mercoledì 29 aprile 2015

Cambiamento e Rinascita. Idee in movimento


«Se non sapremo offrire al mondo impoverito del dopoguerra nient’altro che i nostri corpi salvati a ogni costo – e non un nuovo senso delle cose, attinto dai pozzi più profondi della nostra miseria e disperazione – allora sarà troppo poco»[1]. In queste parole di Etty Hillesum scritte mentre si trovava ad Amsterdam in una lettera di fine dicembre 1942 mi sembra di poter rileggere il compito che il filosofo è chiamato ad assumere nel mondo odierno. Egli non può limitarsi a sorgere al tramonto come l’hegeliana nottola di Minerva, ossia ad impiegare il suo tempo per riflettere su ciò che già è accaduto, ma deve assumere un ruolo prospettico[2], che sappia guardare al futuro e cogliere il senso nuovo di una realtà che verso di esso si incammina. Questo è lo scopo allora del mio intervento in un momento in cui si sente forte il bisogno di cambiamento, di rinascita, di freschezza primaverile.

L’essere umano è da sempre inserito all’interno di un flusso di cambiamenti continui, mai arrestati. Già Eraclito tra il VI e il V secolo a. C. affermava che tutto scorre, tutto cambia in un modo così veloce che nemmeno è possibile immergersi per due volte nell’acqua di uno stesso fiume. Cambia il mondo, cambia il nostro corpo, cambia il nostro sentire, con una velocità davvero incredibile. «Nel mondo tutto si agita»[3] scriveva lo scienziato russo Pavel Florenskij ne La colonna e il fondamento della verità (1914), facendo riecheggiare l’immagine eraclitea del fuoco, simbolo dell’incessante divenire. Nel mondo vi è continuo mutamento, lotta tra gli opposti in vista di una loro unificazione, una lotta che è padre, secondo Eraclito, di tutte le cose, generando o la libertà o la schiavitù. Una lotta che produce una contrapposizione che, nella visione eraclitea, è compresa come armonia.

Ma questo cambiamento, che vuole essere una vera rinascita, non può considerarsi immediato ma deve attraversare alcune fasi, delle quali la prima è proprio quella della crisi. Siamo in un tempo di crisi che attanaglia tutti e che nasconde dietro la maschera della questione economica e del problema lavorativo il nocciolo duro della mancanza di senso. È la crisi data dalla assenza di risposte a quelle domande kantiane, chi sono?, da dove vengo?, dove vado?, alle quali la scienza, come oggi la si intende, non può rispondere ma alle quali oggi più che mai è essenziale dare una risposta. Sempre la Hillesum evidenziava nelle stessa lettera di cui sopra: «mi sembrava così pericoloso sentir ripetere: “Non vogliamo pensare, non vogliamo sentire, la cosa migliore è diventare insensibili a tutta questa miseria”»[4].

Dobbiamo invece pensare. È questo l’imperativo categorico kantiano a cui dobbiamo sentirci chiamati tutti noi, a pensare e a dubitare. Dobbiamo lasciarci interrogare dalla realtà, dobbiamo mettere in crisi le nostre certezze evitando di nascondere la testa sotto la sabbia per far finta di non vedere. Il dubbio era il metodo della ricerca filosofica cartesiana. Fu proprio Descartes, infatti, a teorizzare l’importanza di dubitare di ogni cosa, persino delle percezioni dei nostri sensi, per poi trovare la soluzione di tutto nella certezza dell’esistenza di un Dio buono, dichiarato successivamente morto nel 1882 da un folle all’interno, non a caso, di un mercato[5]. Ma Cartesio, ponendo il dubbio come metodo, non smetteva di nutrire in sé l’ansia della verità, possedendo, per dirla con Florenskij, la certezza di non possederla fino in fondo. Il filosofo e scienziato russo sosteneva, dal canto suo,  che l’idea della verità bruciava in lui come un fuoco divoratore e la segreta speranza di incontrarla faccia a faccia incollava la sua lingua al palato. Essa era come un torrente infuocato che gli ribolliva e gorgogliava nelle sue vene[6].

Chi non dubita, secondo Cartesio, non è in grado di pensare e non fa altro che ripetere delle formule vuote e masticare una cultura già digerita da altri. Il dubitare invece lo porterebbe a ritenere come solamente il fatto che “io-penso” possa essere la causa della certezza del mio “io-esisto”. Così affermava tra il 1628 e il 1629 mentre si trovava immerso nella solitudine olandese: «Il pensare […]: è il pensiero quel che cercavo, ché questo solo non può esser separato da me. Io esisto, è certo; ma fino a quando? Finché penso, di certo; ché, se mai cessassi di pensare, potrebbe darsi che con ciò stesso cessassi interamente di esistere»[7].

Ma io-essere-pensante, chi sono? Quali risorse posseggo? A mio avviso l’essere umano del terzo Millennio è un “essere fragile che sa meravigliarsi”. Cartesio concludeva le sue Meditationes de prima philosophia sottolineando che «si deve riconoscere la debolezza della nostra natura»[8]; ugualmente Etty Hillesum nella ultima pagina del suo Diario datata 13 ottobre 1942 poneva come ultima riga: «BISOGNA SAPER ACCETTARE LE PROPRIE PAUSE!!!»[9]. L’essere umano deve, a mio giudizio, trovare nella sua fragilità non una colpa o una malattia ma una vera e propria forza e risorsa per sé e per gli altri. Egli si scopre, infatti, bisognoso degli altri, di amare ed essere amato, di stima, pieno di paure, di dubbi e di incertezze, metafisicamente finito e limitato. Al tempo stesso, però, si mostra come un essere capace di stupirsi, ossia di non rimanere indifferente alla realtà che lo circonda. Quella meraviglia, che per Cartesio è la prima delle passioni dell’essere umano e l’unica ad essere priva di contrari[10], è ciò che permise alla Hillesum di sopravvivere nel campo di smistamento di Westerbork in Olanda in attesa del treno che la avrebbe condotta alla “soluzione finale”[11], a Florenskij di impegnarsi nella ricerca scientifica fino alla fine, ossia sino al sopraggiungere della sua fucilazione in un bosco di Leningrado[12] e a Platone[13] ed Aristotele[14] di indagare la realtà. Siamo capaci di stupore ma siamo fragili. Ciò che contraddistingue l’essere umano oggi come ieri non è il mito della volontà di potenza o di quel super uomo di cui si fece portavoce Nietzsche. L’uomo si deve riconoscere fragile e sottoposto ad un continuo cambiamento, il quale però non può alterare la sua alta dignità di essere pensante.

Ma come può il pensiero realizzare nella nostra società attuale una vera e propria rinascita? Dalla notte dei tempi l’uomo è riuscito, tramite il suo pensiero, a trasformare la natura in cultura, superando i suoi istinti e trasformando, grazie alla tecnica, il mondo circostante in un ambiente vitale. Ciò lo ha differenziato dagli altri animali, con i quali ha da sempre condiviso il mondo in cui abitare. Certamente quando l’essere umano pensa egli pensa la realtà e non il nulla e può venir condizionato dalla stessa realtà che pensa. L’uomo non è mai un soggetto neutrale posto dinanzi ad una realtà da osservare né può essere considerato distaccato da essa, la quale, invece, produce nell’animo dell’essere umano sentimenti ed emozioni contrastanti. D’altro canto, però, egli è chiamato, per l’eccedenza di cui è costituito rispetto alla realtà che lo circonda, ad agire per attuare una trasformazione di quest’ultima in vista di un progresso materiale e spirituale. L’uomo non deve lasciarsi derubare la vita dalla realtà che lo circonda ma, a partire dal contatto con la natura, con la musica, con l’arte deve ridiscendere in quel “pozzo” che è presente dentro di lui per ritrovare la sorgente della sua esistenza e risvegliare la sua sete dell’Assoluto.

È per questo fondamentale riappropriarsi della categoria del futuro, nella quale è insita la dimensione della progettualità propria dell’essere umano. Categoria, questa, che attualmente ci stiamo lasciando derubare dal capitalismo e dalle logiche della finanza. L’essere umano è un “essere futuro”, al tempo stesso immanente e trascendente il mondo attuale, orientato a qualcosa o a qualcuno che deve venire e che non gli è dato di conoscere prima. Questo futuro non è il nulla, il vuoto, l’assenza d’essere ma è caratterizzato dall’essere tempo dell’attesa, della speranza, del desiderio, della creatività. È un tempo, insomma, pieno d’essere, un tempo di ansia e di ricerca della verità.

Il futuro è carico di domande, le quali vertono in gran parte intorno alla grande sfida del pluralismo, la cui logica interna è quella della differenza[15]. Come affermava in maniera profetica negli anni Settanta l’antropologo ed etnologo Roger Bastide, «il moltiplicarsi dei rapporti tra popoli e culture non sfoci il più delle volte che nel moltiplicarsi delle barriere e delle incomprensioni»[16]. Rinascere in questo terzo Millennio già in corsa può significare allora trascendere se stessi per ritrovare il proprio senso, vuol dire avere bisogno degli altri per recuperare la propria identità. La via della differenza e non quella della omologazione è la strada che deve essere percorsa dalla società odierna, sapendo che il principio di identità, come evidenzia L’ubomir Žák, uno dei maggiori conoscitori ed interpreti del pensiero di Florenskij, è un principio di morte, è «l’urlo dell’egoismo messo a nudo», è «l’Io che odia ogni Io fuori da se stesso»[17], è fautore di una identità omologante, non creativa e priva di attenzioni nei confronti delle differenze.

È allora fondamentale tenere presente il monito del filosofo Edmund Husserl per il quale la comunità sociale non poteva essere semplicemente data dalla somma dei singoli uomini che coesistono nel medesimo tempo e condividono lo stesso spazio, ma dalla connessione dei singoli spiriti. L’altro è la garanzia del mio essere io. Il diverso allora non è il nemico, ma è la condizione di possibilità che io sia. È questo il cambiamento, la rinascita, di cui l’uomo contemporaneo ha davvero bisogno per inaugurare una nuova primavera che sia finalmente priva di pregiudizi, ignoranza e sogni di potenza ed egemonia[18]”. Lo “straniero”, in questi ultimi tempi, rischia di essere sempre più ridotto ad “estraneo”, ossia ad un essere umano anonimo, senza identità, così in-differente da essere equiparato ad un “nessuno”[19]. Scriveva Enzo Bianchi in un piccolo ma interessantissimo saggio: «Comunichiamo a distanza, interagiamo in “tempo reale”, ci sentiamo connessi con una rete globale, ma distogliamo lo sguardo e il cuore da “l’altro accanto a noi”, nella paura che il diverso cessi di restarci estraneo e inizi a inquietare la falsa sicurezza che regna tra i “simili”»[20]. Lo straniero non è l’estraneo, non abita tra di noi, ma abita con noi[21].

È necessario allora accogliere l’aria primaverile apportata da una ventata nuova di cambiamento di mentalità, il quale sarà possibile solamente salvaguardando quella che è la costituzione dialogica dell’essere umano. Il dialogare non comporta l’annullamento delle differenze in vista di una possibile omologazione o assimilazione di una divergenza nell’altra. Il dialogo fa sì che le differenze possano compenetrarsi ed integrarsi l’una con l’altra alla ricerca di un comune progresso. Essa si fonda su di un rapporto empatico che trova nel volto il suo baricentro[22]. Il volto, infatti, è ciò che manifesta i sentimenti e i desideri che albergano nel cuore di ogni persona, ma è anche l’unica condizione di possibilità dell’incontro fra gli individui. «Il volto dell’altro è la condizione della mia identità»[23]. Il riconoscere sempre e comunque nel volto dell’altro un valore così come il cercare di mutare una politica di “tolleranza delle differenze” in una “cultura delle differenze” sono, a mio parere, le sfide più importanti che oggi si pongono alla odierna società per attuare un cambiamento che possa essere una vera rinascita per tutti.



[1] Etty Hillesum, Lettere 1941-1943, Adelphi, Milano 2013, 57.
[2] Cfr. Emilio Baccarini, La soggettività dialogica, Aracne, Roma 2000, 186.
[3] Pavel Aleksandrovic Florenskij, La colonna e il fondamento della verità. Saggio di teodicea ortodossa in dodici lettere, San Paolo, Cinisello Balsamo 2010, 19.
[4] Etty Hillesum, Lettere, 57.
[5] Cfr. Friedrich Wilhelm Nietzsche, La gaia scienza, aforisma 125, Barbera, Siena 2007, 131-133.
[6] Cfr. Pavel Aleksandrovic Florenskij, La colonna e il fondamento della verità, 46.
[7] René Descartes, Meditazioni metafisiche, II, 21, Laterza, Bari 1997, 43.45.
[8] Ivi, VI, 16, 149.
[9] Etty Hillesum, Diario 1941-1942, Adelphi, Milano 2013, 797.
[10] René Descartes, Le passioni dell’anima, art. LIII, Bompiani, Milano 2003, 205.
[11] Cfr. Riccardo Beltrami, “L’esperire Dio al servizio di un’autentica cultura dell’incontro: la figura di Etty Hillesum”, in Mysterion 7 (2014) 2, 333.
[12] Cfr. Id., Incontrare Dio all’inferno. L’esperienza mistica nel pensiero di Etty Hillesum e di Pavel Florenskij, Kion, Terni 2014, 49-80.
[13] Nel Teeteto Socrate invita il giovane matematico Teeteto, discepolo del geometra ateniese Teodoro di Cirene, a non stancarsi mai di ricercare la verità. E sottolinea: «Si addice particolarmente al filosofo […] il meravigliarti. Non vi è altro inizio della filosofia se non questo» (Platone, Teeteto, 155d, Newton & Compton, Roma 1997, 403).
[14] Secondo lo Stagirita «gli uomini hanno cominciato a filosofare […] a causa della meraviglia […]. Ora, chi prova un senso di dubbio e meraviglia riconosce di non sapere» (Aristotele, Metafisica, A 2, 982b12-18, Rusconi, Milano 1993, 11). Il termine greco Θαυμα più che meraviglia indica lo stupore. Questo può anche essere un fascino, un’attrazione verso qualcosa di negativo ed inquietante come l’angoscia e la paura che si poteva provare al tempo del Filosofo dinanzi ad un cosmo di cui non se ne conoscevano le cause.
[15] Cfr. Emilio Baccarini, La soggettività dialogica, 187-188.
[16] Roger Bastide, Noi e gli altri, Jaca Book, Milano 1971, 14.
[17] L’ubomir Žák, Verità come ethos. La teodicea trinitaria di P. A. Florenskij, Città Nuova, Roma 1998, 243.
[18] Cfr. Roger Bastide, Noi e gli altri, 13-14.
[19] Cfr. Emilio Baccarini, La soggettività dialogica, 196-199.
[20] Enzo Bianchi, L’altro siamo noi, Einaudi, Torino 2010, 4-5.
[21] Cfr. Ivi, 12.
[22] Secondo il fondatore della comunità monastica di Bose, l’empatia è «la capacità di metterci al posto dell’altro, di comprenderlo dal suo interno, è la manifestazione dell’humanitas dell’ospite e dell’ospitante, è umanità condivisa» (ivi, 13).
[23] Emilio Baccarini, La soggettività dialogica, 199.

lunedì 27 aprile 2015

L'altro, lo straniero, l'estraneo

C’è una cappa asfissiante  sopra al nostro vecchio continente, una cappa che non ci permette più di respirare e di assaporare la bellezza e l’entusiasmo della vita. È la cappa della crisi, o perlomeno così ci vogliono far credere. È la cappa della mancanza di risposte di senso che la vita reclama sempre più, quello che invece di cui io sono sempre più convinto. Si sente forte allora il bisogno di cambiamento e di rinascita, bisogno che sembra che i politici facciano finta di non sentire e mostrino di non voler affatto appagare. Bisogno questo che nasce dal grido delle centinaia di persone morte nel Mediterraneo, abbracciandosi o tradendosi vicendevolmente. Su quelle “barche” si consuma l’amore e l’odio, il terrore e la speranza. Sono il luogo dove lo straniero, il non identificato, colui che viene da un altro luogo diviene l’estraneo, l’in-differente, l’anonimo, il volto senza nome, colui che è privo di ogni identità. Nel passaggio dallo straniero all’estraneo si consuma il primo atto del disprezzo dell’altro.

sabato 18 aprile 2015

Intervista al giornalista Emanuele Lombardini


Domenica 26 aprile verrà celebrata la 52ͣ Giornata Mondiale di Preghiera per le Vocazioni, la quale acquista quest’anno un significato davvero particolare in quanto viene vissuta all’interno di un anno del tutto dedicato alla vita consacrata. Per l’occasione ho pensato di riflettere sull’argomento insieme al giornalista Emanuele Lombardini, che ha da pochi giorni pubblicato il suo libro Stravolti da Cristo. Storie di vocazione per la editrice Paoline. Emanuele, classe 1975, è da sempre impegnato nel mondo cattolico essendo stato responsabile dell’Ufficio stampa delle ACLI e praticando volontariato all’interno dell’Azione Cattolica.

Emanuele, come è nata in un giornalista come te l’idea di scrivere un libro interamente riguardante la chiamata vocazionale?

Era da un po’ di tempo che covavo in me questo desiderio, in quanto sentivo il bisogno di poter parlare della vocazione in un momento in cui c’è il “tiro al cattolico”, alla Chiesa. Spesso ho visto i giovani allontanarsi dalla Chiesa a causa della secolarizzazione e ho pensato che fosse opportuno mostrare come la vocazione sia sì un fatto straordinario ma riguardante delle persone non straordinarie, anzi pure lontane dalla vita ecclesiale. Ho presentato così diciotto storie vocazionali che hanno come protagonisti personaggi sia noti, come fra Alessandro Brustenghi, sia più di periferia don Fermin Adamon, passato dalla moschea al sacerdozio.

Raccontando l’esistenza stravolta dall’incontro con Cristo di personaggi in carne ed ossa (chi cantante, chi promessa dello sport, chi militante nell’estrema sinistra, chi di fede musulmana) quale idea ti sei fatto della vocazione?

Riavvolgendo il nastro delle loro vite ho notato come la chiamata di Dio ad una vita di speciale consacrazione a Lui possa essere un evento rivolto veramente a chiunque. Basta pensare alla storia di suor Roberta Vinerba. Lei pianse quando fallì l’attentato a san Giovanni Paolo II, poiché non riuscirono ad ucciderlo. Oggi è una suora ed insegna teologia morale, oltre a tenere varie conferenze in giro per l’Italia. Sicuramente la vocazione è un qualcosa che passa però necessariamente attraverso il filo della testimonianza.

Suor Maria Campagnolo, infatti, nel tuo libro sostiene che attualmente non vi sia tanto una crisi di vocazioni quanto di “testimoni forti”…

Se in questo momento i giovani si stanno allontanando dalla Chiesa è forse perché non si riesce a fare breccia sufficiente nel loro cuore. Navigando sul mare della rete ci si accorge subito di come gli altri procedono spesso con i transatlantici e la povera fede con una barchetta a remi. Bisogna che chi ha ricevuto la chiamata sia in grado di poterla testimoniare nel modo migliore, ponendosi in ascolto delle istanze dei più giovani. La testimonianza, infatti, colpisce più di molte prediche. Suor Tosca, una dei protagonisti del mio libro, esercita il suo servizio alla Cappella Universitaria di Pisa, la sera si reca nei pub…spende la sua vita a mettersi in ascolto dei giovani. Così pure don Gianni che la sera va a chiamare i ragazzi per le strade aprendo letteralmente le porte della sua chiesa per farli incontrare con Gesù Eucarestia. Ugualmente don Roberto, il quale ha portato sulle spiagge la cristoteca cercando di seminare la Parola di Dio…la gente segue. Stanno con i giovani, non vivono come loro, ma cercano di far arrivare loro il messaggio di Gesù nei luoghi dove essi stanno.

Lo psichiatra Andreoli ha definito i giovani di oggi “fragili e rotti”. Secondo te possono ancora accorgersi che Dio li sta chiamando?

Sicuramente sì. Si deve provare a far sì che loro si mettano in ascolto del Signore, in quanto Lui sa come parlare al loro cuore. Con difficoltà, tra mille dubbi e lotte interiori, loro hanno pur sempre bisogno di mettersi nelle mani di Dio, affidandosi completamente a Lui, ancor più a motivo della grande ricerca di senso che nutrono dentro di sé e della grande risposta di vuoto che trovano fuori di sé.

Papa Francesco, nel suo Messaggio per la Giornata Mondiale di Preghiera per le Vocazioni, afferma che ogni vocazione è un esodo, un lasciare se stessi, un uscire da sé. Dal tuo libro si comprende che questo esodo è costellato da crisi (fra Alessandro), dubbi (don John), lotte interiori…

Accostando queste diciotto persone e parlando con loro ho avuto modo di comprendere come la scelta di seguire la chiamata di Dio non sia affatto semplice. Siamo umani e, quindi, lotte interiori e dubbi è giusto che intervengano e siano presenti. Il discernimento e l’accompagnamento di un buon padre spirituale sono essenziale per non lasciare solo il giovane ed aiutarlo a capire quale sia la vocazione a cui si è chiamati…

…sono passaggi necessari…

…necessarissimi, sicuramente. La vocazione è una scelta importante e lo è soprattutto oggi, quando veramente qualifica la tua vita.

Quando è importante il sostegno della propria famiglia all’interno di una storia vocazionale?

È importante ma non fondamentale. Le storie che racconto nel mio libro testimoniano come la vocazione di queste persone che ho intervistato si sia sviluppata in gran parte di loro interiormente, nel dialogo con se stessi e spesso in conflitto con la stessa famiglia. L’importante è stato il saper leggere dentro il proprio cuore. Il sostegno dei familiari è venuto dopo, anche qualche anno dopo. A volte è stato lo stesso “chiamato” a divenire testimone dell’amore di Cristo all’interno della sua famiglia, anche di una famiglia di tradizione cattolica, dove non raramente la scelta vocazionale suscita scompiglio.

Suor Roberta Vinerba odiava Dio e la Chiesa; si converte dopo che le è stato detto “Dio ti ama”, frase che mai nessuno le aveva rivolto. Quanto bisogno c’è oggi tra i giovani dell’amore di Dio? Sono veramente così “liquefatti” come i mass media li vogliono far apparire?

Tra i giovani c’è tantissimo bisogno dell’amore di Dio. Come educatore di Azione Cattolica me ne accorgo costantemente. “Dio ti ama” è un messaggio che non passa mai di moda. È il manifesto della nostra fede e purtroppo si dice troppo poco ai ragazzi e ai giovani. Nell’espressione “Dio ti ama” loro possono trovare risposte a molte delle domande che affollano la loro mente, ma servono persone che glielo ricordano, che glielo annunciano. I giovani più che essere “liquefatti” sono stati resi tali dalla mancanza di autentici testimoni di questo messaggio cristiano. Certo il “Dio ti ama” non fa notizia, non trova ospitalità nei media…Quando i sacerdoti o i consacrati vengono invitati a parlare di Dio nelle varie trasmissioni televisive o radiofoniche ci vanno sempre per rispondere o per mettersi in contrapposizione a qualcun altro, difficilmente per raccontare delle bellezza della fede.

Papa Francesco nel suo Messaggio parla di “falsa stabilità”, i protagonisti del tuo libro di “dominio della falsità”, di “idoli”: quanto la società odierna sta danneggiando la crescita non  solo vocazionale ma proprio umana dei ragazzi? Cosa pensi che si possa fare?

Il discorso è molto ampio. La società odierna è la “società del click”, basta cliccare e condividere senza il dover necessariamente aprire e leggere ciò che vi è dentro. Oggi per informarsi e per sapere come vanno le cose si va su facebook e non su siti più appropriati. Questo devia la crescita umana dei ragazzi. I testimoni della fede dovrebbero essere, secondo me, più pronti a giocare la partita dell’evangelizzazione anche sul terreno di internet e dei social network, altrimenti si rischia di perdere la partita.

In questa particolare giornata vocazionale a chi doneresti il tuo libro?

Anche se potrebbe sembrare strano, soprattutto ai più lontani perché ne siano incuriositi e agli scettici perché lo possano criticare. Io infatti credo che loro non se lo aspettano ma leggendo queste pagine potrebbero restare veramente sorpresi di quanto sia forte il messaggio di Cristo e di come riesca a far breccia nei loro cuori. E poi lo donerei a tutti affinché, come ama dire Nico Dal Molin, si sentano interpellati e chiamati ad essere narratori della Buona Notizia lungo i sentieri quotidiani della propria esistenza.

domenica 12 aprile 2015

La cultura salverà il mondo


«Una filosofia procede dalla propria epoca per restaurare l’uomo contro la disgregazione dell’epoca» (Hegel). Lo scopo della filosofia e della cultura è restaurare quello che il tempo ha disgregato nell’uomo. Oggi si ha l’aziendalizzazione della cultura, si parla di debiti e di crediti nella scuola, offerte formative che sono simili al mondo del mercato e che portano alla distruzione della scuola e dell’istruzione.

Una follia che è inscritta nella riforma della scuola avente come scopo il distruggere in atto scuola ed essere umano. Distruzione del liceo e dell’università è quella praticata da una politica che nel mercato e nel dio delle finanze l’unico fine. Governi interscambiabili che procedono nello smaterializzare la cultura e l’istruzione in vista della competizione di aziende ed imprese (es. il porre nelle scuole l’informatica come materia al posto del latino e del greco).

Cosa accade oggi? Il ritorno del pensiero di Nietzsche e di Marx. Il nichilismo, ossia il precipitare dei valori della scuola, il quale si realizza in Marx, nella società di mercato, dove tutto diviene merce, non esclusi i sentimenti. Il monoteismo del mercato porta alla morte di Dio. Nell’aforisma 125 della Gaia scienza: il folle annuncia la morte di Dio nel mercato! Dio muore e resta il nulla. Il capitalismo non ha bisogno della cultura e di teste pensanti, ma di automi manipolabili come merce.

Il capitalismo è assoluto perché realizzato nella estensione (globalizzazione) e nella intensità (colonizza il nostro immaginario). Il nostro rapporto col mondo è dato dalla forma merce. Nel 1858 già Marx ci aveva messo in guardia da tutto ciò. Il capitalismo distrugge ogni limite e oggi la scuola è un limite. La scuola per il capitale è un limite in quanto in essa si formano esseri umani con spirito critico. Distruggere la scuola vuol dire decapitare tante teste pensanti e negare il diritto del futuro (cfr. Kant, Cos’è l’illuminismo).

Quale lavoro mi dà lo studio? La formazione nell’aziendalizzazione. La scuola deve fornire spirito critico e non generare ingranaggi per la produzione globale. In questo scenario la cultura è sotto lo scacco della violenza economica. Non c’è spazio per la questione veritativa della filosofia ridotta a chiacchiere di intrattenimento per dotti. La cultura è merce del potere, dato le reazioni del potere stesso, che non si avvale della violenza ma rimuove i mezzi di sostentamento economici per la cultura. Rimuovere i finanziamenti per sopprimere la cultura. Una violenza che non trova risposta poiché non mostra i suoi effetti.

La forma merce è simbolo di una intera società e mai lo era stata. Cultura, tempo libero, educazione, morte, tutto è sottoposto al fanatismo economico. Si impone un unico modo di pensare che ripresenta la forma merce. Tutto questo è reso possibile oggi sempre più da un potere che fa successi uno dietro l’altro. La caverna di Platone tende a trasformarsi in una gabbia di acciaio dove non è possibile uscire. È il monoteismo del consumismo. Il nostro è il mondo dove tutto è possibile tranne il pensare una società diversa. Tutto è possibile a patto che si possieda l’equivalente in denaro.

La tecnica si rivela alleata del potere in un’epoca dell’oblio dell’essere e dell’equivalente oblio dell’uomo per usare le espressioni di Heidegger. L’ente non può disvelarsi al di fuori del valore economico, quel valore che può essere quantificato e comprato. L’ente non è più tutelato nel proprio essere ma vale per ciò che viene sfruttato. L’essere è posto in relazione con l’utilizzabilità. L’ente è disponibile per il consumo ed oggi anche l’umanità è ridotta a ciò. Uomini come soggetti fintamente liberi. Nello scenario della tecnica dispiegata vi sono solo beni di consumo.

Consumo, abuso, sfruttamento, uniformità sono le cifre del nostro mondo abbandonato degli dei. Il mondo di oggi non ha bisogno della cultura ma solo di un “fare” che ci rende “funzionari della tecnica” (Heidegger). Il mondo è abbassato al “do ut des”. Il dogma di oggi è “consumate merce e  sopportate il mondo” in una sorta  di ritorno dell’amor fati e dello scientismo. L’indebolimento dello spirito secondo Heidegger è la distruzione della cultura e l’imporre a ciascuno di non essere se stesso (“si dice”, “si pensa”…).

Omologare significa esser privo di spirito critico rimuovendo ogni tentativo di prospettare sensi del mondo e disincanto. La gabbia è il destino irrevocabile!!! L’essente è ridotto a macchinazione, fare, potenza, ingranaggio della macchina globale autoreferenziale, la quale è in grado di crescere infinitamente. Nel mondo greco gli uomini sono i mortali; oggi la scienza vuole proporre invece la crescita infinita dell’essere umano. La cifra della volontà di potenza è propria dell’attuale economia, nella quale si rincorre un “nuovo” che è sempre lo stesso!

Per riecheggiare la domanda di Heidegger sulla poesia, domandiamoci: Perché la cultura nel tempo della povertà? Non resta più niente della cultura se non l’abitare poeticamente  il mondo. La poesia è la vera forma di resistenza. Il mondo ti permette di fare tutto ciò che vuoi ma in realtà tutto ciò che fai è già controllato. Il vivere poeticamente il mondo vuol dire seguire logiche altre, come l’amore, il grande assente che resiste all’individualismo. Il capitale vuole distruggere ogni forma di comunità.

Secondo Heidegger la mancanza di Dio non è più intesa come mancanza e questa è la logica di questo mondo. Ciò che minaccia l’uomo, dice Heidegger, è il disporre tecnico. La tecnica scatenata tende a livellare il pianeta distruggendo la cultura. La cultura globale è in contraddizione, in quanto fa sì che non vi siano due culture in dialogo. Si eliminano le culture in nome di una uniformità dove la terra pone l’Essere a disposizione del calcolabile. La sola immagine del mondo è quella del “mercato globale”, dove il calcolato valore commerciale dissolve tutto l’essere. Il calcolo domina, perché manca oggi il pensiero su un esistente ridotto a cifra. Critica rivoluzionaria e sovversione sono praticamente un binario che oggi manca.

Just do it è il fare autocefalo, “fallo e basta” senza pensare, recitano le magliette dei giovani. In questo tempo della miseria e della povertà è opportuno favorire il pensare in un tempo dove si distrugge la terra, si massifica l’uomo, prevale la mediocrità, Dio è morto. Occorre muoversi criticamente e chiedersi: che fare con la cultura? La rivoluzione deve portare dalla cultura nel modo di vedere l’essente. Rivoluzione del pensiero.

La cultura salverà il mondo solo se saprà contrapporre a ciò che è qualcosa di altro non reificato. Dobbiamo cercare cammini senza lasciarci stregare dal “pensiero calcolante”, come affermava Heidegger. Il “pensiero meditante” di Heidegger è fondamentale ma si deve andare anche oltre intrecciando la rivoluzione ontologica heideggeriana con quella di Marx, una rivoluzione contro l’ingiustizia dilagante. Riscoprire la forza della cultura:

-          progettare e pensare il non ancora;

-          considerare il mondo dello spirito e dell’uomo come una dignità che non ha prezzo;

-          defatalizzare la mistica della necessità di cui è profeta il capitalismo che non si proclama giusto e buono ma inevitabile.

“Non avrai altra società al di fuori di essa” è il dogma odierno che vuole trasformare tutti noi in servi volontari. Questo mondo genera nei “sudditi” rassegnazione e disincanto, il peggior dei mondi possibili è anche l’unico dei mondi possibili. La cultura deve invece mostrare che ciò che c’è NON è tutto. La cultura deve risvegliare la coscienza anticipante per un ESSERE ALTRIMENTI. La cultura deve realizzare vie di fuga rispetto al presente. Ciò che c’è non è tutto (Adorno), istruitevi perché avremo bisogno di tutta la nostra cultura (Gramsci).

di Diego FUSARO

Docente di “Storia della Filosofia” presso l’Università San Raffaele di Milano

Physis, terribile bellezza che suscita meraviglia

Lucrezio apre il suo De rerum natura affermando: "che bello contemplare il naufragio di qualcuno mentre tu stai sulla riva e lo guardi sereno. Tu sei libero dagli affanni di coloro che stanno sulla bar
ca e ti puoi preoccupare dello studio della natura". Lucrezio è epicureo e gli interessa la serenità di una vita nascosta e priva degli affanni della vita. Gli déi ci sono ma non hanno influenza sulla vita degli uomini, la morte non è un problema, dato che quanto c'è essa noi non ci siamo.
Vi sono quadri dell'orrore che ci fanno pensare come siano stati folli gli esseri umani a mortificare la natura con grandi sistemi economici.
Kant, nella Critica del giudizio, dà l'idea del sublime, come qualcosa che non ha a che fare solamene con il bello e che è un sentimento indiretto.La potenza della natura ci offre l'idea del sublime. Siamo parte della natura ma sappiamo che la potenza della natura offre un sentimento alla nostra immaginazione.
Interessante è la figura del viandante (der Wanderer in lingua tedesca). Egli cammina senza uno scopo preciso, indica il perdersi. Platone nel Menone (dialogo sulla virtù, aporetico poichè privo di una verità finale da insegnare, proprio come il viandante) mostra la personalità di Socrate, dicendo che la sua figura fisica è simile alla torpedine, fa sì che gli altri perdano l'orientamento riempiendoli di dubbi. Socrate ammalia e strega con la parola. Nel Teeteto 155c-d Platone sostiene che la filosofia inizia con il meravigliarsi. Puoi rimanere a bocca aperta sia per uno spettacolo della natura sia per le tue idee. Anche Aristotele nella Metafisica parla della meraviglia e sostiene che essa nasca dal dubbio. Ma più tardi, nel Seicento, Stevino sosterrà che con la scienza la meraviglia non è più meraviglia. Un pensiero non nuovo, però, in quanto era già inserito inquanto andava affermando Aristotele.
La scienza non elimina il dubbio. Secondo Socrate il dubitare è una passione dell'anima e non solo un'operazione intellettuale!!! Dubitare è scienza!!!
L'infinito genera vertigini perchè ci sposta sempre avanti perdendoci in esso (es. spirale logaritmica, che gira sempre sullo stesso punto, detto "punto asintotico", senza arrivarci mai).

Scoperta da Cartesio, nel Settecento venne studiata da Jacopo Bernulli che la definiva "spirabile mirabile". Essa è meravigliosa perchè la troviamo spessissimo nella natura. L'infinito è presente nella natura.




Leopardi ci dice che l'infinito fa paura anche per chi, come lui, guarda all'infinito stando nel finito, all'interno di una siepe.















di Luca GUZZARDI
Visiting Fellow al Max Planck Insitut for History of Science di Berlino

sabato 11 aprile 2015

Dal gender ad un "nuovo modo di essere"


«La questione del gender fa riferimento ad una ideologia secondo la quale non è tanto importante come si è fisicamente quanto come ci si sente». Sono state queste le chiare parole con le quali il dottor Tommaso Cosentini, Vice Presidente dell’Associazione Medici Cattolici di Rieti, ha aperto l’incontro-dibattito tenutosi sabato 11 aprile 2015 a Rieti, presso l’Auditorium Varrone, intorno al tema Sesso, sessualità e identità di genere tra autodeterminazione e discriminazione, organizzato dalla Ufficio Pastorale della Salute della Diocesi di Rieti. Il medico ha introdotto i lavori sottolineando come la teoria del gender associ la sessualità alla personalità e come sia stata ben accolta in alcuni paesi europei e in America, credendo che essa possa portare una ventata nuova di uguaglianza nella lotta contro la discriminazione.

La problematica del gender è una questione molto complessa, che trova il suo nodo centrale nell’esser persona, ossia nell’essere capace di relazionarsi agli altri. A fare da guida nei meandri di questa tematica è stato il professor Pietro Grassi, docente  presso la Pontificia Università Santa Croce di Roma. Egli ha cercato di mostrare come il parlare di identità non sia mai una cosa totalizzante, e come soprattutto non lo sia durante il periodo dell’adolescenza. Ognuno, infatti, è uno e molteplice al tempo stesso, ognuno è un mistero a se stesso e lo scadere nel conformismo può essere una trappola veramente mortale. Il dolore e la sofferenza, infatti, conducono allo scontro con la realtà, a partire da quale è possibile comprendere che la vita non è un gioco ma qualcosa di reale, la vita non è un “come se” ma un “come”. Spesso noi vogliamo essere al posto di un altro, ma non essere l’altro, in quanto se siamo lui non siamo io. “Essere io” è l’avventura di una vita, l’esperienza di una vita, la ricerca di ciò che siamo attualmente o in potenza, ma sempre in rapporto all’immensità che siamo. Conosci te stesso, recitava l’oracolo. Chi sono? Da dove vengo? Dove vado? Perché soffro? Sono questi gli interrogativi che pongo continuamente a me stesso. Per i buddisti si è un sogno in un sogno. Ma l’uomo non è sogno, è libertà, è volontà. Sono le persone che amiamo, i libri che leggiamo, la musica che ascoltiamo a dirci chi siamo e a determinare la nostra gioia, la nostra felicità, la nostra sofferenza, il nostro godere. Alcune situazioni feriscono la mia anima ma non posso togliermi dal contesto e dalla situazione che mi trovo a vivere.

Diviene allora prezioso riscoprire nella logica del volto l’incarnazione della identità della persona. Alcune volte si cammina accanto alle persone come sfiorando delle macchine parcheggiate. Questo vuol dire tradire la logica del volto. Il volto è l’altro in cui posso perdermi, smarrire la mia identità, dare un senso alla mia esistenza. Il volto altrui è il mio limite, è sguardo, occhi che vedono. Il volto dell’altro è tutto tranne che un viso anonimo. In ogni uomo è presente il mistero e guardare un volto significa entrare in contatto con quel mistero. Passeggiando mano per la mano con la persona che amo comprendo che il mio corpo non è qualcosa di accessorio. Il corpo è fonte di comunione e siamo tanto più umani quanto siamo in comunione con gli altri. Amare è umano, odiare no, perché conduce al degrado. La tecnologia spesso è divenuta il nostro padrone, disumanizzando le nostre relazioni, impoverendoci in umanità.

La nostra società, invece, è fortemente individualista e insegna a fare a meno degli altri. Si diventa adulti nella misura in cui si diviene sempre più autonomi e non bisognosi degli altri. Noi, però, non smettiamo mai di sentire il bisogno degli altri, anche se solo per vincere la solitudine. Il problema è che però intessiamo rapporti che non ci condizionano o che pretendano qualcosa da noi. Relazioni veloci che riducono il volto altrui in una faccia da scordare il prima possibile. Educati in questa ottica i ragazzi rischiano di essere sempre più dipendenti, purtroppo di altre cose!!!

È stato allora lo psichiatra Paolo Di Benedetto ad approfondire la tematica della identità sostenendo che essa è al tempo stesso una sola e molteplice. L’identità della persona è una realtà dinamica e non statica, risultato di molteplici fattori. Vi è l’identità immaginaria, quella capace di assumere i colori del momento per essere sempre adeguata alla scena in cui viene a trovarsi. Una identità costruita, quindi. Vi è l’identità simbolica, frutto della nostra storia, alla quale appartengono la famiglia, le istituzioni, oppure vi è anche una identità definita reale, in quanto è quella che manifesta ciò che veramente siamo nel momento in cui si è costretti ad abbattere le difese. È l’identità che generalmente noi nascondiamo ma che poi emerge spontaneamente in alcune circostanze. Poi vi sono i sintomi, ossia quegli aspetti che testimoniano la nostra singolarità e dai quali non riusciamo a separarci, come se essi fossero per noi degli “angeli custodi”.

In una società dove l’imperativo categorico non è più quello del dovere ma quello del godere, lo psichiatra Di Benedetto ha evidenziato come l’essere entrato in crisi del “nome del padre” abbia un poco alla volta destrutturalizzato la persona umana. La figura regolatrice non c’è più, quel padre che incarna la figura del desiderio dell’altro è venuto meno per lasciare il posto ad una madre che proteggendo la vita ne simboleggia il godimento.

Oggi si è così dinanzi a quello che Judith Butler definiva essere il “sesso liquido”, ossia una teoria secondo la quale il genere debba essere piegato in favore di un qualcosa di eccentrico e di insolito. Un nomadismo sessuale che priva l’essere umano di identità e genera un trans-umanesimo. In questo modo anche la stessa teoria del gender viene a trovarsi già sorpassata da quella di un “nuovo modo di essere”, che è un qualcosa di non classificabile. Ma questo non è scienza!!! Con queste teorie, infatti, abbiamo a che fare, secondo lo psichiatra, con una vera e propria ideologia mediata da una filosofia gnostica autoreferenziale che non presenta nessun legame con il dato biologico strutturale, anzi nega la corrispondenza con il reale. Il sesso è sottomesso così alla cultura (culturalismo) e non è più un dato ontologico (essenzialismo).

Fondamentale è allora il ruolo della famiglia. Non si può, ha ribadito con forza il dottor Di Benedetto, tutto chiudere con la nascita del fanciullo, in quanto è proprio nella adolescenza che si attua la scelta definitiva del sesso, ossia nel momento in cui tutto si rimette in discussione. Fare l’uomo e fare la donna è un vero apprendimento e non è dato con il solo nascere. La cultura influenza certamente l’identità sessuale, ma quest’ultima non può essere relegata alla scelta del soggetto.

Le riflessioni di questi esperti sono risultate davvero importanti, nel momento in cui a Pechino già da qualche anno si parla di cinque generi mentre salgono a 52 le possibilità di genere delineate nei profili facebook. Dopo numerosi interventi, il Vicario della Diocesi di Rieti, mons. Jaroslaw Krzewicki, ha concluso affermando che l’ideologia gender sta entrando velocemente nelle scuole ed è essenziale comprendere quale sia il meccanismo che ne promuove la diffusione. Indagare le radici del problema non è sufficiente, è necessario scoprire quali sono le ferite che le persone portano con sé. La teoria del gender riguarda dei ragazzi in carne ed ossa e potrebbe ledere quel bene che è la loro crescita e la promozione dei loro “giusti diritti”.