La risurrezione è stata la chiave
interpretativa in base alla quale venne riletta tutta la vita di Cristo nella
prima comunità cristiana delle origini. Ma non solo. Anche il senso pieno della
Scrittura viene rivelato nell’incontro con il Risorto, dato che il suo significato
centrale è proprio la resurrezione di Gesù Cristo, il Crocefisso[1]. In
passato, invece, si era posta la resurrezione in un atrio nascosto di qualche
scantinato, lasciando alla soteriologia il compito di analizzare soltanto la
passione e la croce di Gesù. Col XX secolo si è riusciti a ricollocare la
risurrezione nel posto centrale che meritava all’interno degli studi
soteriologici ed anche escatologici[2].
Ma la
risurrezione di Cristo è stata un evento storico oppure no? È a questo
interrogativo che cercheremo ora di rispondere analizzando il pensiero di
Wolfhart Pannenberg. Il primo problema che ci troviamo ad affrontare, però, è quello
inerente il concetto di storicità. Interessante a questo riguardo è il
confronto riportato dal nostro Teologo nel secondo volume della sua Teologia sistematica[3] ed
avente come protagonisti lui e Walter Kasper. Secondo il nostro Autore
giudicare della storicità di un evento non implica necessariamente il sostenere
che di quell’evento non si possa discutere sulla sua effettualità. Tanto che «nel
caso della resurrezione di Gesù, ogni cristiano dovrebbe sapere che fino a
quando il mondo non si sarà realizzato compiutamente, escatologicamente, la
fattività di tale evento rimarrà controversa, in quanto rappresenta una sfida
per un modo d’intendere la realtà orientato al mondo che passa, mentre la nuova
realtà inaugurata con la resurrezione di Gesù non è ancora apparsa in tutta la
sua universalità e definitività»[4]. E il
nostro Teologo ci tiene a sottolineare che ciò che è “storico” non coincide con
ciò che è “storicamente dimostrabile”.
Kasper
non è, invece, di questo avviso, tanto che accusa Pannenberg di imporre
all’indagine storica «un onus probandi
davvero enorme»[5]. Egli esamina il
significato che il nostro Teologo attribuisce al sepolcro vuoto. Una caratteristica
del metodo di ricerca pannenberghiano, che viene sottolineata in questo
dibattito, è quella di inserire la problematica storica entro un orizzonte
ermeneutico più ampio, cercando di non scadere mai o in una mera fatticità
verificabile o in un dissolvimento fideistico. Kasper accetta di buon grado
questo modo di fare, evidenziando che anche la teologia cattolica si comporta
in ugual modo, tramite l’uso della categoria del “segno”[6].
Per
comprendere il pensiero del nostro Autore a riguardo della storicità della
resurrezione di Gesù è doveroso richiamare alla mente una precisazione
terminologica. Martin Kähler distingue i due termini che nella lingua tedesca
traducono “storia”, Historie e Geschichte. Con il primo termine si
intende la storia come cronaca, il fatto nudo e crudo, mentre con il secondo la
storia come una realtà operante nel tempo e nello spazio[7]. Dove
Pannenberg situa la risurrezione di Cristo? Di sicuro non solamente nella Historie ma anche nella Geschichte, in quanto è un fatto
accaduto in un tempo e in uno spazio ma ancora operante in mezzo a noi, in
quanto si estende a tutti coloro che parteciperanno alla stessa sorte del
Cristo Risorto[8]. Ma cosa ne hanno pensato
i contemporanei di Pannenberg di questa conclusione? Grazie allo studio analitico
e schematico di Gerald O’Collins[9]
possiamo tentare un piccolo confronto con alcuni teologi da lui analizzati,
come Barth, Bultmann, Marxen e Moltmann, per renderci conto dell’atmosfera
culturale che ha accompagnato questi dibattiti teologici.
Tra
coloro che si sono opposti al ritenere la risurrezione di Cristo un evento
storico, troviamo Karl Barth, il quale, dalle pagine del suo commento alla Lettera ai Romani dell’Apostolo Paolo, ha
sostenuto che «la resurrezione di Gesù dai morti non è un avvenimento datato di
estensione storica accanto agli altri
avvenimenti della sua vita e della sua morte, ma è la relazione “non-istorica”
(4:17b) della sua intera vita storica
con la sua origine in Dio»[10]. In
un’altra opera, intitolata La
resurrezione dei morti, Barth ha aggiunto, a quanto sopra già affermato,
che «tempo e spazio rappresentano una questione assolutamente indifferente. Di
ciò che questi occhi videro, poteva ugualmente essere affermato che non era,
non è, non sarà mai in nessun luogo, o che era, è, sarà sempre e in ogni luogo
possibile»[11]. Egli infatti riteneva
che se si fosse voluto pensare la risurrezione di Gesù come un avvenimento
storico lo si sarebbe potuto fare solo in quanto esso era avvenuto nell’anno 30
a Gerusalemme, dove fu scoperto e riconosciuto[12].
Nel
corso degli anni il pensiero del teologo di Basilea è mutato profondamente,
tanto che, nel momento della stesura della Dogmatica
ecclesiale, Barth rilesse la risurrezione di Cristo senza trascurarne il
punto di vista storico. Non per questo, però, possiamo giungere alla facile
conclusione che vi sia stata una convergenza con gli interessi di ricerca di
Pannenberg, dato che rimangono aperte ancora delle divergenze. Una di queste,
per esempio, riguarda il comprendere in che modo una prova possa dirsi storica.
Secondo Barth, per essere tale, essa deve essere addotta da testimoni che sono
estranei all’accaduto e quindi imparziali. Facendo poi riferimento al testo di
1Cor 15, preso come punto di
riferimento anche da Pannenberg, Barth ha ribadito ciò che aveva già espresso
in tempi passati, ne La resurrezione dei
morti, quando aveva affermato che l’elenco paolino dei testimoni della
resurrezione di Cristo non poteva essere addotto come una prova storica di
quest’ultima, in quanto lo scopo di quel testo non era quello di essere una
dimostrazione storica della resurrezione di Gesù[13].
O’
Collins denota allora la presenza di una tensione all’interno del pensiero del
teologo di Basilea: da un lato l’apertura all’indagine storica della
resurrezione, dall’altro lato però la negazione della possibilità da parte dei
nostri metodi di indagine di poterla affermare. Lo studioso conclude che
secondo Barth si può classificare il racconto della resurrezione di Gesù di
Nazareth nel genere della saga o legenda, ossia di quel filone di eventi
realmente accaduti ma aventi dei particolari tali da non rientrare nella
verifica del metodo storico. Non stiamo parlando o alludendo ad alcunché di
mitologico, poiché Barth ha evidenziato la realtà del loro accadimento[14]. È
interessante notare come secondo il teologo di Basilea sono da ritenersi discorsi
solamente superstiziosi quelli che proverebbero che solo ciò che è storicamente
verificabile possa essere accaduto nel tempo. Per questo motivo la risurrezione
«implica una visione precisa attraverso gli occhi, un ascolto attraverso gli
orecchi, e un contatto fisico attraverso le mani, come le storie pasquali
dicono in modo così deciso e inequivocabile e come è anche sottolineato in 1Gv 1. Implica azioni reali di mangiare e
bere, di parlare e di rispondere, di ragionare […] e di dubitare e, quindi, di
credere»[15]. Il pericolo, manifestato
da O’Collins, è che, a questo punto, Barth abbia rischiato di usare un
linguaggio, come quello riportato nella precedente citazione, che potrebbe
denotare un fraintendimento tra la resurrezione e una semplice rivivificazione
di un cadavere[16].
Mentre
in Barth si è notato un certo sviluppo del suo pensiero intorno alla storicità
della resurrezione, in Bultmann sappiamo già che questo non è accaduto. In lui,
infatti, troviamo una scissione tra i dati della storia e la scelta della fede,
a tal punto che la seconda sembra non dipendere dalla prima. La scienza storica
indaga gli avvenimenti passati, la
Historie , la quale
però non riesce a penetrare la sfera della fede. In questo modo il pensiero di
Bultmann sembra portare alla conclusione che i fatti oggettivi e storici della
resurrezione non comportino una scelta di fede.
Di
fronte al racconto della risurrezione O’Collins sottolinea come Bultmann si sia
sentito libero di rigettare la storia del sepolcro vuoto, considerandola una
legenda apologetica, la cui importanza era totalmente secondaria[17]. È
stato nella sua opera Nuovo Testamento e mitologia, che il teologo di Marburg ha concluso:
«il cristiano che ha la fede pasquale non ha interesse per la questione
storica; per lui, così come per i primi discepoli, quell’evento storicamente
accertato che consiste nell’insorgere della fede pasquale, significa
l’autodimostrazione del risorto, l’intervento di Dio per cui si compie il fatto
salvifico della croce»[18]. In
fin dei conti, egli non ha ritenuto che la risurrezione possa essere solamente
un evento della storia passata. In quanto evento escatologico per eccellenza,
essa ha dovuto riguardare tutta la nostra esistenza.
Né Barth
né Bultmann, però, con le loro teorie si sono distanziati tanto dalla posizione
di Pannenberg, quanto il teologo Willi Marxsen dinanzi alla questione di una
fede nata negli apostoli successivamente alla venuta del Cristo risorto: «In
che modo Pietro abbia sperimentato questo, noi non possiamo più stabilirlo con
sicurezza. Alcuni che vennero dopo di lui dissero che Pietro aveva sperimentato
Gesù per mezzo di una visione. Può esser vero, come può non esserlo. Io non lo
so. Ma chi pensa di saperne di più, deve render conto di dove l’ha ricavato»[19]. Per
Marxsen nessuno in fin dei conti ha potuto definirsi testimone dell’evento della
resurrezione, nessuno ha mai visto, nessuno ha mai sperimentato quello che lì è
accaduto. Hanno visto il Crocefisso risorto, non la risurrezione, dedotta,
casomai, proprio da questo come riflessione secondaria[20].
Marxsen, quindi, non ha dato assoluta importanza alla risurrezione in quanto
evento; egli stesso ci ha ricordato che il miracolo vero è la fede donataci dal
Cristo, non la sua risurrezione dalla morte. Questo insigne studioso non ha
preferito parlare della resurrezione usando questo termine, bensì quello del
venire di Gesù e della sua causa. Così egli ha scritto: «Egli [Gesù] viene ancora oggi e ci propone ciò che ho chiamato “la
causa di Gesù” […]. Ma allora io rischio di fare questo contro ogni umana
razionalità […]. Ma poi avviene che si rischia ancora, poi un’altra volta ed
un’altra ancora, in fondo contro ogni razionalità. E ad un tratto ci si accorge
di essere, durante questa vita, sulla
via che porta alla via»[21].
O’Collins,
tra i problemi che le espressioni di Marxsen hanno suscitato, annota una
concezione positivistica della storia, che diviene nel suo pensiero una mera
concatenazione di fatti percepiti a livello sensoriale, a tal punto che la
storia è letteralmente legata a ciò che si percepisce tramite i sensi[22].
Oltretutto, vi sarebbe da evidenziare come il semplice sostenere che “la causa
di Gesù continua”, come fa Marxsen, sia insufficiente, poiché se è vero che
quello che Gesù ci ha insegnato sia a parole sia con i fatti continua ad essere
ancora attuale, questo lo si potrebbe affermare anche dell’insegnamento di
Socrate o di Platone. Invece una differenza si pone: Gesù è risorto, è vivo e
non è morto come questi filosofi. È, quindi, lo stesso Gesù che viene
personalmente oggi in mezzo a noi, non tanto una causa che potremmo definire
impersonale e disincarnata[23].
Allora, sarebbe più opportuno sostenere che non è tanto “la causa di Gesù che
va avanti” quanto lo stesso Gesù.
Per
ultimo prendiamo in considerazione il pensiero di Jürgen Moltmann. Il teologo
Franco Giulio Brambilla mostra come, secondo il collega di Wolfhart Pannenberg,
sia bene analizzare la categoria della storia all’interno dell’ottica della
resurrezione[24]. Moltmann, infatti, nel
tentativo di non ridurre la concezione della storia ad un mero accadere di
fatti o ad un principio soggettivo, ha introdotto il concetto di totalità della realtà, cercando di
recuperare la categoria di “storia universale”, riscontrabile nella concezione
apocalittica pannenberghiana di attesa della fine della storia.
La
resurrezione è divenuta nella riflessione del teologo di Tübinga la chiave di lettura
della storia e, anche in lui, è ritornato con forza il problema ermeneutico del
linguaggio. L’esperienza storica è divisa tra l’esperienza (Erfahrung) e
l’attesa (Erwartung), in quanto la storia passa sempre tra il ricordo e la
speranza. A questo proposito, nelle pagine de La teologia della speranza leggiamo che «abbandonare se stessi e
tutta la realtà esistente alle onde mutevoli della storia ha un senso soltanto
in rapporto alla prospettiva di raggiungere una nuova terra […]. La
comprensione della storia, delle sue possibilità di bene e di male, della sua
direzione e del suo significato, si trova nella sfera delle speranze, e
soltanto in quell’ambito la si può acquisire»[25]. La
speranza a cui Moltmann ci ha richiamato trova le sue profonde radici nella
storia di Israele, dato che si fonda su di una fede nella promessa in ciò che
si realizzerà in futuro. Questo è un dato fortemente presente non solo
nell’ebraismo ma anche nel cristianesimo e nell’islamismo, in quelle religioni
che vengono generalmente classificate come “religioni della storia”. Sempre ne La teologia della speranza Moltmann ha
esteso tutto questo ragionamento allo studio della stessa scienza storica, in
quanto «non ci si potrà più limitare a leggere il passato arche–ologicamente prendendolo soltanto come origine di quello che
di volta in volta è il presente. Bisognerà studiare il passato in rapporto al
suo proprio futuro. Tutto ciò che è storico è pieno di possibilità, possibilità
utilizzate e non utilizzate, còlte o soffocate […]. Bisognerà dunque
comprendere le epoche passate a partire dalle loro speranze»[26].
Conclude Franco Giulio Brambilla, riprendendo le parole del professore di
Tübinga, che «la resurrezione dei morti non parla solo di un’apertura al futuro
e di una pregnanza di futuro del passato, ma anche di un futuro per il passato
e perciò abbraccia le direzioni del tempo»[27].
Ma
cosa ne pensa Moltmann della storicità della resurrezione di Cristo?
Indubbiamente il legame tra storia e resurrezione è presente nelle sue
riflessioni anche se con accenni che si diversificano fortemente da quelli di
Pannenberg, dato che egli ha sottolineato soprattutto come la resurrezione di
Cristo si possa dire storica non in quanto rientra nella storia, ma in quanto
fa storia. Questo dato è molto rilevante. Nel teologo di Tübinga la
resurrezione è stata messa in relazione ad un mondo contingente (contingentia mundi) nei confronti del
quale la resurrezione stessa si presenta come una creazione nuova[28], una
possibilità non esistente entro il mondo ed entro la sua storia e, per questo,
«una possibilità totalmente nuova per il mondo, per l’esistenza e per la storia»[29]. Un
evento che fa storia, più che un evento della storia, un evento che diventa
luce per la storia stessa e non solo. Fa storia perché ci apre tutto un futuro
escatologico entro il quale dovremmo vivere. Nelle pagine de La teologia della speranza Moltmann ha
scritto che «la realtà della risurrezione possiamo scoprirla soltanto nel fatto
di essere direttamente toccati dalla predicazione della fede che vien fatta
oggi, soltanto nel volgere lo sguardo al Signore, soltanto nell’obbedire oggi
alla sua esigenza assoluta nella quale si esprime oggi la salvezza»[30]. La
vicinanza a Bultmann è palese e si è rivelata nel momento in cui Moltmann non
ha ritenuto possibile per le scienze storiche indagare la resurrezione di Gesù:
queste scienze possono solamente indagare, secondo lui, la fede pasquale dei
discepoli di Cristo[31].
Comunque
non possiamo sottacere la presenza di una valenza soteriologia della resurrezione
di Cristo nel pensiero del teologo di Tübinga. Egli ha riletto questo evento
come l’adempimento delle speranze decadute con la morte di Gesù, del Messia. In
quel momento, infatti, subentrarono sentimenti di abbandono, di giudizio, di
maledizione, di esclusione dalla vita promessa, di dannazione. La risurrezione
ha sostenuto Moltmann,
non va intesa come un
puro e semplice ritorno alla vita, ma come vittoria sul carattere mortale di
questa morte: vittoria sull’abbandono da parte di Dio, vittoria sul giudizio,
sulla maledizione, come inizio dell’adempimento della vita promessa, e dunque
come vittoria su ciò che vi è di morto nella morte, come negazione del negativo
(Hegel), come negazione della negazione di Dio […]. La percezione dell’evento
della resurrezione di Cristo è dunque una conoscenza di quell’evento, piena di
speranza e di aspettazione[32].
Dopo
questo sguardo panoramico possiamo ritornare al nostro Pannenberg, il quale
crede fortemente che nel decidere se un evento sia storico oppure meno è bene
lasciar fare alle analisi della ricerca storica, sapendo però che di fronte
all’evento della resurrezione ci poniamo dinanzi ad una realtà appartenente
alla nuova creazione e non alla vecchia. Per utilizzare i termini adoperati
anche dal nostro Teologo dobbiamo parlare, secondo lui, della resurrezione come
di un “nuovo eone” da indagarsi secondo le tecniche usate per il “vecchio
eone”. In fin dei conti, «non esiste alcuna ragione valida per sostenere che la
resurrezione di Gesù è un evento veramente accaduto, se non la si può difendere
come tale dal punto di vista storico. Del verificarsi o no di un certo evento
duemila anni fa, di questo non ci fornisce certezza la fede, ma solo la ricerca
storica, nella misura in cui in simili questioni si può ottenere la certezza»[33].
Il
ragionamento di Pannenberg è molto chiaro: un fatto si può dire storico solo se
passa il vaglio della ricerca storica e non se viene sottoposto alla sola fede!
Già nel 1959 il nostro Autore aveva sottoscritto questo suo pensiero: il
rapporto tra la fede e la storia è assai stretto, per cui è logicamente
corretto che chi crede non può non voler cercare il fondamento storico su cui
poggia la sua fede. Sarebbe, in fin dei conti, del tutto controproducente
rifugiarsi in una zona sicura da ogni
assalto da parte della ricerca storico–critica[34]. La
scelta della fede, che l’uomo compie nella integrità della sua persona, non può
essere fatta con troppa semplicità e superficialità, poiché in essa ci si gioca
tutta la vita. L’istanza veritativa su Gesù e sulla sua pretesa pre–pasquale
noi la troviamo proprio nella sua resurrezione dai morti. Nel manifesto
programmatico del Pannenberg Kreis,
il professore Ulrich Wilckens cercò di mostrare quanto andiamo affermando in un
suo prolisso articolo, al termine del quale sostenne che «la rivelazione […]
c’è soltanto nell’avvenimento della
resurrezione dai morti di Gesù di Nazareth, crocifisso, con il quale avvenimento Dio ha fatto iniziare il suo
nuovo eone»[35]. Il Gesù terreno viene
così ad essere legittimato dall’avvenimento della sua risurrezione e tutta la
chiesa primitiva vide nella sorte di Gesù l’autorivelazione di Dio stesso.
[2] Cfr. C. Duquoc,
“Risurrezione di Cristo”, in P. Coda (a
cura di), Dizionario critico di teologia,
Borla-Città Nuova, Roma 2005, 1142.
[6] Kasper sostiene che «in genere la teologia cattolica
del presente cerca di risolvere il problema impiegando la categoria del “segno”.
Di per se stessi gli eventi storici o sono insignificanti o rimangono ambigui;
diventano significativi e chiari soltanto se inseriti in un più ampio nesso di
significato. Viceversa, anche le interpretazioni rimangono vuote quando non
interpretano ciò che è realmente accaduto e non trovano in esso la loro
conferma. Non si dovrebbe parlare di prove storiche, bensì di segni» (ivi, 186).
[7] Cfr. N. Ciola,
Gesù Cristo Figlio di Dio. I. Vicenda
storica e sviluppi della tradizione ecclesiale Borla, Roma 2012, 102.
[9] G. O’Collins, Gesù Risorto. Un’indagine biblica, storica e
teologica sulla risurrezione di Cristo, Queriniana, Brescia 20002.
[11] Id., La resurrezione dei morti. Lezioni
universitarie su I Cor 15, Marietti, Casale Monferrato 1984, 91.
[13] «Davanti a questi versetti, tanto l’interesse del
lettore quanto quello dell’interprete solitamente si concentra su di un punto
che come tale, per quanto possa essere effettivamente in sé interessante, non
costituisce certamente l’oggetto dell’interesse di Paolo […]. Si deve invece
mettere in chiaro fin dall’inizio che tanto per Paolo, quanto per la tradizione
[…] non si tratta affatto di fornire, come si usa dire, un “resoconto della
risurrezione”, cioè una relazione sul fatto storico “resurrezione di Gesù” o
addirittura (Lietzmann) una “prova storica della risurrezione”» (Id., La
resurrezione dei morti, 88).
[14] Cfr. G. O’Collins, Gesù Risorto, 45–47.
[15] K. Barth, Dogmatics Church, IV/2, London 1983, 143,
riportato in G. O’Collins, Gesù Risorto, 48.
[16] È interessante quanto sosteneva Ratzinger circa
l’attenzione al linguaggio. Il noto professore sottolineava la differenza tra
una vita come bíos e una come zoe. La vita
del Risorto non è del primo tipo, dato che non è più un’esistenza
intra–storica soggetta alla morte, ma è una vita nuova, diversa e definitiva.
Per questo motivo con il Risorto non si ripete l’episodio di Lazzaro,
vivificato per poi ri–morire ancora. Ratzinger ci tiene ad evidenziare che gli
incontri col Risorto sono definiti “apparizioni”, per differenziarli da quelli
pre–pasquali e sono difficili da descrivere e raccontare. Quando gli
evangelisti provano a parlarne sembra che balbettino e che si contraddicano tra
loro (cfr. J. Ratzinger, Introduzione al cristianesimo. Lezioni sul
Simbolo apostolico, Queriniana, Brescia 200312, 297–298).
[18] R. Bultmann, Nuovo Testamento e mitologia: il manifesto
della demitizzazione, Queriniana, Brescia 1973, 170–171.
[23] Cfr. Ivi,
76.
[24] Cfr. F. G. Brambilla,
Il Crocifisso risorto. Risurrezione di
Gesù e fede dei discepoli, Queriniana, Brescia 19992, 225.
[25] J. Moltmann,
Teologia della speranza. Ricerche sui fondamenti e sulle implicazioni di una
escatologia cristiana, Queriniana, Brescia 20027, 270.
[28] «Soltanto se è possibile comprendere il mondo come una
creazione contingente determinata dalla libertà di Dio ed avvenuta ex nihilo, soltanto sulla base di questa
contingentia mundi, diventa possibile
intendere la resurrezione di Cristo come nova
creatio» (J. Moltmann, Teologia della speranza, 274).
[31] Cfr. Ivi,
191.
[35] U. Wilckens,
“L’intelligenza della rivelazione nella storia del cristianesimo primitivo”, in
Aa. Vv., Rivelazione come storia, Dehoniane, Bologna 1969, 156.
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