse (cfr. Dt 7, 9; Is 49, 7). Il
termine ebraico risulta essere, nella sua espressione di fede, molto complesso,
dato che sottintende vari atteggiamenti del pio israelita, quali il rifugiarsi,
l’attendere, il confidare, lo sperare, il trovare riparo e l’avere timore (cfr.
R. Fisichella, La fede come risposta di senso. Abbandonarsi
al mistero, Figlie di San Paolo, Milano 2005, pp. 71-72).
[17] Cfr. Buber, Due tipi,
p. 77.
[18] Buber sottolinea, a questo
proposito, come la radice ebraica ‘amn
esprima proprio questo significato di tener testa e tener duro, secondo una
forma verbale causativa (aver fiducia, porre la propria confidenza in) e una
forma verbale passiva (essere sostenuti, essere stabili). Chiarisce Fisichella,
trattando della radice originaria del credere, che se «nell’uso comune della
lingua ‘credere’ equivale ad appoggiarsi su qualcuno che offre garanzie (Gen
45, 26), riferito a Jhwh, invece, esprime l’atto dell’abbandono totale e
fiducioso in lui, perché lo si scopre come un Dio geloso e fedele […]. L’intera
esistenza personale deve essere posta nel solco del rapporto con Jhwh; il cuore
del credente deve essere ‘indiviso’ (Os 10, 2) […]. Fuori da questo orizzonte,
rimane solo il tradimento dell’uomo e la sua apostasia verso altri dèi; in una
parola, il peccato di chi ha abbandonato Dio e per questo cade nell’incapacità
di ritrovare unità nella propria esistenza. Il cuore diventa ‘diviso’, incapace
di amare e alla fine sfocia nella solitudine della morte» (La fede, pp. 72-73).
[19] Ivi.
[20] Ibidem, p. 78.
[21] Cfr. Ibidem, p. 79. Buber rimane, comunque, scettico e critico verso
questa interpretazione, osservando come la domanda posta da Gesù non possa
essere intesa né come una domanda vera e propria né come una domanda socratica
e possa essere, invece, una semplice conversazione avvenuta tra il Maestro e i
suoi camminando per la strada. Buber si distanzia, allora, da Bultmann e
rilegge in questo dialogo anche la difficoltà da parte di un uomo di prendere
coscienza di se stesso. Stessa considerazione viene fatta per ciò che concerne
il racconto delle tentazioni di Gesù nel deserto. Secondo Bombaci,
l’interpretazione di Buber non è condivisa da Ben-Chorin, il quale, più che
un’esplicitazione di una incertezza, vede nella questione sollevata da Gesù una
‘domanda d’amore’, un atto d’amore che richiede la prova d’amore (cfr. Bombaci, “Due tipi”, p. 130).
[22] Secondo Buber l’atteggiamento
dialogico presentatoci dall’evangelista Marco è quello tipico dell’uomo biblico
originario, che riesce a cogliere l’eterno nel profondo dell’attimo reale
piuttosto che nello spirito fuori del tempo. Gesù, nella tradizione sinottica,
è situato proprio in questa visione biblica originaria (cfr. Buber, Due tipi, p. 82). La critica di Buber dell’aver causato il
passaggio dall’emunà alla pistis ricade, allora, sul testo
giovanneo e sulle lettere paoline, che spogliano l’emunà altamente pura del
Nazareno per la creazione della figura di un Cristo, nel quale nemmeno lo
stesso Gesù avrebbe creduto. Gesù non vuole essere considerato un Dio da
venerare, ma desidera soltanto esortare i suoi discepoli ad aver fiducia, ad
aprirsi senza mediazioni né esitazioni al rapporto con Dio, alla relazione di
dialogo con il Tu eterno (cfr. N.
Bombaci, “Ebraismo e Cristianesimo: «due tipi di fede» a confronto nel
pensiero di Martin Buber”, in http://mondodomani.org/dialegesthai/par.7). Paolo di Tarso è stato colui
che ha segnato con le sue lettere il passaggio dal Nazareno al Cristo da
venerare e «l' ‘immagine’ del Figlio creata dalla teologia giovannea e paolina,
lungi dal ‘rivelare’ all'uomo la misericordia del Padre, si interpone tra Dio e
l'uomo, precludendo a questi l'immediatezza della relazione che è propria della
religiosità autentica. Inoltre, la dicotomia instaurata dal pensiero di Paolo
tra vita e spirito, natura e soprannatura, ha creato le premesse per una
visione del mondo, ampiamente diffusa nella cultura dei paesi nei quali si è
affermato storicamente il cristianesimo, per la quale la realtà storica e
cosmica sono consegnate, dal volere di un Dio ‘nascosto’, in balìa di forze
cieche e tiranniche» (Ivi).
[23] L’esempio che Buber introduce
riguarda il patriarca Abramo, il quale ammette in maniera immediata che il
Non-Presente è presente a partire dalla sua ferma fiducia. Abramo crede perché
ha fiducia, sottolinea il nostro filosofo, e non viceversa (cfr. Buber, Due tipi, p. 82 nota 5). Il Bombaci scrive che ad Abramo è dato di
vedere il cammino di Dio e su questo cammino muove i suoi passi a tal punto che
nella maturità di fede di questo patriarca coesiste, tra lui e Dio, la reciprocità
del vedere e dell’essere visto. Abramo non si affida tanto alla verità della
promessa fattagli da Dio, ma confida in Colui che gli si è rivelato entrando in
relazione con lui. Assistiamo nel Patriarca ad una conferma della verità che
asserisce noeticamente con il suo atto di fede fiduciale, nella quale essa
diviene verità per qualcuno e non semplicemente una verità logico-filosofica. È
l’atto vitale che coglie la verità da credere. In questo modo comprendiamo come
l’emunà sia fatta di fedeltà e fiducia.
Non è tanto Dio, allora, a confermare l’uomo, ma l’uomo a confermarsi di fronte
a Dio con la sua volontà e con il suo agire. In questo modo Buber vuole evitare
il giuridicismo che macchia Paolo e la teologia cristiana, dove la
giustificazione sembra scendere dall’alto in base alla professione della verità
da credere nella fede. L’atto di fiducia, e non solamente il credere che o il
ritener per vero, deve essere ciò che permette l’accesso ad una relazione
autentica con Dio (cfr. Bombaci, “Ebraismo
e Cristianesimo”, par. 6).
Interessante e degno di nota è anche il paragrafo che Fisichella dedica alla
fede di Abramo, come luogo di convergenza delle tre grandi religioni
monoteiste, che vedono in essa tre espressioni chiave: «fiducia piena e totale nelle promesse che Jhwh compie, obbedienza alla parola e al comando che
gli viene rivolto e, infine, conoscenza
di Dio negli avvenimenti della sua vita. Abramo, quindi, crede a Dio che gli
promette una discendenza nonostante l’età avanzata sua e di Sara, si affida a
lui e si abbandona alla sua parola, ma nello stesso tempo ha piena certezza che
la promessa fatta si sarebbe realizzata» (La
fede, pp. 79-80).
[24] Cfr. Id., “Due tipi”, p. 134.
[25] Interessante è la nota critica
che Buber pone nei confronti di un Giudaismo medievale, che abbia inclinato
verso un credere come una professione di fede in senso dogmatico tanto rigida
come quella professata dalla Chiesa cristiana (cfr. Buber, Due tipi,
p. 83). Si sta ovviamente riferendo a Mosè Maimonide (1135-1204), che volle
riassumere in tredici articoli la fede del popolo ebraico: 1.esistenza del
creatore; 2. la sua unità; 3. la sua immaterialità; 4. la sua eternità; 5.
l’obbligo di servire e adorare lui solo; 6. l’esistenza della profezia; 7. la
superiorità di Mosè su tutti i profeti; 8. la rivelazione della Legge a Mosè
sul Sinai; 9. la natura invariabile della Legge; 10. l’onniscienza di Dio; 11.
la ricompensa sia in questo che nell’altro mondo; 12. la venuta del Messia; 13.
la risurrezione dei morti (cfr. H. Wahle, Ebrei e cristiani in dialogo: un patrimonio in comune da vivere,
Paoline, Milano 2000, pp. 38ss; P. Coda – C. Hennecke (a cura di), La fede: evento e promessa, Città Nuova,
Roma 2000, pp. 198ss).
[26] Cfr. Fisichella, La fede,
p. 80.
[27] Bombaci,
“Ebraismo e Cristianesimo”,
par 7.
[28] Cfr. Buber, Due tipi,
p. 175.
[29] La letteratura su questa
tematica è veramente sterminata, noi ci limitiamo a rimandare per una breve e
sintetica analisi al recentissimo N.
Ciola, Gesù Cristo Figlio di
Dio.I. Vicenda storica e sviluppi della tradizione ecclesiale, Borla, Roma
2012, pp. 47-60.
[30] D. Flusser, A proposito di «Due tipi di fede» di Martin Buber, in Buber, Due tipi, p. 211.
[31] Ivi.
[32] M.
Buber, L’eclissi di Dio.
Considerazioni sul rapporto tra religione e filosofia, Mondadori, Milano
1990 (ed. orig. Gottesfinsternis,
Manesse Verlag , Zürich 1953).
[33] Al dialogo e al confronto con
questi eminenti esponenti del pensiero filosofico moderno Buber dedica il
capitolo intitolato “La religione e il pensiero moderno” (cfr. Ibidem, pp. 69-98).
[34] Cfr. Ibidem, p. 127.
[35] Cfr. S. Quinzio, Introduzione, in Buber,
L’eclissi di Dio, p. 7.
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