Ma perché parlare di due culture e non di due competenze? Questo a mio giudizio fu l'equivoco praticato da Snow. Piuttosto di culture sarebbe bene parlare allora di "atteggiamento culturale".
Non dobbiamo nascondere che con la seconda guerra mondiale l'uso delle bombe atomiche aveva colpito l'immaginario collettivo ed era sembrato che ad incidere prepotentemente sul mondo fosse la scienza e non la filosofia.
Questa polemica, però, non possedeva nulla di nuovo. Infatti già negli anni Venti e Trenta del Novecento il Neopositivismo logico di Carnap aveva sancito la distinzione tra ciò che era sensato dire e ciò che non lo era. Il discriminante era posto nel procedere scientificamente. Chi fa scienza sa cosa dire, Heidegger e i filosofi come lui sono invece dei falliti, non essendo né poeti né musicisti.
I metafisici erano considerati dei "musicisti senza talento musicale". Questo fu l'oltraggio che Carnap fece alla filosofia pur essendo egli stesso un filosofo. Unica differenza è che egli poneva da filosofo il suo interesse maggiore nella scienza. Compito del filosofo è allora quello di chiarificare i concetti che la scienza usa. Questa vocazione in realtà la filosofia l'ha sempre posseduta fin dai tempi di Platone, il quale usava il maestro Socrate per sfidare gli interlocutori in chiarificazioni concettuali. Wittgenstein è stato poi il grande maestro delle analisi concettuali, avendo ritenuto la filosofia come un dibattersi tra i trabocchetti del linguaggio. Secondo lui quando anche la scienza avesse dato la risposta a tutti i suoi interrogativi, i problemi della vita non sarebbero neanche stati sfiorati. Che il mondo sia è il mistico. Wittgenstein non volle mai fare parte dei positivisti, per i quali l'attività seria è data dalla scienza.
L'antecedente di Wittgenstein è stato Platone, il quale nel VI-VII libro della Repubblica aveva elaborato la via della filosofia a partire da un tirocinio fisico per passare poi allo studio corpi solidi, e così all'astronomia, e poi alla dialettica e così via.
Se dovessi dare una definizione della filosofia direi che essa è un lento ascolto della vita.
Secondo il filosofo italiano Giulio Preti bisogna compiere una distinzione tra la cultura umanistica, che egli chiama "retorica" e quella scientifica detta "logica".
Facendo un piccolo excursus di storia della filosofia moderna, ci accorgiamo come per Cartesio l'ideale del sapere è dato dal partire da ciò che è chiaro e distinto. Il sapere è costruzione. Con Galilei si avrà che la lingua matematica è quella uguale per tutti, per noi e per Dio, che conosce tutti i teoremi senza bisogno della dimostrazione. Dio ha creato il mondo con il linguaggio della matematica e noi possiamo leggerlo grazie agli esperimenti. Con Popper si smise di parlare di assiomi per lasciare il posto ai postulati. Tutto è fallibile e rivedibile. Il sapere degli scienziati procede per tentativi ed errori.
Ma poniamoci una domanda: il discorso scientifico che è sempre in terza persona, copre veramente tutto lo spazio della realtà? La mente è riconducibile a processi cerebrali? E la coscienza, dove la poniamo? Essa sfugge al discorso in terza persona!
La scienza è libera da valori, ma l'essere umano è continuamente pressato da questioni etiche. La scienza descrive lo stato delle cose, ma non può prendere decisioni, al più può partecipare. Quando è chiamato ad esprimere la sua decisione, però, lo scienziato resta tale o deve fare appello al suo essere in prima persona in quanto uomo? Può tralasciare tutta questa realtà che lo assedia?
di Valerio MEATTINI,
Docente di Filosofia teoretica e di Filosofia della mente all'Università degli Studi di Bari
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