«La questione del gender fa riferimento ad una ideologia secondo la quale non è tanto
importante come si è fisicamente quanto come ci si sente». Sono state queste le
chiare parole con le quali il dottor Tommaso
Cosentini, Vice Presidente dell’Associazione Medici Cattolici di Rieti, ha
aperto l’incontro-dibattito tenutosi sabato 11 aprile 2015 a Rieti, presso
l’Auditorium Varrone, intorno al tema Sesso,
sessualità e identità di genere tra autodeterminazione e discriminazione,
organizzato dalla Ufficio Pastorale della Salute della Diocesi di Rieti. Il
medico ha introdotto i lavori sottolineando come la teoria del gender associ la sessualità alla
personalità e come sia stata ben accolta in alcuni paesi europei e in America,
credendo che essa possa portare una ventata nuova di uguaglianza nella lotta
contro la discriminazione.
La problematica del gender è una questione molto complessa, che trova il suo nodo
centrale nell’esser persona, ossia nell’essere capace di relazionarsi agli
altri. A fare da guida nei meandri di questa tematica è stato il professor Pietro Grassi, docente presso la Pontificia Università Santa Croce
di Roma. Egli ha cercato di mostrare come il parlare di identità non sia mai
una cosa totalizzante, e come soprattutto non lo sia durante il periodo
dell’adolescenza. Ognuno, infatti, è uno e molteplice al tempo stesso, ognuno è
un mistero a se stesso e lo scadere nel conformismo può essere una trappola
veramente mortale. Il dolore e la sofferenza, infatti, conducono allo scontro
con la realtà, a partire da quale è possibile comprendere che la vita non è un
gioco ma qualcosa di reale, la vita non è un “come se” ma un “come”. Spesso noi
vogliamo essere al posto di un altro, ma non essere l’altro, in quanto se siamo
lui non siamo io. “Essere io” è l’avventura di una vita, l’esperienza di una
vita, la ricerca di ciò che siamo attualmente o in potenza, ma sempre in
rapporto all’immensità che siamo. Conosci te stesso, recitava l’oracolo. Chi
sono? Da dove vengo? Dove vado? Perché soffro? Sono questi gli interrogativi
che pongo continuamente a me stesso. Per i buddisti si è un sogno in un sogno.
Ma l’uomo non è sogno, è libertà, è volontà. Sono le persone che amiamo, i
libri che leggiamo, la musica che ascoltiamo a dirci chi siamo e a determinare
la nostra gioia, la nostra felicità, la nostra sofferenza, il nostro godere.
Alcune situazioni feriscono la mia anima ma non posso togliermi dal contesto e
dalla situazione che mi trovo a vivere.
Diviene allora prezioso riscoprire nella
logica del volto l’incarnazione della identità della persona. Alcune volte si
cammina accanto alle persone come sfiorando delle macchine parcheggiate. Questo
vuol dire tradire la logica del volto. Il volto è l’altro in cui posso
perdermi, smarrire la mia identità, dare un senso alla mia esistenza. Il volto
altrui è il mio limite, è sguardo, occhi che vedono. Il volto dell’altro è
tutto tranne che un viso anonimo. In ogni uomo è presente il mistero e guardare
un volto significa entrare in contatto con quel mistero. Passeggiando mano per
la mano con la persona che amo comprendo che il mio corpo non è qualcosa di
accessorio. Il corpo è fonte di comunione e siamo tanto più umani quanto siamo
in comunione con gli altri. Amare è umano, odiare no, perché conduce al
degrado. La tecnologia spesso è divenuta il nostro padrone, disumanizzando le
nostre relazioni, impoverendoci in umanità.
La nostra società, invece, è fortemente
individualista e insegna a fare a meno degli altri. Si diventa adulti nella
misura in cui si diviene sempre più autonomi e non bisognosi degli altri. Noi,
però, non smettiamo mai di sentire il bisogno degli altri, anche se solo per
vincere la solitudine. Il problema è che però intessiamo rapporti che non ci
condizionano o che pretendano qualcosa da noi. Relazioni veloci che riducono il
volto altrui in una faccia da scordare il prima possibile. Educati in questa
ottica i ragazzi rischiano di essere sempre più dipendenti, purtroppo di altre
cose!!!
È stato allora lo psichiatra Paolo Di Benedetto ad approfondire la
tematica della identità sostenendo che essa è al tempo stesso una sola e
molteplice. L’identità della persona è una realtà dinamica e non statica,
risultato di molteplici fattori. Vi è l’identità immaginaria, quella capace di
assumere i colori del momento per essere sempre adeguata alla scena in cui
viene a trovarsi. Una identità costruita, quindi. Vi è l’identità simbolica,
frutto della nostra storia, alla quale appartengono la famiglia, le istituzioni,
oppure vi è anche una identità definita reale, in quanto è quella che manifesta
ciò che veramente siamo nel momento in cui si è costretti ad abbattere le difese.
È l’identità che generalmente noi nascondiamo ma che poi emerge spontaneamente
in alcune circostanze. Poi vi sono i sintomi, ossia quegli aspetti che
testimoniano la nostra singolarità e dai quali non riusciamo a separarci, come
se essi fossero per noi degli “angeli custodi”.
In una società dove l’imperativo
categorico non è più quello del dovere ma quello del godere, lo psichiatra Di
Benedetto ha evidenziato come l’essere entrato in crisi del “nome del padre”
abbia un poco alla volta destrutturalizzato la persona umana. La figura
regolatrice non c’è più, quel padre che incarna la figura del desiderio
dell’altro è venuto meno per lasciare il posto ad una madre che proteggendo la
vita ne simboleggia il godimento.
Oggi si è così dinanzi a quello che
Judith Butler definiva essere il “sesso liquido”, ossia una teoria secondo la
quale il genere debba essere piegato in favore di un qualcosa di eccentrico e
di insolito. Un nomadismo sessuale che priva l’essere umano di identità e
genera un trans-umanesimo. In questo modo anche la stessa teoria del gender viene a trovarsi già sorpassata
da quella di un “nuovo modo di essere”, che è un qualcosa di non
classificabile. Ma questo non è scienza!!! Con queste teorie, infatti, abbiamo
a che fare, secondo lo psichiatra, con una vera e propria ideologia mediata da
una filosofia gnostica autoreferenziale che non presenta nessun legame con il
dato biologico strutturale, anzi nega la corrispondenza con il reale. Il sesso
è sottomesso così alla cultura (culturalismo) e non è più un dato ontologico
(essenzialismo).
Fondamentale è allora il ruolo della
famiglia. Non si può, ha ribadito con forza il dottor Di Benedetto, tutto
chiudere con la nascita del fanciullo, in quanto è proprio nella adolescenza
che si attua la scelta definitiva del sesso, ossia nel momento in cui tutto si
rimette in discussione. Fare l’uomo e fare la donna è un vero apprendimento e
non è dato con il solo nascere. La cultura influenza certamente l’identità
sessuale, ma quest’ultima non può essere relegata alla scelta del soggetto.
Le riflessioni di questi esperti sono
risultate davvero importanti, nel momento in cui a Pechino già da qualche anno
si parla di cinque generi mentre salgono a 52 le possibilità di genere
delineate nei profili facebook. Dopo
numerosi interventi, il Vicario della Diocesi di Rieti, mons. Jaroslaw Krzewicki, ha concluso
affermando che l’ideologia gender sta
entrando velocemente nelle scuole ed è essenziale comprendere quale sia il
meccanismo che ne promuove la diffusione. Indagare le radici del problema non è
sufficiente, è necessario scoprire quali sono le ferite che le persone portano
con sé. La teoria del gender riguarda
dei ragazzi in carne ed ossa e potrebbe ledere quel bene che è la loro crescita
e la promozione dei loro “giusti diritti”.
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