«Se non sapremo offrire
al mondo impoverito del dopoguerra nient’altro che i nostri corpi salvati a
ogni costo – e non un nuovo senso delle cose, attinto dai pozzi più profondi
della nostra miseria e disperazione – allora sarà troppo poco»[1].
In queste parole di Etty Hillesum scritte mentre si trovava ad Amsterdam in una
lettera di fine dicembre 1942 mi sembra di poter rileggere il compito che il
filosofo è chiamato ad assumere nel mondo odierno. Egli non può limitarsi a
sorgere al tramonto come l’hegeliana nottola di Minerva, ossia ad impiegare il
suo tempo per riflettere su ciò che già è accaduto, ma deve assumere un ruolo prospettico[2], che
sappia guardare al futuro e cogliere il senso nuovo di una realtà che verso di
esso si incammina. Questo è lo scopo allora del mio intervento in un momento in
cui si sente forte il bisogno di cambiamento, di rinascita, di freschezza
primaverile.
L’essere umano è da
sempre inserito all’interno di un flusso di cambiamenti continui, mai arrestati.
Già Eraclito tra il VI e il V secolo a. C. affermava che tutto scorre, tutto
cambia in un modo così veloce che nemmeno è possibile immergersi per due volte
nell’acqua di uno stesso fiume. Cambia il mondo, cambia il nostro corpo, cambia
il nostro sentire, con una velocità davvero incredibile. «Nel mondo tutto si
agita»[3]
scriveva lo scienziato russo Pavel Florenskij ne La colonna e il fondamento della verità (1914), facendo
riecheggiare l’immagine eraclitea del fuoco, simbolo dell’incessante divenire.
Nel mondo vi è continuo mutamento, lotta tra gli opposti in vista di una loro
unificazione, una lotta che è padre, secondo Eraclito, di tutte le cose, generando
o la libertà o la schiavitù. Una lotta che produce una contrapposizione che,
nella visione eraclitea, è compresa come armonia.
Ma questo cambiamento,
che vuole essere una vera rinascita, non può considerarsi immediato ma deve attraversare
alcune fasi, delle quali la prima è proprio quella della crisi. Siamo in un
tempo di crisi che attanaglia tutti e
che nasconde dietro la maschera della questione economica e del problema lavorativo
il nocciolo duro della mancanza di senso. È la crisi data dalla assenza di
risposte a quelle domande kantiane, chi sono?, da dove vengo?, dove vado?, alle
quali la scienza, come oggi la si intende, non può rispondere ma alle quali
oggi più che mai è essenziale dare una risposta. Sempre la Hillesum evidenziava
nelle stessa lettera di cui sopra: «mi sembrava così pericoloso sentir
ripetere: “Non vogliamo pensare, non vogliamo sentire, la cosa migliore è
diventare insensibili a tutta questa miseria”»[4].
Dobbiamo invece
pensare. È questo l’imperativo categorico kantiano a cui dobbiamo sentirci
chiamati tutti noi, a pensare e a dubitare.
Dobbiamo lasciarci interrogare dalla realtà, dobbiamo mettere in crisi le
nostre certezze evitando di nascondere la testa sotto la sabbia per far finta
di non vedere. Il dubbio era il metodo della ricerca filosofica cartesiana. Fu
proprio Descartes, infatti, a teorizzare l’importanza di dubitare di ogni cosa,
persino delle percezioni dei nostri sensi, per poi trovare la soluzione di
tutto nella certezza dell’esistenza di un Dio buono, dichiarato successivamente
morto nel 1882 da un folle all’interno, non a caso, di un mercato[5].
Ma Cartesio, ponendo il dubbio come metodo, non smetteva di nutrire in sé
l’ansia della verità, possedendo, per dirla con Florenskij, la certezza di non
possederla fino in fondo. Il filosofo e scienziato russo sosteneva, dal canto
suo, che l’idea della verità bruciava in
lui come un fuoco divoratore e la segreta speranza di incontrarla faccia a
faccia incollava la sua lingua al palato. Essa era come un torrente infuocato
che gli ribolliva e gorgogliava nelle sue vene[6].
Chi non dubita, secondo
Cartesio, non è in grado di pensare e non fa altro che ripetere delle formule
vuote e masticare una cultura già digerita da altri. Il dubitare invece lo
porterebbe a ritenere come solamente il fatto che “io-penso” possa essere la
causa della certezza del mio “io-esisto”. Così affermava tra il 1628 e il 1629
mentre si trovava immerso nella solitudine olandese: «Il pensare […]: è il
pensiero quel che cercavo, ché questo solo non può esser separato da me. Io
esisto, è certo; ma fino a quando? Finché penso, di certo; ché, se mai cessassi
di pensare, potrebbe darsi che con ciò stesso cessassi interamente di esistere»[7].
Ma io-essere-pensante,
chi sono? Quali risorse posseggo? A mio avviso l’essere umano del terzo
Millennio è un “essere fragile che sa meravigliarsi”. Cartesio concludeva le
sue Meditationes de prima philosophia
sottolineando che «si deve riconoscere la debolezza della nostra natura»[8];
ugualmente Etty Hillesum nella ultima pagina del suo Diario datata 13 ottobre 1942 poneva come ultima riga: «BISOGNA
SAPER ACCETTARE LE PROPRIE PAUSE!!!»[9].
L’essere umano deve, a mio giudizio, trovare nella sua fragilità non una colpa o una malattia ma una vera e propria forza
e risorsa per sé e per gli altri. Egli si scopre, infatti, bisognoso degli
altri, di amare ed essere amato, di stima, pieno di paure, di dubbi e di
incertezze, metafisicamente finito e limitato. Al tempo stesso, però, si mostra
come un essere capace di stupirsi,
ossia di non rimanere indifferente alla realtà che lo circonda. Quella
meraviglia, che per Cartesio è la prima delle passioni dell’essere umano e
l’unica ad essere priva di contrari[10], è
ciò che permise alla Hillesum di sopravvivere nel campo di smistamento di Westerbork
in Olanda in attesa del treno che la avrebbe condotta alla “soluzione finale”[11],
a Florenskij di impegnarsi nella ricerca scientifica fino alla fine, ossia sino
al sopraggiungere della sua fucilazione in un bosco di Leningrado[12] e
a Platone[13]
ed Aristotele[14]
di indagare la realtà. Siamo capaci di stupore ma siamo fragili. Ciò che
contraddistingue l’essere umano oggi come ieri non è il mito della volontà di
potenza o di quel super uomo di cui si fece portavoce Nietzsche. L’uomo si deve
riconoscere fragile e sottoposto ad un continuo cambiamento, il quale però non
può alterare la sua alta dignità di essere pensante.
Ma come può il pensiero
realizzare nella nostra società attuale una vera e propria rinascita? Dalla
notte dei tempi l’uomo è riuscito, tramite il suo pensiero, a trasformare la natura in cultura,
superando i suoi istinti e trasformando, grazie alla tecnica, il mondo
circostante in un ambiente vitale. Ciò lo ha differenziato dagli altri animali,
con i quali ha da sempre condiviso il mondo in cui abitare. Certamente quando
l’essere umano pensa egli pensa la realtà e non il nulla e può venir
condizionato dalla stessa realtà che pensa. L’uomo non è mai un soggetto
neutrale posto dinanzi ad una realtà da osservare né può essere considerato
distaccato da essa, la quale, invece, produce nell’animo dell’essere umano sentimenti
ed emozioni contrastanti. D’altro canto, però, egli è chiamato, per l’eccedenza di cui è costituito rispetto
alla realtà che lo circonda, ad agire per attuare una trasformazione di
quest’ultima in vista di un progresso materiale e spirituale. L’uomo non deve
lasciarsi derubare la vita dalla realtà che lo circonda ma, a partire dal
contatto con la natura, con la musica, con l’arte deve ridiscendere in quel
“pozzo” che è presente dentro di lui per ritrovare la sorgente della sua
esistenza e risvegliare la sua sete dell’Assoluto.
È per questo
fondamentale riappropriarsi della categoria del futuro, nella quale è insita la dimensione della progettualità
propria dell’essere umano. Categoria, questa, che attualmente ci stiamo
lasciando derubare dal capitalismo e dalle logiche della finanza. L’essere
umano è un “essere futuro”, al tempo stesso immanente e trascendente il mondo
attuale, orientato a qualcosa o a qualcuno che deve venire e che non gli è dato
di conoscere prima. Questo futuro non è il nulla, il vuoto, l’assenza d’essere
ma è caratterizzato dall’essere tempo dell’attesa, della speranza, del
desiderio, della creatività. È un tempo, insomma, pieno d’essere, un tempo di ansia
e di ricerca della verità.
Il futuro è carico di
domande, le quali vertono in gran parte intorno alla grande sfida del pluralismo, la cui logica interna è
quella della differenza[15].
Come affermava in maniera profetica negli anni Settanta l’antropologo ed etnologo
Roger Bastide, «il moltiplicarsi dei rapporti tra popoli e culture non sfoci il
più delle volte che nel moltiplicarsi delle barriere e delle incomprensioni»[16].
Rinascere in questo terzo Millennio già in corsa può significare allora trascendere
se stessi per ritrovare il proprio senso, vuol dire avere bisogno degli altri
per recuperare la propria identità. La via della differenza e non quella della
omologazione è la strada che deve essere percorsa dalla società odierna, sapendo
che il principio di identità, come evidenzia L’ubomir Žák, uno dei maggiori
conoscitori ed interpreti del pensiero di Florenskij, è un principio di morte,
è «l’urlo dell’egoismo messo a nudo», è «l’Io che odia ogni Io fuori da se stesso»[17],
è fautore di una identità omologante, non creativa e priva di attenzioni nei
confronti delle differenze.
È allora fondamentale
tenere presente il monito del filosofo Edmund Husserl per il quale la comunità
sociale non poteva essere semplicemente data dalla somma dei singoli uomini che
coesistono nel medesimo tempo e condividono lo stesso spazio, ma dalla
connessione dei singoli spiriti. L’altro è la garanzia del mio essere io. Il
diverso allora non è il nemico, ma è la condizione di possibilità che io sia. È
questo il cambiamento, la rinascita, di cui l’uomo contemporaneo ha davvero
bisogno per inaugurare una nuova primavera che sia finalmente priva di
pregiudizi, ignoranza e sogni di potenza ed egemonia[18]”.
Lo “straniero”, in questi ultimi tempi, rischia di essere sempre più ridotto ad
“estraneo”, ossia ad un essere umano anonimo, senza identità, così
in-differente da essere equiparato ad un “nessuno”[19].
Scriveva Enzo Bianchi in un piccolo ma interessantissimo saggio: «Comunichiamo
a distanza, interagiamo in “tempo reale”, ci sentiamo connessi con una rete
globale, ma distogliamo lo sguardo e il cuore da “l’altro accanto a noi”, nella
paura che il diverso cessi di restarci estraneo e inizi a inquietare la falsa
sicurezza che regna tra i “simili”»[20]. Lo
straniero non è l’estraneo, non abita tra
di noi, ma abita con noi[21].
È necessario allora
accogliere l’aria primaverile apportata da una ventata nuova di cambiamento di
mentalità, il quale sarà possibile solamente salvaguardando quella che è la
costituzione dialogica dell’essere umano. Il dialogare non comporta
l’annullamento delle differenze in vista di una possibile omologazione o
assimilazione di una divergenza nell’altra. Il dialogo fa sì che le differenze
possano compenetrarsi ed integrarsi l’una con l’altra alla ricerca di un comune
progresso. Essa si fonda su di un rapporto empatico che trova nel volto il suo
baricentro[22].
Il volto, infatti, è ciò che
manifesta i sentimenti e i desideri che albergano nel cuore di ogni persona, ma
è anche l’unica condizione di possibilità dell’incontro fra gli individui. «Il
volto dell’altro è la condizione della mia identità»[23].
Il riconoscere sempre e comunque nel volto dell’altro un valore così come il
cercare di mutare una politica di “tolleranza delle differenze” in una “cultura
delle differenze” sono, a mio parere, le sfide più importanti che oggi si
pongono alla odierna società per attuare un cambiamento che possa essere una
vera rinascita per tutti.
[1] Etty Hillesum,
Lettere 1941-1943, Adelphi, Milano
2013, 57.
[2] Cfr. Emilio Baccarini, La soggettività dialogica, Aracne, Roma 2000, 186.
[3] Pavel
Aleksandrovic Florenskij, La colonna e il fondamento della verità.
Saggio di teodicea ortodossa in dodici lettere, San Paolo, Cinisello
Balsamo 2010, 19.
[5] Cfr. Friedrich
Wilhelm Nietzsche, La gaia scienza, aforisma 125, Barbera,
Siena 2007, 131-133.
[6] Cfr. Pavel
Aleksandrovic Florenskij, La colonna e il fondamento della verità,
46.
[7] René Descartes, Meditazioni metafisiche, II, 21, Laterza, Bari 1997, 43.45.
[8] Ivi, VI, 16, 149.
[9] Etty Hillesum, Diario 1941-1942, Adelphi, Milano 2013, 797.
[10] René Descartes, Le passioni dell’anima, art. LIII, Bompiani, Milano 2003, 205.
[11] Cfr. Riccardo Beltrami, “L’esperire Dio al servizio di
un’autentica cultura dell’incontro: la figura di Etty Hillesum”, in Mysterion 7 (2014) 2, 333.
[12] Cfr. Id., Incontrare
Dio all’inferno. L’esperienza mistica nel pensiero di Etty Hillesum e di Pavel
Florenskij, Kion, Terni 2014, 49-80.
[13] Nel Teeteto Socrate invita il giovane
matematico Teeteto, discepolo del geometra ateniese Teodoro di Cirene, a non
stancarsi mai di ricercare la verità. E sottolinea: «Si addice particolarmente
al filosofo […] il meravigliarti. Non vi è altro inizio della filosofia se non
questo» (Platone, Teeteto, 155d, Newton & Compton,
Roma 1997, 403).
[14] Secondo lo
Stagirita «gli uomini hanno cominciato a filosofare […] a causa della
meraviglia […]. Ora, chi prova un senso di dubbio e meraviglia riconosce di non
sapere» (Aristotele, Metafisica, A 2, 982b12-18, Rusconi,
Milano 1993, 11). Il termine greco Θαυμα più che meraviglia indica lo stupore.
Questo può anche essere un fascino, un’attrazione verso qualcosa di negativo ed
inquietante come l’angoscia e la paura che si poteva provare al tempo del
Filosofo dinanzi ad un cosmo di cui non se ne conoscevano le cause.
[15] Cfr. Emilio Baccarini, La soggettività dialogica, 187-188.
[16] Roger Bastide, Noi e gli altri, Jaca Book, Milano 1971, 14.
[17] L’ubomir Žák, Verità
come ethos. La teodicea trinitaria di P. A. Florenskij, Città Nuova, Roma
1998, 243.
[18] Cfr. Roger Bastide, Noi e gli altri, 13-14.
[20] Enzo Bianchi, L’altro siamo noi, Einaudi, Torino 2010, 4-5.
[21] Cfr. Ivi, 12.
[22] Secondo il
fondatore della comunità monastica di Bose, l’empatia è «la capacità di
metterci al posto dell’altro, di comprenderlo dal suo interno, è la
manifestazione dell’humanitas
dell’ospite e dell’ospitante, è umanità condivisa» (ivi, 13).