L’apostolo Paolo, in 1Cor 15, 1-11[2], menziona sei
cristofanie ben precise: a Pietro (v. 5), ai Dodici (v. 5), ai cinquecento
cristiani riuniti insieme (v. 6), a Giacomo (v. 7), agli altri apostoli (v. 7)
e a Paolo stesso (v. 8). Perché? Logicamente per il loro forte carattere
testimoniale, per il fatto che «la maggior parte di essi vive ancora» (v. 6) e,
quindi, è sottointesa l’esortazione ad andare ad interrogarli, rivolta a coloro
che scetticamente non credono alle sue parole.
Ma
Pannenberg si chiede, invece, fino a che punto possiamo considerare questo
testo una prova storica delle apparizioni di Cristo. Non si può nascondere, secondo
lui, l’interesse emotivo dell’Apostolo che può dar adito ad una pre-comprensione
nel suo raccontare. Questo però non può inclinare la nostra ricerca dato che
nessuno storico si pone in maniera neutra dinanzi ad un evento. In più, la
vicinanza cronologica di Paolo agli avvenimenti trattati può significare una
certa garanzia storica. In effetti, la Prima Lettera ai Corinzi è databile intorno al 56/57 d. C., circa
trent’anni dopo la morte di Cristo, ed è stata scritta ad Efeso. Inoltre Paolo
stesso racconta di essersi fermato per ben tre anni a Gerusalemme dopo
l’incontro con il Risorto sulla via di Damasco e, a Gerusalemme, racconta di
essere venuto in contatto con Pietro e Giacomo[3].
Secondo la cronologia che segue Pannenberg, Paolo avrebbe incontrato questi due
apostoli sei o otto anni dopo la crocifissione di Cristo, per cui il contenuto
del testo da lui usato in 1Corinzi
può essere frutto di questo incontro, come anche la menzione della apparizione
a Giacomo[4]. Il
testo che stiamo esaminando potrebbe essere anche l’unione fra una formula
antica, di origine aramaica, «una formula protocollare»[5]
relativa ai vv. 3b–5[6], e
delle informazioni ricevute durante la sua permanenza a Gerusalemme. Alla
domanda se in questa formula Paolo possa essere stato influenzato da altre presenti
nell’ambiente circostante dell’epoca, il nostro Teologo sembra poter dare una risposta
negativa, poiché nella Palestina del I secolo a stento si trovavano tracce di
déi che muoiono e poi risorgono.
Sempre
a proposito della storicità di queste apparizioni[7]
Pannenberg evidenzia altre difficoltà, dovute in parte al loro contenuto e in
parte alla loro natura. Sottolinea il nostro Teologo che, se prendiamo come
testimone Paolo, si evince che ad apparirgli è stato proprio l’uomo Gesù (cfr.
Gal 1, 16 e 1Cor 9, 1), che a Damasco l’Apostolo ha visto un “corpo spirituale”,
un σῶμα
πνευματικόν, che
questa apparizione è venuta dal cielo, dato che nel Nuovo Testamento, nelle più
antiche testimonianze, risurrezione ed ascensione coincidono (cfr. At 9) e che è
stato un fenomeno assai luminoso. Nel libro degli Atti troviamo, in effetti, che Luca parla di una luce dal cielo che
avvolge Paolo mentre era in viaggio e stava per avvicinarsi a Damasco (cfr. At
9, 3). Non solo. In questo capitolo degli Atti
si mostra anche come la cristofania non consisteva solamente in un vedere
ma anche in un ascoltare (cfr. At 9, 5).
Come
abbiamo detto, oltre al contenuto, il nostro Autore prende in esame anche la
natura propria delle apparizioni. Queste, secondo lui, dovrebbero essere state
delle visioni straordinarie riservate a poche persone, dato che coloro che
accompagnavano Paolo o non videro affatto la visione che l’Apostolo percepì,
oppure, se la videro non la capirono[8].
Dobbiamo sottolineare ancora un’altra cosa, però. L’Apostolo compie
un’ulteriore differenziazione in 2Cor 12, 1, quando narra delle visioni e delle
rivelazioni (ὀπτασίαι και ἀποκαλύψεις) di cui è stato reso partecipe da parte del
Signore quattordici anni prima, quando venne rapito in paradiso e udì parole
indicibili. In questo caso ci troviamo di fronte a delle rivelazioni da parte
del Signore, che sono ben altra cosa dall’incontro che Paolo ebbe con il
Risorto e che fu concesso all’Apostolo una sola volta. Questa fu l’unica
apparizione che egli ebbe. Le altre sono allora delle rivelazioni del Signore (ἀποκαλύψεις Κυρίου).
Secondo Pannenberg il cristianesimo primitivo fu caratterizzato da visioni di
Cristo, come quella che ebbe il diacono Stefano (cfr. At 7, 55), e seppe anche
distinguere tra le apparizioni del Risorto (ὀφθῆναι[9]) e le
visioni (ὀπτασίαι). Ma la questione
rimane comunque controversa, in quanto nel racconto di At 26, 19 Paolo parla di
fronte al re Agrippa di “visione celeste” (οὐρανίῳ ὀπτασίᾳ) riferendosi all’episodio di Damasco.
Arriviamo,
allora, alle conclusioni a cui, a questo punto, il nostro Teologo giunge:
a)
non possiamo considerare le apparizioni come il
frutto di una visione soggettiva, poiché esse motivano la fede dei discepoli, e
non viceversa. L’annuncio della risurrezione di Gesù rappresenta un novum sia per la tradizione apocalittica
sia per la storia delle religioni, un novum
che non sta comunque ad indicare l’inizio della fine universale;
b)
non possiamo considerare le apparizioni come il
frutto di una visione soggettiva poiché esse sono state molteplici e disperse
in un ampio lasso di tempo. Non possiamo allora pensare ad una specie di reazione
a catena avvenuta dopo la testimonianza di apparizione accaduta a Pietro, in
quanto Cristo appare poi a Giacomo, che non è stato uno dei discepoli che è
tornato subito con Pietro a Gerusalemme.
La terza apparizione avviene a Paolo, ma sono trascorsi da allora ben tre anni.
Poi vi sono anche le apparizioni ai Dodici, ai Cinquecento, a tutti gli
Apostoli. Sicuramente non si può discutere sul valore storico dell’apparizione
ai Cinquecento, poiché poteva essere un dato facilmente controllabile in
quanto, essendo in gran parte in vita, potevano essere interrogati
personalmente. Non possiamo sostenere la stessa cosa delle apparizioni ai
Dodici e agli Apostoli: in questi casi si può ritenere di essere di fronte ad
una tradizione arcaica[10] oppure
che si stia parlando della stessa apparizione;
c)
dobbiamo lasciar da parte ogni possibile
spiegazione soggettiva delle apparizioni per concentrarci sulla ricostruzione
di un’esatta successione storica e cronologica del cristianesimo primitivo,
stando bene attenti a non cadere vittima di precomprensioni e di pregiudizi. Le
apparizioni del Cristo Risorto, in effetti, possono essere proprio considerate
come quell’avvenimento che sta alla base di un capovolgimento del comportamento
degli apostoli dopo la crocefissione del loro Maestro: dove sono finiti i dubbi
e le paure, ma, soprattutto, da dove tanto coraggio e zelo? Solo degli eventi
straordinari possono spiegare ciò, dato che
ci sono dei fatti che
contengono un’evidenza così irresistibile che il loro senso per noi non può essere
dubbio. Ma ci sono anche avvenimenti, il cui significato rimane per noi oscuro
[…]. La vicenda delle apparizioni pasquali come incontro col Gesù risorto […]
appartiene ovviamente piuttosto al primo gruppo di eventi, con un significato
molto chiaro. Diverso era il caso della crocifissione di Gesù. Questa era
sentita in tutt’altro modo, come oscura e problematica[11].
[2] «1 Vi ricordo, fratelli, il vangelo che vi ho
annunciato, che voi avete anche ricevuto, nel quale state anche saldi, 2 mediante
il quale siete salvati, purché lo riteniate quale ve l'ho annunciato; a meno
che non abbiate creduto invano. 3 Poiché vi ho prima di
tutto trasmesso, come l'ho ricevuto anch'io, che Cristo morì per i nostri
peccati, secondo le Scritture; 4 che fu seppellito; che è
stato risuscitato il terzo giorno, secondo le Scritture; 5 che
apparve a Cefa, poi ai dodici. 6 Poi apparve a più di
cinquecento fratelli in una volta, dei quali la maggior parte rimane ancora in
vita e alcuni sono morti. 7 Poi apparve a Giacomo, poi a
tutti gli apostoli; 8 e, ultimo di tutti, apparve anche a
me, come all'aborto; 9 perché io sono il minimo degli
apostoli, e non sono degno di essere chiamato apostolo, perché ho perseguitato
la chiesa di Dio. 10 Ma per la grazia di Dio io sono
quello che sono; e la grazia sua verso di me non è stata vana; anzi, ho
faticato più di tutti loro; non io però, ma la grazia di Dio che è con me. 11 Sia
dunque io o siano loro, così noi predichiamo, e così voi avete creduto».
[3] Cfr. Gal 1, 18.
[4] L’esegeta Fabris sottolinea che l’apparizione del
Risorto a Giacomo non è documentata dalla Sacra Scrittura ma si trova in un
testo apocrifo, Vangelo agli ebrei, di
cui ci testimonia Girolamo nel De viribus
illustribus (cfr. R. Fabris (a
cura di), Prima Lettera ai Corinzi,
Paoline, Milano 1999, 200).
[6] «che cioè Cristo morì per i nostri peccati secondo le
Scritture, fu sepolto ed è risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture, e
che apparve a Cefa e quindi ai Dodici». Che sia una formula prepaolina è Paolo
stesso ad ammetterlo nel v. 3a, affermando: «vi ho trasmesso dunque, anzitutto,
quello che anch’io ho ricevuto».
[7] Amato, nel suo studio cristologico, sottolinea come le
apparizioni, pur trattandosi di un evento trascendente e metastorico,
mantengano «un solido aggancio con la nostra storia. Le apparizioni di Cristo
risorto rappresentano, infatti, un autentico e misterioso incontro tra la
trascendenza di Dio e l’immanenza dell’uomo, tra eternità e tempo. Si tratta
[…] di un gratuito “lasciarsi vedere” di Gesù, che illumina i suoi
interlocutori con la grazia della fede. Ma è pur sempre un incontro che viene
catturato nello spazio–tempo della storia. Da questo punto di vista, quindi, la
resurrezione ha un reale “margine storico”, un innegabile “lato” rivolto verso
la storia dell’uomo. Conseguentemente l’uomo può cogliere questa “traccia” e
interpretarla. In questo senso la resurrezione si può chiamare, con W.
Pannenberg, “evento storico”» (A. Amato, Gesù il Signore, 542).
[8] Luca afferma che «gli uomini che facevano il cammino
con lui si erano fermati ammutoliti, sentendo la voce ma non vedendo nessuno» (At
9, 7). In At 22, 9, invece, Paolo,
raccontando l’episodio di Damasco, sostiene che «quelli che erano con me videro
la luce, ma non udirono colui che mi parlava» e riconferma questo pure in At
22, 13, dove aggiunge che tutti caddero a terra, ma egli solo sentì una voce
dal cielo. Stando agli studi di Pannenberg sembra più probabile il dato che i
compagni di Paolo abbiano partecipato all’evento di Damasco ma non abbiano
ascoltato nulla, poiché sembrerebbe improbabile quanto riferito in At 9, 7,
ossia che abbiano udito ma non abbiano visto nulla, nemmeno la luce dal cielo.
Comunque rimane evidente che solo Paolo comprese il significato di ciò che stava
succedendo in quel momento.
[9] Angelo Amato offre una spiegazione precisa di questo
verbo greco nel suo saggio cristologico e specifica che esso «designa visioni e
apparizioni reali e oggettive, ma che, nel caso delle teofanie, non
rappresentano eventi neutrali […]. Non si tratta, cioè, di visioni notturne
avute nel sogno […], né di esperienze estatiche […]. Le apparizioni di Gesù
sono eventi concreti e come tali vengono messe sullo stesso piano dei
precedenti fatti reali della morte, della sepoltura e della risurrezione.
Tuttavia, pur essendo il Cristo risorto una realtà esterna ai discepoli, non
sono sufficienti i soli sensi per la sua percezione, dal momento che le
apparizioni pasquali rimasero nascoste agli osservatori neutrali. La visione
del Risorto è un dono dello stesso Risorto» (A.
Amato, Gesù il Signore, 545).
[10] Anche Romano Penna è di quest’avviso conferendo ai
“Dodici” un significato ideale–sacrale piuttosto che numerale, in quanto le
apparizioni avvennero agli Undici, poiché Giuda Iscariota era logicamente
assente e Mattia entrò nel gruppo dopo l’ascensione di Gesù e, quindi,
successivamente alle apparizioni (cfr. R.
Penna, I ritratti originali di
Gesù il Cristo, 198, nota 64).
[11] W. Pannenberg, Cristologia, 77–78.
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