mercoledì 1 aprile 2015

Il significato della resurrezione di Gesù secondo Wolfhart Pannenberg


Il nostro Teologo lega il mistero della risurrezione di Gesù con la necessità di dare una conferma alle pretese portate avanti da Cristo durante la sua vita terrena, tra cui il suo essersi fatto rivelazione del Padre nel percorso storico del popolo di Israele[1]. Questo aveva prodotto un grande scandalo. Gesù parlava ed operava mettendosi al posto di Dio. Non era uno dei tanti profeti giudaici, poiché non richiamava il popolo alla sequela della Legge ma di se stesso (ma io vi dico). Si era fatto attualizzazione del regno di Dio, si sedeva a mensa con pubblicani e peccatori anticipando così il banchetto escatologico, parlava non con l’autorità degli scribi e dei farisei ma con l’autorevolezza stessa di Dio, chiamava i suoi apostoli allo stesso modo di come JHWH aveva chiamato i suoi profeti (cfr. Mc 1, 16–20; 2, 13–14; 3, 13–15; Gv 1, 13–51)[2]. Da dove gli proveniva questa exousìa che gli permetteva di essere interprete della Legge e di farsi uguale a Dio?

Pannenberg risponde facendo riferimento alla struttura prolettica della pretesa di Gesù[3]: «dai discorsi degli Atti degli apostoli, in primo luogo, e forse anche dall’antica locuzione, che Gesù sarebbe stato giustificato nello Spirito, la prima predicazione cristiana ha effettivamente inteso la risurrezione di Gesù dai morti come conferma della sua pretesa prepasquale»[4]. È la risurrezione la parola definitiva con cui Dio diede, dopo la croce, gloria a Gesù, in quanto, scrive il teologo Hans Kessler,


la morte in croce fa del Gesù terreno prepasquale una questione aperta e non risolvibile. Tale questione rimane e ad essa non è possibile dare una risposta, se si rifiuta la risposta ad essa data con la fede pasquale protocristiana, secondo la quale Dio avrebbe risuscitato da morte il Gesù crocifisso, l’avrebbe confermato e avrebbe così risolto con una sua propria azione la questione per noi irrisolvibile dell’esistenza e della morte di Gesù. Se alla questione radicale di Dio e della sua vicinanza salvante (per mezzo di Gesù), posta in linea di principio dalla morte di Gesù, esiste una risposta, tale risposta poteva essere data solo da Dio stesso[5].

 

Secondo Pannenberg, la resurrezione di Cristo non è solamente una convalida autorevole dell’operato del Figlio di Dio. Essa è anche l’anticipazione della fine dei tempi. Anticipazione della fine, non la fine stessa, differenza questa non tanto qualitativa, quanto quantitativa, dato che «la realtà escatologica anticipata si è resa in lui evento. Per tale motivo, l’anticipazione della fine, come si è realizzata nella risurrezione di Gesù, non è più superabile da alcun evento intramondano»[6]. Differente era, invece, il pensiero diffuso nei primi anni del cristianesimo, per il quale nel risorgere di Cristo si poteva scorgere l’irrompere della fine del corso della storia[7]. Ora si entra in relazione con Dio tramite il rapporto che si intesse con il Gesù di Nazareth, il Risorto, Colui nel quale Dio si è voluto manifestare in modo definitivo. È da Gesù che acquista senso la totalità, la natura di ciascun avvenimento e ogni vita[8].

Per questo è bene secondo il nostro Teologo dare rilievo all’umanità di Cristo. È in essa, infatti, che si manifesta l’exousìa di Gesù, il suo essere al tempo stesso Dio e rappresentante degli uomini davanti a Dio. Nella storia della teologia Gesù è così divenuto l’uomo che è in pieno possesso del Logos (Atanasio), l’uomo che realizza la perfetta somiglianza con Dio (Paolo di Samosata), l’uomo che ha soddisfatto al peccato di Adamo (Anselmo), l’uomo modello di giustificazione per mezzo della fede (Lutero), l’uomo in cui domina la coscienza di Dio (Schleiermacher), l’uomo esemplare nell’obbedienza a Dio (Barth), la realtà della filiazione riservata a tutti noi (Gogarten), il credente per eccellenza, il testimone della fede (Ebeling) ed infine la perfezione dell’uomo in genere (Rahner)[9]. Il nostro Autore approfondisce ancora ulteriormente il tema dell’exousìa di Cristo nella sua relazione con il mistero della Croce, vista da lui come espiazione vicaria per tutti noi[10]. Secondo Pannenberg, però, la Croce non permetterebbe di “conciliare” Gesù col Cristo[11], cosa resa possibile solamente attraverso la resurrezione di Cristo, con la quale verrebbe eliminata ogni ambiguità. Proprio grazie all’evento pasquale si rende possibile l’identificazione del Cristo con il Crocefisso e si assapora un nuovo messaggio di libertà nei confronti della Legge[12], di cui anche Paolo, in seguito, si è fatto portavoce nelle sue lettere[13].



[1] «[…] in Gesù, Dio stesso è apparso sulla terra. Dio in persona – e rispettivamente la figura riveltrice di Dio, il Logos, il Figlio – è stato tra di noi come uomo, in figura di Gesù. In questo senso nel passaggio della tradizione palestinese su Gesù nell’area siriana, il concetto di escatologia è stato tradotto interamente in quello di epifania» (W. Pannenberg, Cristologia. Lineamenti fondamentali, Morcelliana, Brescia 1974, 71–72).
[2] Cfr. P. Coda, Dio Uno e Trino. Rivelazione, esperienza e teologia del Dio dei cristiani, San Paolo, Cinisello Balsamo 1993, 98–102.
[3] «L’attuale condotta degli uomini verso Gesù è il criterio sulla base del quale supereranno, o no, il giudizio futuro. Qui viene alla luce la medesima pretesa di Gesù che si rivelò nel “ma io vi dico” del discorso della montagna, nella celebrazione del banchetto escatologico con pubblicani e peccatori, come pure nell’accentuazione data, in tutto il messaggio e in tutta l’opera di Gesù, alla presenza attuale della salvezza. Questa presenzialità della salvezza viene evidenziata, nella sua precisa struttura, nella frase or ora esaminata, appare cioè come anticipazione della decisione futura. Questa è la struttura prolettica della pretesa di Gesù» (W. Pannenberg, Cristologia, 59).
[4] Ivi, 69–70.
[5] H. Kessler, La risurrezione di Gesù Cristo. Uno studio, biblico, teologico–fondamentale e sistematico, Queriniana, Brescia 1999, 95.
[6] W. Pannenberg, “Ermeneutica storica e ermeneutica teologica”, in Id., Questioni fondamentali di teologia sistematica, Queriniana , Brescia 1975, 178.
[7] «[…] il cristianesimo primitivo non ha riflettuto, sottoposto com’era alle pressioni delle aspettative escatologiche del tempo, sul carattere di pura anticipazione dell’avvenimento di Gesù. La resurrezione di Gesù viene piuttosto intesa come l’irruzione della fine stessa» (ivi, 179).
[8] «Nell’orizzonte del pensiero protocristiano, la risurrezione di Gesù significava che la fine della storia era già diventata in lui evento, per cui ora – anche se in una forma imprevista – trovava conferma la sua pretesa pre–pasquale, che cioè il futuro destino di ciascun uomo dipende dal rapporto che ognuno assume nei confronti della sua persona e del suo messaggio. Ma la fine della storia, dell’imminente regno di Dio, è già diventata realtà attuale nella comparsa e destino di Gesù, e da lui prende quindi senso la totalità, la natura di ciascun avvenimento e di ogni vita, ed allora la tradizione cristiana potrà parlare di un Dio che si manifesta in modo definitivo in Gesù» (ibidem).
[9] Cfr. Id., Cristologia, 255–259.
[10] Uno studio sulla morte di Gesù come espiazione a partire dalla concezione paolina di Rm 3, 25 è quello di G. Pulcinelli, La morte di Gesù come espiazione. La concezione paolina, San Paolo, Cinisello Balsamo 2007.
[11] Tale difficoltà è data soprattutto dal fatto che Cristo con la pena inflittagli della croce è stato condannato a divenire il bestemmiatore (cfr. Mc 14, 64) e il rinnegato da Dio, il peccatore all’ennesima potenza. Come lo stesso Pannenberg afferma «Gesù non è fallito solo agli occhi di alcuni individui mediocri, ma proprio di fronte alla Legge ebraica, la cui autorità era contestata dal genere del suo comportamento» (W. Pannenberg, Cristologia, 340).
[12] Questa tematica è stata approfondita da Wolfhart Pannenberg in Teologia sistematica, III, Queriniana, Brescia 1996, 66–107. In queste pagine la legge viene vista da lui come l’espressione dello «stato d’imperfezione che la comunità umana vive in questo mondo, dove non tutti accettano l’altro nella sua alterità, né fanno spontaneamente ciò che è giusto fare […] Gesù Cristo rappresenta la fine della legge perché in lui si è reso già presente il futuro escatologico del Regno di Dio» (ivi, 106). In effetti il limite della legge risiede proprio nella sua caratteristica di essere per sua natura universale per poter garantire il diritto e la giustizia e non tiene conto della specificità del caso individuale. In questo modo non garantisce e non assicura la giustizia piena. Allora, conclude il nostro Teologo, è l’amore, fonte di comunione stabile, a motivare e a portare a compimento il diritto (cfr. Ivi, 105–106).
[13] Cfr. Rm 7, 4; 10, 4; 13, 10; Gal 5, 14; 6, 2.

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