mercoledì 29 aprile 2015

Cambiamento e Rinascita. Idee in movimento


«Se non sapremo offrire al mondo impoverito del dopoguerra nient’altro che i nostri corpi salvati a ogni costo – e non un nuovo senso delle cose, attinto dai pozzi più profondi della nostra miseria e disperazione – allora sarà troppo poco»[1]. In queste parole di Etty Hillesum scritte mentre si trovava ad Amsterdam in una lettera di fine dicembre 1942 mi sembra di poter rileggere il compito che il filosofo è chiamato ad assumere nel mondo odierno. Egli non può limitarsi a sorgere al tramonto come l’hegeliana nottola di Minerva, ossia ad impiegare il suo tempo per riflettere su ciò che già è accaduto, ma deve assumere un ruolo prospettico[2], che sappia guardare al futuro e cogliere il senso nuovo di una realtà che verso di esso si incammina. Questo è lo scopo allora del mio intervento in un momento in cui si sente forte il bisogno di cambiamento, di rinascita, di freschezza primaverile.

L’essere umano è da sempre inserito all’interno di un flusso di cambiamenti continui, mai arrestati. Già Eraclito tra il VI e il V secolo a. C. affermava che tutto scorre, tutto cambia in un modo così veloce che nemmeno è possibile immergersi per due volte nell’acqua di uno stesso fiume. Cambia il mondo, cambia il nostro corpo, cambia il nostro sentire, con una velocità davvero incredibile. «Nel mondo tutto si agita»[3] scriveva lo scienziato russo Pavel Florenskij ne La colonna e il fondamento della verità (1914), facendo riecheggiare l’immagine eraclitea del fuoco, simbolo dell’incessante divenire. Nel mondo vi è continuo mutamento, lotta tra gli opposti in vista di una loro unificazione, una lotta che è padre, secondo Eraclito, di tutte le cose, generando o la libertà o la schiavitù. Una lotta che produce una contrapposizione che, nella visione eraclitea, è compresa come armonia.

Ma questo cambiamento, che vuole essere una vera rinascita, non può considerarsi immediato ma deve attraversare alcune fasi, delle quali la prima è proprio quella della crisi. Siamo in un tempo di crisi che attanaglia tutti e che nasconde dietro la maschera della questione economica e del problema lavorativo il nocciolo duro della mancanza di senso. È la crisi data dalla assenza di risposte a quelle domande kantiane, chi sono?, da dove vengo?, dove vado?, alle quali la scienza, come oggi la si intende, non può rispondere ma alle quali oggi più che mai è essenziale dare una risposta. Sempre la Hillesum evidenziava nelle stessa lettera di cui sopra: «mi sembrava così pericoloso sentir ripetere: “Non vogliamo pensare, non vogliamo sentire, la cosa migliore è diventare insensibili a tutta questa miseria”»[4].

Dobbiamo invece pensare. È questo l’imperativo categorico kantiano a cui dobbiamo sentirci chiamati tutti noi, a pensare e a dubitare. Dobbiamo lasciarci interrogare dalla realtà, dobbiamo mettere in crisi le nostre certezze evitando di nascondere la testa sotto la sabbia per far finta di non vedere. Il dubbio era il metodo della ricerca filosofica cartesiana. Fu proprio Descartes, infatti, a teorizzare l’importanza di dubitare di ogni cosa, persino delle percezioni dei nostri sensi, per poi trovare la soluzione di tutto nella certezza dell’esistenza di un Dio buono, dichiarato successivamente morto nel 1882 da un folle all’interno, non a caso, di un mercato[5]. Ma Cartesio, ponendo il dubbio come metodo, non smetteva di nutrire in sé l’ansia della verità, possedendo, per dirla con Florenskij, la certezza di non possederla fino in fondo. Il filosofo e scienziato russo sosteneva, dal canto suo,  che l’idea della verità bruciava in lui come un fuoco divoratore e la segreta speranza di incontrarla faccia a faccia incollava la sua lingua al palato. Essa era come un torrente infuocato che gli ribolliva e gorgogliava nelle sue vene[6].

Chi non dubita, secondo Cartesio, non è in grado di pensare e non fa altro che ripetere delle formule vuote e masticare una cultura già digerita da altri. Il dubitare invece lo porterebbe a ritenere come solamente il fatto che “io-penso” possa essere la causa della certezza del mio “io-esisto”. Così affermava tra il 1628 e il 1629 mentre si trovava immerso nella solitudine olandese: «Il pensare […]: è il pensiero quel che cercavo, ché questo solo non può esser separato da me. Io esisto, è certo; ma fino a quando? Finché penso, di certo; ché, se mai cessassi di pensare, potrebbe darsi che con ciò stesso cessassi interamente di esistere»[7].

Ma io-essere-pensante, chi sono? Quali risorse posseggo? A mio avviso l’essere umano del terzo Millennio è un “essere fragile che sa meravigliarsi”. Cartesio concludeva le sue Meditationes de prima philosophia sottolineando che «si deve riconoscere la debolezza della nostra natura»[8]; ugualmente Etty Hillesum nella ultima pagina del suo Diario datata 13 ottobre 1942 poneva come ultima riga: «BISOGNA SAPER ACCETTARE LE PROPRIE PAUSE!!!»[9]. L’essere umano deve, a mio giudizio, trovare nella sua fragilità non una colpa o una malattia ma una vera e propria forza e risorsa per sé e per gli altri. Egli si scopre, infatti, bisognoso degli altri, di amare ed essere amato, di stima, pieno di paure, di dubbi e di incertezze, metafisicamente finito e limitato. Al tempo stesso, però, si mostra come un essere capace di stupirsi, ossia di non rimanere indifferente alla realtà che lo circonda. Quella meraviglia, che per Cartesio è la prima delle passioni dell’essere umano e l’unica ad essere priva di contrari[10], è ciò che permise alla Hillesum di sopravvivere nel campo di smistamento di Westerbork in Olanda in attesa del treno che la avrebbe condotta alla “soluzione finale”[11], a Florenskij di impegnarsi nella ricerca scientifica fino alla fine, ossia sino al sopraggiungere della sua fucilazione in un bosco di Leningrado[12] e a Platone[13] ed Aristotele[14] di indagare la realtà. Siamo capaci di stupore ma siamo fragili. Ciò che contraddistingue l’essere umano oggi come ieri non è il mito della volontà di potenza o di quel super uomo di cui si fece portavoce Nietzsche. L’uomo si deve riconoscere fragile e sottoposto ad un continuo cambiamento, il quale però non può alterare la sua alta dignità di essere pensante.

Ma come può il pensiero realizzare nella nostra società attuale una vera e propria rinascita? Dalla notte dei tempi l’uomo è riuscito, tramite il suo pensiero, a trasformare la natura in cultura, superando i suoi istinti e trasformando, grazie alla tecnica, il mondo circostante in un ambiente vitale. Ciò lo ha differenziato dagli altri animali, con i quali ha da sempre condiviso il mondo in cui abitare. Certamente quando l’essere umano pensa egli pensa la realtà e non il nulla e può venir condizionato dalla stessa realtà che pensa. L’uomo non è mai un soggetto neutrale posto dinanzi ad una realtà da osservare né può essere considerato distaccato da essa, la quale, invece, produce nell’animo dell’essere umano sentimenti ed emozioni contrastanti. D’altro canto, però, egli è chiamato, per l’eccedenza di cui è costituito rispetto alla realtà che lo circonda, ad agire per attuare una trasformazione di quest’ultima in vista di un progresso materiale e spirituale. L’uomo non deve lasciarsi derubare la vita dalla realtà che lo circonda ma, a partire dal contatto con la natura, con la musica, con l’arte deve ridiscendere in quel “pozzo” che è presente dentro di lui per ritrovare la sorgente della sua esistenza e risvegliare la sua sete dell’Assoluto.

È per questo fondamentale riappropriarsi della categoria del futuro, nella quale è insita la dimensione della progettualità propria dell’essere umano. Categoria, questa, che attualmente ci stiamo lasciando derubare dal capitalismo e dalle logiche della finanza. L’essere umano è un “essere futuro”, al tempo stesso immanente e trascendente il mondo attuale, orientato a qualcosa o a qualcuno che deve venire e che non gli è dato di conoscere prima. Questo futuro non è il nulla, il vuoto, l’assenza d’essere ma è caratterizzato dall’essere tempo dell’attesa, della speranza, del desiderio, della creatività. È un tempo, insomma, pieno d’essere, un tempo di ansia e di ricerca della verità.

Il futuro è carico di domande, le quali vertono in gran parte intorno alla grande sfida del pluralismo, la cui logica interna è quella della differenza[15]. Come affermava in maniera profetica negli anni Settanta l’antropologo ed etnologo Roger Bastide, «il moltiplicarsi dei rapporti tra popoli e culture non sfoci il più delle volte che nel moltiplicarsi delle barriere e delle incomprensioni»[16]. Rinascere in questo terzo Millennio già in corsa può significare allora trascendere se stessi per ritrovare il proprio senso, vuol dire avere bisogno degli altri per recuperare la propria identità. La via della differenza e non quella della omologazione è la strada che deve essere percorsa dalla società odierna, sapendo che il principio di identità, come evidenzia L’ubomir Žák, uno dei maggiori conoscitori ed interpreti del pensiero di Florenskij, è un principio di morte, è «l’urlo dell’egoismo messo a nudo», è «l’Io che odia ogni Io fuori da se stesso»[17], è fautore di una identità omologante, non creativa e priva di attenzioni nei confronti delle differenze.

È allora fondamentale tenere presente il monito del filosofo Edmund Husserl per il quale la comunità sociale non poteva essere semplicemente data dalla somma dei singoli uomini che coesistono nel medesimo tempo e condividono lo stesso spazio, ma dalla connessione dei singoli spiriti. L’altro è la garanzia del mio essere io. Il diverso allora non è il nemico, ma è la condizione di possibilità che io sia. È questo il cambiamento, la rinascita, di cui l’uomo contemporaneo ha davvero bisogno per inaugurare una nuova primavera che sia finalmente priva di pregiudizi, ignoranza e sogni di potenza ed egemonia[18]”. Lo “straniero”, in questi ultimi tempi, rischia di essere sempre più ridotto ad “estraneo”, ossia ad un essere umano anonimo, senza identità, così in-differente da essere equiparato ad un “nessuno”[19]. Scriveva Enzo Bianchi in un piccolo ma interessantissimo saggio: «Comunichiamo a distanza, interagiamo in “tempo reale”, ci sentiamo connessi con una rete globale, ma distogliamo lo sguardo e il cuore da “l’altro accanto a noi”, nella paura che il diverso cessi di restarci estraneo e inizi a inquietare la falsa sicurezza che regna tra i “simili”»[20]. Lo straniero non è l’estraneo, non abita tra di noi, ma abita con noi[21].

È necessario allora accogliere l’aria primaverile apportata da una ventata nuova di cambiamento di mentalità, il quale sarà possibile solamente salvaguardando quella che è la costituzione dialogica dell’essere umano. Il dialogare non comporta l’annullamento delle differenze in vista di una possibile omologazione o assimilazione di una divergenza nell’altra. Il dialogo fa sì che le differenze possano compenetrarsi ed integrarsi l’una con l’altra alla ricerca di un comune progresso. Essa si fonda su di un rapporto empatico che trova nel volto il suo baricentro[22]. Il volto, infatti, è ciò che manifesta i sentimenti e i desideri che albergano nel cuore di ogni persona, ma è anche l’unica condizione di possibilità dell’incontro fra gli individui. «Il volto dell’altro è la condizione della mia identità»[23]. Il riconoscere sempre e comunque nel volto dell’altro un valore così come il cercare di mutare una politica di “tolleranza delle differenze” in una “cultura delle differenze” sono, a mio parere, le sfide più importanti che oggi si pongono alla odierna società per attuare un cambiamento che possa essere una vera rinascita per tutti.



[1] Etty Hillesum, Lettere 1941-1943, Adelphi, Milano 2013, 57.
[2] Cfr. Emilio Baccarini, La soggettività dialogica, Aracne, Roma 2000, 186.
[3] Pavel Aleksandrovic Florenskij, La colonna e il fondamento della verità. Saggio di teodicea ortodossa in dodici lettere, San Paolo, Cinisello Balsamo 2010, 19.
[4] Etty Hillesum, Lettere, 57.
[5] Cfr. Friedrich Wilhelm Nietzsche, La gaia scienza, aforisma 125, Barbera, Siena 2007, 131-133.
[6] Cfr. Pavel Aleksandrovic Florenskij, La colonna e il fondamento della verità, 46.
[7] René Descartes, Meditazioni metafisiche, II, 21, Laterza, Bari 1997, 43.45.
[8] Ivi, VI, 16, 149.
[9] Etty Hillesum, Diario 1941-1942, Adelphi, Milano 2013, 797.
[10] René Descartes, Le passioni dell’anima, art. LIII, Bompiani, Milano 2003, 205.
[11] Cfr. Riccardo Beltrami, “L’esperire Dio al servizio di un’autentica cultura dell’incontro: la figura di Etty Hillesum”, in Mysterion 7 (2014) 2, 333.
[12] Cfr. Id., Incontrare Dio all’inferno. L’esperienza mistica nel pensiero di Etty Hillesum e di Pavel Florenskij, Kion, Terni 2014, 49-80.
[13] Nel Teeteto Socrate invita il giovane matematico Teeteto, discepolo del geometra ateniese Teodoro di Cirene, a non stancarsi mai di ricercare la verità. E sottolinea: «Si addice particolarmente al filosofo […] il meravigliarti. Non vi è altro inizio della filosofia se non questo» (Platone, Teeteto, 155d, Newton & Compton, Roma 1997, 403).
[14] Secondo lo Stagirita «gli uomini hanno cominciato a filosofare […] a causa della meraviglia […]. Ora, chi prova un senso di dubbio e meraviglia riconosce di non sapere» (Aristotele, Metafisica, A 2, 982b12-18, Rusconi, Milano 1993, 11). Il termine greco Θαυμα più che meraviglia indica lo stupore. Questo può anche essere un fascino, un’attrazione verso qualcosa di negativo ed inquietante come l’angoscia e la paura che si poteva provare al tempo del Filosofo dinanzi ad un cosmo di cui non se ne conoscevano le cause.
[15] Cfr. Emilio Baccarini, La soggettività dialogica, 187-188.
[16] Roger Bastide, Noi e gli altri, Jaca Book, Milano 1971, 14.
[17] L’ubomir Žák, Verità come ethos. La teodicea trinitaria di P. A. Florenskij, Città Nuova, Roma 1998, 243.
[18] Cfr. Roger Bastide, Noi e gli altri, 13-14.
[19] Cfr. Emilio Baccarini, La soggettività dialogica, 196-199.
[20] Enzo Bianchi, L’altro siamo noi, Einaudi, Torino 2010, 4-5.
[21] Cfr. Ivi, 12.
[22] Secondo il fondatore della comunità monastica di Bose, l’empatia è «la capacità di metterci al posto dell’altro, di comprenderlo dal suo interno, è la manifestazione dell’humanitas dell’ospite e dell’ospitante, è umanità condivisa» (ivi, 13).
[23] Emilio Baccarini, La soggettività dialogica, 199.

Nessun commento:

Posta un commento