venerdì 28 novembre 2014

La gnoseologia e l'enciclopedia del sapere nel Medioevo

Una delle questioni centrali della gnoseologia medievale riguarda la problematica degli universali, incentrata sulla determinazione del fondamento e del valore di concetti e termini universali, come ‘animale’ o ‘uomo’, che si possono applicare ad una molteplicità di individui. Trattare degli universali significa interessarsi del rapporto tra le voces e le res, tra il pensiero e l’essere, tra le idee e le categorie mentali e le realtà extramentali. In sintesi possiamo affermare che la domanda di fondo che si pongono i filosofi medievali è questa: gli universalia sono ante rem, in re o post rem? A questo interrogativo possiamo associare le tre soluzioni che vengono maggiormente apportate:

a)      il realismo di Guglielmo di Champeaux, per il quale gli universalia sono delle res, ossia delle realtà metafisiche sussistenti. Secondo questo filosofo vi è una perfetta corrispondenza tra i concetti universali e la realtà, tra il pensiero e la realtà. A questa tesi si contrappone Abelardo, il quale considera nella tesi del maestro Guglielmo la presenza dell’aporia di ammettere nello stesso soggetto più predicati tra loro contraddittori. Rileggendo Aristotele Abelardo sostiene che la posizione realista da un lato svaluta l’individuo, rendendo accidentale la distinzione dei soggetti, e dall’altro non tiene conto del fatto che l’universale debba essere ciò che viene predicato di più enti. Se esso coincide con una res non può, infatti, essere predicato di un altro ente;
b)      il nominalismo di Roscellino, per il quale gli universalia non possiedono nessun valore, dato che non possono riferirsi alla res, poiché le cose che esistono sono individue e non esiste nulla oltre l’individualità. In questo modo viene ad annullarsi ogni forma di conoscenza generale, i quanto gli universalia sarebbero solo flatus vocis che non rimanda a nessuna realtà concreta;
c)      il realismo moderato di Abelardo, per il quale gli universalia sono i sermones, i quali possono essere predicati di molti. Gli universalia, quindi, possono essere intesi come dei discorsi mentali, frutto di un processo di astrazione che genera l’intellezione delle cose. Nella realtà, infatti, tutto è individuale, ma la mente umana ha la capacità di distinguere e separare i diversi elementi che appaiono all’osservazione uniti. In questo modo si riesce a cogliere durante il processo conoscitivo gli aspetti peculiari appartenenti ai molteplici individui di una stessa specie. L’intelletto coglie una similitudo o status communis che non è una ripresentazione dell’essenza degli antichi ma un modo di essere in cui si ritrovano gli individui della stessa specie. Facciamo un esempio. Per i realisti moderati non esiste l’essenza di uomo, ma l’essere uomo come condizione reale e concreta in cui gli uomini-individui convengono.

Uno dei frutti della controversia sugli universalia fu la disputa sull’Eucarestia tra Berengario di Tours e Lanfranco di Pavia tra l’XI e il XII secolo. A partire dal realismo delle essenze Berengario, infatti, interpreta in maniera simbolico-spirituale l’Eucarestia, negando il suo essere sostanzialmente il corpo e il sangue di Cristo. Lanfranco cerca di fronteggiare questa eresia con l’uso della dialettica, rimproverando a Berengario di aver anteposto la ratio alla fides. Il dato rivelato deve essere sempre la fonte da cui deve partire l’indagine. In questo modo si evince che, mentre normalmente le leggi del mondo sensibile ci adducono a constatare che l’alterazione della sostanza comporti un variare dei suoi accidenti, nel caso dell’Eucarestia per la grazia sacramentale mutano miracolosamente le sostanze del pane e del vino mentre gli accidenti permangono dopo la trasformazione sostanziale.
Il dibattito tra Berengario e Lanfrando ci permettono di sostenere che nel Medioevo la cultura possiede un’impronta profondamente cristiana ed orientata soprattutto alla comprensione della dottrina rivelata. In questo modo la ragione diviene funzionale alla fede così come la filosofia alla teologia per l’esegesi della Scrittura e per la costruzione dottrinale sistematica del dato rivelato. Proprio per questo rapporto tra fides e ratio le università medievali erano distinte in Facoltà delle arti liberali e Facoltà di teologia. Lo studio delle arti liberali durava circa sei anni ed era considerato propedeutico all’ingresso nella facoltà di teologia, la cui frequenza durava altri otto anni. Le arti liberali erano divise in trivio e quadrivio ed erano la base della istruzione. Esse riguardavano lo studio della grammatica, della logica, della retorica, dell’aritmetica, della geometria, della musica e dell’astronomia. Sembra che la prima sistematizzazione di queste disciplinae nelll’area latina sia da attribuire a Varrone, il cui testo Disciplinarum libri è andato però perduto. È quindi Agostino a darci la testimonianza della formazione di questi sette distinti ambiti di studio, definiti liberales, poiché riservati maggiormente ai soli uomini liberi da necessità materiali. Sarà successivamente Boezio a dare il nome di ‘quadrivio’ al percorso matematico delle arti liberali, mentre solo in un secondo momento ed in epoca più tarda si fisserà con ‘trivio’ il percorso linguistico. Lo studio delle singole discipline liberali era organizzato a partire dall’analisi dell’insegnamento di quelli che ne furono i primi indagatori (Euclide per la geometria, Aristotele per la logica, Cicerone per la retorica, Donato e Prisciano per la grammatica…).

Il sistema scolastico usato all’interno delle università testimoniava la grande vivacità dialogica di cui si caratterizzava lo studio medievale. Gli studenti, infatti, avevano a disposizione delle Summae composte dai loro maestri come delle esposizioni sistematiche e sintetiche di tutto quanto riguardava la conoscenza che doveva essere saputa. Essi frequentavano poi la lectio e la disputatio, che permettevano un vero e proprio scambio di idee tra i stessi studenti e i loro maestri. Il seminario (disputatio) era il momento il cui gli scolari potevano discutere intorno ad una tematica che veniva proposta a partire da una questio. La Scolastica ha permesso di identificare le arti liberali con il sapere filosofico e, quindi, con il ragionamento scientifico e ha portato ad una armonizzazione delle varie autorità della tradizione filosofica. Ma non solo. Grazie alla Scolastica si è tentata una conciliazione tra la filosofia classica, soprattutto Aristotele e neoplatonismo, e la teologia cristiana. Con la Scolastica si è cercato, inoltre, di indagare la rivelazione con l’ausilio della ragione, facendo della teologia una vera e propria scienza della rivelazione, in grado anche di difendere razionalmente i dogmi che costituiscono il suo credo.

giovedì 27 novembre 2014

La vera philosophia: fede e ragione, teologia e filosofia nel medioevo

Il tratto di storia che interessa alla filosofia medievale copre un arco di oltre mille anni tra Boezio e il Rinascimento. Il passaggio dalla filosofia greca a quella medievale non è stato affatto semplice, in quanto la cultura cristiana ha nutrito verso quella ellenica un sentimento contrastante di amore e di odio. Alla radice del cristianesimo, infatti, vi è la matrice giudaica, la quale avversava in molti aspetti la cultura greca. Basti pensare alle novità che apportava il testo sacro della Bibbia all’interno della cultura umana: la credenza in un unico Dio e in una vita oltre la morte, nonché la promozione di un regno celeste che era destinato ad arrivare in maniera più o meno imminente.
Gli studiosi cristiani hanno, quindi, riletto la filosofia ellenica secondo una chiave di lettura prettamente cristiana. Legato a ciò vi è il fiorire della Scolastica all’interno delle università di Parigi, di Bologna e in molte altre ancora. La lingua usata era generalmente il latino e gli studenti provenivano per lo più dall’ambito clericale. All’interno della Scolastica nella filosofia si fa strada la questione del rapporto tra fede e ragione, ossia la relazione tra la filosofia stessa con la teologia. Anche se Marie Dominique Chenu annovera tra i filosofi più importanti di questo periodo Anselmo, Bonaventura e Tommaso, sicuramente non dovremmo dimenticare Boezio, il quale, anche se vissuto precedentemente, può essere considerato per le sue idee e il suo metodo di ricerca, un vero scolastico. Tutti questi autori hanno saputo portare la fede e la ragione ad una vera conciliazione, considerando la teologia una vera e propria scienza a partire dalla sua considerazione con la Parola di Dio.
Giulio D’Onofrio, nella sua Storia del pensiero medievale, definisce la vera philosophia come la sintesi tra fede e ragione, a partire dalla rilettura allegorica, compiuta dal carolingio Giovanni Scoto Eriugena nella Omelia sul Prologo del quarto vangelo, di Gv 20, 1-10. In questo passo evangelico si racconta di come gli apostoli Pietro e Giovanni corrano verso il luogo dove era stato sepolto Gesù dopo il racconto delle donne, che annunciavano la risurrezione del loro Rabbi. In questa corsa l’Eriugena rivede il combinarsi insieme della fede, simboleggiata da Pietro, con la ragione, Giovanni[1]. Secondo Scoto Eriugena non vi può essere mai contraddizione tra la verità perseguita dalla religione e la verità ricercata dalla filosofia, dato che la vera filosofia è la vera religione e viceversa. La verità, infatti, non può essere considerata contraddittoria, in quanto proviene dalla rivelazione di Dio, da cui, nell’ottica anselmiana del Monologion, proviene l’intelligenza e la fede al tempo stesso. La verità, proprio per questo motivo, non può mai essere contraria alla fede, anzi, come sostiene Pietro Abelardo nella sua Dialectica, è la stessa conoscenza, che, quando è vera, ci conduce vicino alla fede.
Questo è quanto rilegge Scoto Eriugena nell’icona giovannea: Giovanni, ossia colui che durante l’ultima cena ha posto il suo capo sul petto di Cristo, simbolo della capacità umana di accostarsi alla verità tramite la sola indagine naturale, porta Pietro, simbolo della fede vacillante dinanzi al mistero ma anche della garanzia della verità, alla contemplazione del sepolcro vuoto. Quindi, sostiene D’Onofrio, «la fede e la religione corrono insieme verso la pagina sacra, nell’intento di penetrare all’interno del suo significato letterale e accostarsi all’unione di divino e umano in Cristo»[2]. Il credere e il comprendere si intrecciano vicendevolmente, tanto che Anselmo tratta di una intelligenza della fede (intellectus fidei) che riprende il circolo ermeneutico agostiniano del credo ut intelligam, intelligo ut credam, sostenuto dall’Ipponate nel 410 in una Epistola a Consenzio. Agostino evidenzia, nell’anno del saccheggio di Roma da parte dei Visigoti, come «la ragione naturale deve essere attivata dal credente sia prima dell’atto di fede, per giustificarlo, sia successivamente, per consolidarne i contenuti»[3]. In questo modo la relazione tra fides e ratio diviene una habitudo, una relazione naturale tramite la quale è possibile attingere all’unica verità. Nella complementarità di fede e ragione, fin dagli inizi della speculazione cristiana, è vista la condizione essenziale per la sopravvivenza della stessa filosofia, che non viene così ridotta ad un mero supporto metodologico per l’orientamento pratico della vita.
Si viene formando in questo modo una christiana doctrina, che grazie all’apporto dei Padri della Chiesa, è in grado di far fronte sia ai dubbi dei credenti che alle insidie poste dagli eretici. La dottrina cristiana è rinforzata, infatti, sia dalla stabilità razionale che dall’origine rivelata delle sue tesi. Il Logos, termine filosofico, penetra all’interno della tradizione cristiana ed i primi predicatori del Vangelo possono, grazie alla terminologia filosofica, intessere dialoghi con le scuole pagane del tempo. Viene riconosciuta allora l’esistenza di due biblioteche, quella facente capo alla letteratura umana e quella propria della letteratura divina, che devono camminare insieme fino al raggiungimento di una sana doctrina, che sia una ed indiscutibile. Boezio, nel saggio scaturito durante la sua carcerazione prima della morte, De Consolatio Philosophiae, afferma che solo il bene supremo a cui porta la filosofia può dare la vera felicità. Egli stesso ci dice che la filosofia è ‘amore della sapienza’. L’amore della sapienza è l’amore di Dio e «la philosophia christiana può effettivamente aspirare a proporsi come una doctrina compiutamente sistematica, comprensiva, dall’inizio alla fine dei tempi, della verità intera del reale scaturita dall’atto creatore di Dio»[4].



[1] Cfr. Giulio D’Onofrio, Storia del pensiero medievale, Città Nuova, Roma 2011, 7-8.
[2] Ivi, 8.
[3] Ibidem.
[4] Ivi, 16.

mercoledì 26 novembre 2014

L'uomo come persona. Nota a margine della visita di papa Francesco al Parlamento europeo di Strasburgo

La visita tanto attesa di papa Francesco al Parlamento europeo, compiuta nella mattinata di martedì 25 novembre, è stata una occasione propizia per sottolineare come l’essere umano, prima di essere un cittadino o un soggetto economico, sia una persona dotata di una dignità trascendente[1].
Con l’uomo come persona si intende l’essere umano nella sua interezza, concretezza ed unità psicofisica di soggetto metafisico, ossia di sostanza, capace di pensiero e di libertà, di entrare in relazione con Dio, con gli altri uomini e con tutti gli altri enti che compongono l’universo. L’uomo in quanto persona è unico ed irriducibile e soggetto di inalienabili diritti e doveri nei confronti della società e dello stato[2]. Secondo alcuni pensatori l’irriducibilità dell’uomo dovrebbe essere dovuta alla presenza in esso dell’anima spirituale, ma questo non può essere considerato del tutto esatto. Con Tommaso, infatti, dobbiamo correggere Platone e sostenere che l’anima non è l’uomo e soprattutto non è ciò che costituisce la persona umana, la quale invece è un composto di anima e corpo, dove l’anima è solo una parte che determina lo specifico dell’uomo. Oltretutto la spiritualità dell’anima umana ha bisogno essa stessa di un fondamento e, per questo motivo, non può essere essa il fondamento ultimo dell’essere-persona. L’anima dell’essere umano, infatti, riceve l’atto d’essere da Dio non perché essa possa esistere come una ipostasi spirituale separata dalla materia, ma perché essa sia forma corporis, ossia parte di una ipostasi psico-fisica, materiale e spirituale insieme, come è da considerare la persona umana. In questo modo vogliamo chiarire che è la persona a pensare e ad agire, non la sua anima razionale. In questo modo possiamo trovare tra la persona umana e la persona divina una analogia, che nasconde però anche una grande differenza. La persona divina, differentemente da quella umana, possiede una ‘perseità’ che è un ‘essere da se stesso’, ossia la persona divina è per se ma anche a se. Questo non è presente nella persona umana, la quale ha una ‘perseità’ partecipata, dove il per se non è accompagnato anche da un a se. La persona umana è, infatti, persona creata. La persona umana, quindi, non esiste solamente ‘in se stessa’, ma anche ‘per se stessa’ e questo è il modo d’esistenza più degno di tutti gli altri tra le creature di Dio ed è il vero fondamento della irriducibilità, della dignità e del valore assoluto della persona umana[3].
Un altro fondamento metafisico dell’uomo in quanto persona è dato dalla incommunicabilitas[4] tomista, che nella lingua italiana può essere facilmente fraintesa con incomunicabilità. L’incommunicabilitas, invece, non si oppone alla dialogicità o alla comunicazione di amore tra gli esseri umani. Si può comunicare o donare solo ciò che si possiede e ogni persona umana ha in sé una ricchezza inesauribile da trasmettere agli altri e per questo possiamo dire che essa sia incomunicabile ed irriducibile. Questa ricchezza, infatti, non dipende dalle relazioni che la persona è in grado di stringere con ciò che è al di fuori di sé, poiché esse sono sempre finite. Per questo motivo secondo il Doctor humanitatis l’essere umano in quanto persona non può essere considerato una mera parte delle cose con cui entra in relazione (riduzionismo naturalista), ma una totalità completa in sé e capace di trascendere il cosmo, a tal punto che, se anche la persona fosse privata di tutto, essa resterebbe comunque una persona completa; non può essere considerato nemmeno subordinato alla comunità o essere considerato al pari dell’universale che entra in relazione col particolare, poiché la persona umana è qualcosa si sussistente e che non può mai appartenere a nessun tipo di collettività, a nessuna classe, partito, chiesa o nazione (riduzionismo sociologista); non può essere considerato nemmeno un oggetto che possa appartenere ad un altro perdendo così la propria personalità (riduzionismo psicologista), mentre si può ritenere che esso possa far suo tutto ciò che ritiene che possa arricchirlo. In questo modo l’Aquinate raccomandava che una persona non deve mai correre il rischio di disperdere se stessa nelle sue relazioni, cadendo nel plagio, nella sudditanza psicologica ed in ogni altra forma di coartazione psicologica. L’incommunicabilitas nella persona è indice della traccia del mistero che la persona stessa porta in sé.
Da quanto stiamo affermando si evince che il trattare dell’uomo come persona è una cosa di fondamentale importanza, ma che può celare anche degli equivoci assai pericolosi, come quello inerente alla confusione che si ebbe a partire dall’epoca moderna tra la nozione metafisica di persona e la nozione psicologica di personalità[5]. Con quest’ultima, infatti, si intende l’insieme delle qualità relazionali della persona che la manifestano e la caratterizzano come individuo all’interno della comunità umana senza però costituirla tale. In altre parole la personalità caratterizza e manifesta l’essere della persona senza costituirlo tale. E questo perché la relazione non costituisce la persona anche se la caratterizza come ente unico rispetto agli altri del mondo fisico. Le relazioni suppongono l’essere del soggetto personale ma non ne sono, al tempo stesso, il suo fondamento. La persona umana, infatti, è l’unica ad essere in grado di entrare in relazione con se stessa a partire dalla sua coscienza e dalla sua autocoscienza. La persona umana ha la caratteristica di essere un groviglio di relazioni, con se stessa, con le altre persone, con l’ambiente circostante, a partire dalle quali riesce a sviluppare il proprio io e a scoprire se stessa. Questo però non vuole affatto dire che le relazioni costituiscano l’io della persona umana. A partire dalla qualità delle relazioni che si intessono è possibile migliorare o peggiorare la personalità del soggetto umano, ma non costituire il suo essere persona. Quando questo non viene ritenuto vero si rischia di cadere nelle concezioni pagane, dove con il termine ‘persona’ si legava l’individuo al ruolo che possedeva nella società o alle relazioni che riusciva ad intessere con gli altri.
La confusione tra persona e personalità è stata la causa, nell’epoca contemporanea, della legalizzazione dell’aborto. La legge non riconosce all’embrione la dignità di persona a partire da quei riduzionismi psicologici e sociologici di cui parlavamo sopra. L’embrione non viene riconosciuto in grado di essere soggetto di quelle relazioni interpersonali che gli permetterebbero di essere considerato una persona giuridica soggetto di diritti. In questo modo si va confondendo la nozione metafisica di persona con quella psicologica di personalità, cosa che può portare a macchia d’olio alla giustificazione dell’eutanasia come anche della soppressione del malato non più in grado di intendere e di volere[6].





[1] Cfr. Francesco, Discorso al Parlamento europeo, 25.11.2014.
[2] Cfr. Gianfranco Basti, Filosofia dell’uomo, ESD, Bologna 20083, 334.
[3] Per papa Francesco la dignità è una delle parole-chiavi che tanto è circolata durante gli anni del secondo dopo guerra, nei quali si sono, infatti, imposte la promozione e la salvaguardia dei diritti umani. Per il Pontefice il difendere la dignità della persona comporta necessariamente il riconoscere che essa possiede dei diritti inalienabili che non possono dipendere dall’arbitrio delle persone né possono essere negoziati in alcun modo. Questi diritti però evidenziano anche dei doveri appartenenti alla persona umana in quanto tale, ossia in quanto essere sociale. I diritti del singolo devono allora considerare anche i diritti della collettività, il cosiddetto bene comune, per non divenire la fonte di violenze e contese (cfr. Francesco, cit.).
[4] Cfr. Gianfranco Basti, cit., 339-342.
[5] Cfr. Ivi, 343-345.
[6] Cfr. Ivi, 345-346. L’essere umano, in quanto persona, non può divenire un oggetto di smercio e di scambio e non può nemmeno essere posto in balìa di una tecnica sempre più assolutizzata, che non fa altro che confondere i mezzi con i fini. Si deve così giungere a praticare una ecologia umana, che sappia portare dinanzi il rispetto della persona (cfr. Francesco, Discorso al Parlamento europeo, cit.). Nell’Udienza generale del 5 giugno 2013 il Papa aveva già avuto modo di riprendere la questione dell’ecologia umana, tanto cara anche ai suoi predecessori (Paolo VI, Giovanni Paolo II), affermando: «I Papi hanno parlato di ecologia umana, strettamente legata all’ecologia ambientale. Noi stiamo vivendo un momento di crisi; lo vediamo nell’ambiente, ma soprattutto lo vediamo nell’uomo. La persona umana è in pericolo: questo è certo, la persona umana oggi è in pericolo, ecco l’urgenza dell’ecologia umana! E il pericolo è grave perché la causa del problema non è superficiale, ma profonda: non è solo una questione di economia, ma di etica e di antropologia» (Id., Udienza generale, 5.6.2014). Per un approfondimento riguardante la questione ecologica al'interno del magistero della Chiesa rimando a José-Romàn FLECHA, Il rispetto del creato, Jaca Book, Milano 2000, 137-160, nel quale si evidenzia come essa sia divenuta anche una vera e propria questione morale. Con la Sollicitudo rei socialis, infatti, il problema ecologico è divenuto un problema ecoetico.

martedì 25 novembre 2014

L'atto libero


L’atto libero è la più alta e complessa operazione immanente o vitale dell’essere umano. Tutte le facoltà dell’uomo concorrono ad esso, da quelle sensibili, come le percezioni e gli istinti, a quelle razionali, come l’intelletto e la volontà, a quelle motorie. Il fine dell’atto libero è sempre un comportamento particolare, causato dalla scelta consapevole dell’uomo stesso. Da tutto ciò si ricava che nell’atto libero è presente la massima manifestazione della dignità della persona umana.

Nell’atto libero, infatti, l’uomo può veramente essere la causa consapevole delle sue azioni, senza il venire predeterminato a priori ad agire in un modo invece che in un altro da nessun tipo di legge. Come afferma Tommaso, un atto si può dire libero nel momento che le cause seconde, che sono per sé necessarie alla produzione di un certo effetto, siano in sé contingenti, ossia possono essere impedite da se stesse o dal concorso causale di altre cause nel produrre questo stesso effetto. Sintetizza Gianfranco Basti che, per esserci un atto libero l’effetto rispetto alla causa non deve derivare univocamente dall’esistenza di quella stessa causa. L’uomo è, quindi, una causa contingente libera, dato che può determinare se stesso ad agire senza lasciarsi condizionare solamente da cause che gli sono esterne. Nonostante questo nel corso della storia vi sono state delle teorie antropologiche che hanno negato la libertà umana, come il fatalismo, il naturalismo e lo storicismo, le quali sono accomunate dalla presenza di un principio assoluto immanente (destino, natura e storia rispettivamente) e dalla negazione di un’anima spirituale individuale causata da un principio assoluto che trascende il mondo[1].

La libertà, inoltre, può essere definita in un duplice modo, uno negativo e uno positivo. La definizione negativa di libertà è quella di assenza di costrizione (libertà da) sia fisica, che psicologica, morale, politica e culturale; quella positiva, invece, vede la libertà come quella facoltà che l’uomo usa per determinare se stesso all’azione per raggiungere gli scopi che si è prefissato, dopo aver preso coscienza delle implicazioni morali e delle conseguenze pratiche che tale azione potrebbe apportare alla sua vita (libertà per).

Il soggetto dell’atto libero è, quindi, tutto l’uomo come unità psico-fisica di persona. Usando la terminologia scolastica possiamo dire che rispetto all’atto libero la persona è da intendersi come la sua causa efficiente principale mentre le facoltà spirituali dell’uomo sono le cause efficienti strumentali che permettono al soggetto di esercitare la sua libertà.

L’atto libero è, dunque, atto della persona umana e come tale si compone di tre momenti ben precisi che sono la deliberazione, il giudizio e la scelta. Sono questi, in ordine temporale, a strutturare lo svolgimento di un atto libero. In ognuno di questi momenti una facoltà, la cogitativa o l’intelletto o la volontà, è protagonista ma non in maniera assoluta bensì sempre in concorso con le altre. Questo perché l’atto libero è veramente l’azione umana più complessa e perfetta tra le operazioni vitali. Ma procediamo con ordine esaminando ognuno di questi tre momenti che strutturano l’atto libero.

 La deliberazione costituisce l’atto attraverso cui l’essere umano riesce a dare una valutazione affettiva dell’oggetto conosciuto, per la produzione di un giudizio concreto rispetto all’azione da compiere e per la scelta consapevole e responsabile di optare o meno per quella precisa azione. In questo modo la deliberazione fa sì che l’atto sia libero dall’istintività della reazione della persona alle sollecitazioni provenienti dall’ambiente circostante e sia libero per  produrre una risposta tale che contraddistingua l’essere umano come un soggetto consapevole e responsabile moralmente e socialmente della sua azione. Per questo motivo è possibile sostenere che la deliberazione sia il momento che rende umano e morale l’atto libero compiuto dall’uomo. Come abbiamo prima accennato la deliberazione è composta di una valutazione affettiva, che mostra come sia proprio la facoltà cogitativa ad essere predominante in essa. La valutazione affettiva infatti consiste nell’essere un giudizio di valore di un oggetto in vista di un determinato scopo e tale valutazione può essere istintiva o razionale. In quest’ultimo caso gli scopi possono divenire i valori che l’azione vuole perseguire, oppure i mali che essa vuole evitare o i mezzi in vista del raggiungimento di un altro bene. Nell’altro caso, quello istintivo, è la valutazione spontanea che ogni uomo, per la sua componente animale, dà dell’oggetto percepito.

Il secondo momento è dato dal giudizio, che avviene in prevalenza a livello della facoltà dell’intelletto, pur rimanendo strettissimo il legame con le altre due facoltà, specialmente quella volitiva. Dalla volontà infatti dipende la riflessione razionale che l’intelletto è chiamato a compiere sull’oggetto e che è generalmente definita con ‘consiglio’. Oltretutto nel giudizio il legame tra intelletto e volontà conduce alla effettività della scelta di quell’atto rispetto ad un altro. Se l’intelletto ci dice quale sia il bene, è la volontà che ci procura la forza per sceglierlo. È bene inoltre ricordare che con giudizio si intende il giudizio concreto, quello cioè che termina con la scelta di una singola azione concreta che viene compiuta in una circostanza particolare. Non stiamo allora nella sfera dell’universale ma del particolare e per questo motivo le nostre azioni saranno sempre irripetibili, dato che le circostanze variano da persona a persona e, al tempo stesso, anche la medesima persona si trova  ad affrontare situazioni diverse.

Ultimo momento dell’atto libero è dato dalla scelta, che è atto della volontà, della facoltà appetitiva del desiderio. La electio infatti si compie generalmente nel desiderare da parte dell’anima un bene specifico che è stato già prescelto dalla facoltà intellettiva. Nella scelta di attuare una certa azione da parte dell’uomo, entra in gioco la volontà, la quale riesce a controllare le facoltà senso-motorie, che sono chiamate ad operare per questa attuazione. In questo modo si manifesta il carattere intenzionale della volontà che è sempre un desiderare un qualcosa e non un generico appetire. Inoltre questo ‘qualcosa’, che altro non è se non il fine dell’azione, non permetterà mai alla volontà di essere moralmente neutra. Il fine farà di essa un’azione buona o cattiva e al tempo stesso sarà la causa della forza che la volontà umana avrà di sceglierlo dopo averlo conosciuto e giudicato[2].



[1] Cfr.Gianfranco Basti, Filosofia dell’uomo, ESD, Bologna 20083, 258-265.
[2] Cfr. Ivi, 268-281.

lunedì 24 novembre 2014

La coscienza


La questione concernente la coscienza morale è divenuta in epoca moderna di fondamentale importanza, soprattutto in relazione alla centralità che è andato pian piano assumendo il soggetto dopo la filosofia cartesiana del cogito. Il soggetto vuole acquisire una sempre maggiore indipendenza nei riguardi dell’oggetto, così come la libertà in relazione alla verità. Per questo motivo si assiste alla formazione di alcuni sistemi etici, come il lassismo, il tuziorismo, il probabilismo, l’equiprobabilismo e il probabiliorismo, i quali evidenziano delle questioni concernenti proprio il rapporto tra la coscienza e la verità.

Per superare le aporie moderne è bene, quindi, ritornare al pensiero di Agostino, di Tommaso e di Newman. Prendendo spunto dall’Aquinate possiamo ritenere fondamentale il distinguere, in seno alla coscienza, due livelli: quello della sinderesi da quello del giudizio di coscienza. La sinderesi può essere definita in vari modi. Essa è, per Tommaso, un habitus, un criterio infallibile, che offre all’essere umano la capacità di saper discernere il bene e il vero dal male e dal falso; per Ratzinger essa deve essere sostituita dal termine platonico ‘anamnesi’, in quanto con essa si deve intendere più un criterio formale che materiale della moralità, ossia nella capacità di compiere un discernimento piuttosto che in un elenco di atti buoni o cattivi; per Agostino, essa va intesa come ‘cuore’, a partire dal quale l’essere umano deve sentirsi spronato a non fermarsi al mero discernimento ma a percepire il dovere di attuare il comportamento più giusto.

Il giudizio di coscienza, cioè il secondo livello presente nella coscienza, consiste principalmente nell’attuazione di questo discernimento ad una situazione particolare. Secondo la tradizione classica mentre la sinderesi è infallibile, il giudizio di coscienza è fallibile. Per Tommaso d’Aquino, però, questa distinzione non è del tutto esatta, poiché dovrebbe essere maggiormente legata al caso concreto, poiché il ritenere che sia sempre un errore l’andare contro coscienza non vuole dire allo stesso tempo che si compia sempre del bene nell’assecondarla. Si può incorrere, infatti, in un errore di coscienza, dovuto ad un giudizio di coscienza incerto, il quale non dovrebbe mai motivare le azioni del soggetto, oppure ad una negligenza pregressa che conduce il soggetto a cadere nell’errore. A seconda del fatto che il soggetto potrebbe disfarsi o meno dell’errore o che esso sia responsabile o meno della sua negligenza, gli errori di coscienza sono classificabili in quattro tipi: errori vincibili colpevoli e non colpevoli; errori invincibili colpevoli e non colpevoli. Secondo molti autori moderni come Kant o Fichte, i quali trovano in Abelardo il padre di questa dottrina, la coscienza non può mai trarre in errore, dato che è proprio essa ad essere la misura della moralità. Lo studioso Michael Konrad critica, però, questa tesi affermando che «la fallibilità del giudizio della coscienza non è solo possibile, ma che essa è un indice della sua pretesa di oggettività […]. La persona umana non crea la verità pratica, ma la riconosce come qualcosa di oggettivo, come qualcosa che non dipende da sé, come una voce che viene dall’alto»[1].

Per questo motivo risulta essere fondamentale favorire una concezione della coscienza che venga fondata sulla verità come fa Newman. Secondo questo autore, riprendendo la tradizione agostiniana, la coscienza non è altro che la voce di Dio che risuona nel cuore dell’uomo, apportando dignità, diritti ma anche molti doveri. In questo modo si comprende che anche la libertà di coscienza possiede un limite e questo limite è proprio il diritto, oltre l’osservanza del quale nessuno dovrebbe andare.

Un’altra interessante problematica che la coscienza pone è quella relativa alla sua relazione con una qualsivoglia autorità. Dinanzi a questa questione, nella storia della filosofia, vediamo lo snodarsi di tre differenti sentieri. Il primo è quello che si richiama a Rousseau, per il quale alla coscienza non basta il possedere la sinderesi come facoltà di discernimento del bene dal male, ma deve essere educata pur rimanendo sempre fallibile. Oltretutto ogni influenza esterna potrebbe alienare il giudizio di coscienza. Quest’ultimo punto viene ripreso anche da Nietzsche e da Freud, nonostante che questi due filosofi riducano la coscienza ad una cieca obbedienza all’autorità. Tra questi due percorsi dell’intelletto se ne apre però anche un terzo, quella inerente alla filosofia classica, secondo la quale la coscienza è una voce individuale che però deve trovare un sostegno in altre persone nella sua ricerca della verità. In questa linea interpretativa l’autorità assume su di sé la parte dell’oggettivamente buono. La qualità morale di un azione non può dipendere principalmente da quello che si compie, ma dal modo con cui si compie e dal per chi si compie. L’agire secondo coscienza rimanda allora ad una responsabilità personale sui propri atti, la quale non può essere demandata a nessun altro. Come sostiene Agostino agire con coscienza significa agire con la consapevolezza di dover rispondere a qualcuno (Dio) un domani dei propri atti e questo principio è da sempre stato molto utile nell’educazione della propria coscienza fino a Grozio, il quale ha apportato, invece, un declino del senso morale dell’uomo.

Intorno al tema della coscienza morale si delinea il nucleo ontologico della persona umana e la misura della sua grandezza in relazione alla sua autenticità. Negli atti che l’uomo compie si trova espressa la personalità dell’essere umano e la sua autenticità, contro cui si scagliano una società sempre più tecnologica e de-personalizzata, tipica di una cultura di massa (Heidegger) e una società ipocrita e in malafede, dove gli uomini sono capaci non solo di ingannare gli altri, ma anche se stessi (Sartre). Nel cammino dell’uomo verso l’autenticità non possiamo non sottolineare l’operato intellettuale di due grandi filosofi come Karol Wojtila e Thomas Moore. Secondo il filosofo polacco l’uomo si realizza ontologicamente attraverso i suoi atti mentre moralmente mediante i suoi atti buoni, poiché solo colui che cerca con sincerità il bene può essere considerato padrone dei suoi atti e non schiavo dei suoi istinti. Anche il gran cancelliere d’Inghilterra evidenziava l’importanza di formare seriamente la propria coscienza con l’aiuto della Scrittura, del Magistero, della propria riflessione personale come di quella altrui, poiché la coscienza deve essere seguita per non condannarsi da soli. Per il Moro la consapevolezza di esser posti dinanzi al giudizio divino conferisce all’uomo la forza di resistere alle pressioni della società.

Oggigiorno la coscienza, secondo Konrad, sembra dirigersi sempre più verso il suo disfacimento essendo stata resa dall’uomo sempre più fragile e compromessa col peccato. L’uomo molto spesso va consapevolmente contro la sua coscienza o accetta il rischio di peccare, per cui l’unica medicina per un sano sviluppo della persona umana può essere solo il perdono[2]. Infatti, «solo se l’uomo sperimenta il perdono, egli non si vede costretto ad autogiustificarsi, ma può trovare la forza e il coraggio di ascoltare e accettare la voce della propria coscienza che accusa il peccato e può infine tornare ad affrontare la vita con uno slancio rinnovato»[3].




[1] Michael Konrad, Dalla felicità all’amicizia. Percorso di etica filosofica, Lateran University Press, Città del Vaticano 2007, 200.
[2] Cfr. Ivi, 214.
[3] Ibidem.

venerdì 21 novembre 2014

La legge morale naturale


La questione della legge naturale o morale è molto complessa ed attraversa trasversalmente tutta la storia del pensiero dell’uomo. Fin dall’antichità classica, infatti, si sono avviate ed aperte molteplici piste investigative, che possiamo raggruppare in tre principali scuole, a seconda del diverso fondamento che hanno dato al concetto di legge naturale:

 

a)      fondazione naturale: è la via percorsa dai sofisti, che fondano la legge naturale sugli aspetti biologici della natura umana, per cui è da considerarsi morale solo ciò che vale secondo la loro natura e non ciò che è legato ad una legge positiva. Quest’ultima, infatti, viene concepita come l’espressione classista dei potenti, i quali fanno della legge una entità meramente arbitraria e, quindi, non affatto necessaria;

b)      fondazione razionale: è la via seguita da Platone, Aristotele e dallo Stoicismo e consiste nel porre al centro del concetto di legge naturale quelli che sono gli aspetti razionali della natura umana. Se Platone ed Aristotele pongono una distinzione tra ciò che è giusto naturalmente e ciò che lo è in forza di una legge, al tempo stesso però Platone  con la sua dottrina delle idee pone un criterio di giudizio degli atti particolari indipendente dal dato di fatto, mentre Aristotele evidenzia come la forma di una cosa contenga anche un telos, una finalità. A differenza dei sofisti, questi due filosofi non considerano l’essere umano solo a partire dai suoi aspetti biologici, ma da ciò che lo contraddistingue, ossia dalla sua ragione, che lo rende capace di una conoscenza universale. A partire da ciò la legge della polis non viene vista come una minaccia, ma come una via preziosa per la realizzazione dell’essere umano. Lo stoicismo, poi, elaborerà ancora di più questo concetto, sostenendo come in Cicerone, che la vera legge è legata alla retta ragione che a sua volta è conforme alla natura, è costante ed eterna, unica ed immutabile, capace di spronare a compiere il dovere o a distogliere dalla frode, una legge che può governare tutti i popoli e in ogni tempo (cfr. Lo Stato, III, xxii, 33);

c)      fondazione teologica: è la strada tracciata da Agostino, il quale riprende i principi perseguiti dalla filosofia classica, ossia le idee platoniche, il nous aristotelico e la ragione a-personale stoica, e li fa coincidere con la persona di Dio. In questo modo è Dio stesso a divenire la misura della giustizia e la guida verso le buone azioni per coloro che vogliono seguire la legge naturale (cfr. L’ordine, II, viii, 25).

 

Nella filosofia medievale ci sembra di particolare importanza la visione del concetto di legge morale o naturale che ci fornisce Tommaso d’Aquino, il quale ne parla in termini di partecipazione. La legge naturale, infatti, è una partecipazione alla legge eterna e deriva dall’inclinazione naturale della creatura verso un atto o un fine dovuto. Spiegandoci meglio, l’Aquinate non identifica la legge naturale con la legge eterna, ma dice che è una partecipazione della ragione umana alla legge eterna divina. La ragione umana non può creare da sola la legge naturale, ma può cooperare con Dio nella sua promulgazione. La legge eterna è quindi quell’istanza oggettiva che fa da misura alla legge naturale.

Secondo Michael Konrad a questo punto però Tommaso si chiede come può la ragione umana riconoscere la legge naturale. Per l’Aquinate la ragione umana riesce a farlo a partire da quelle inclinazioni naturali che scopre presenti nell’essere umano, ossia l’inclinazione a conservare il proprio essere e quindi la propria sopravvivenza, l’inclinazione a conservare la propria specie e quindi la propria famiglia, l’inclinazione a tendere ai beni della ragione e quindi a ricercare la verità. Le prime due inclinazioni non sono proprie dell’essere umano ma di qualsiasi essere vivente ed infatti perseguono un fine proprio; l’ultima, invece, è prettamente un inclinazione umana ed infatti è considerato un fine dovuto[1].

La legge naturale possiede allora due caratteristiche fondamentali, ossia quella di essere universale, in quanto può riguardare gli uomini che abitano in tutto il mondo, ed immutabile, in quanto riguarda gli uomini che vivono in ogni tempo. Questo è dovuto al fatto che gli uomini di ogni luogo e di ogni tempo posseggono la stessa e medesima natura, che li rende capaci di riconoscerla almeno nei suoi primi principi. Per quello che concerne, invece, i precetti materiali spesso capita che non si trovi tra gli esseri umani una unanime condivisione, dovuta ad un indebolimento della ragione per una corruzione dei costumi o il prevalere dei vizi. Infatti, sostiene Konrad, «la conoscenza dei precetti materiali della legge naturale non è dunque innata, ma costituisce piuttosto un compito per ogni uomo»[2].

Con il sopraggiungere dell’epoca moderna si è assistito all’entrare in crisi del concetto di naturale a causa del positivismo giuridico, secondo il quale la fondazione del diritto poteva non avere niente a che fare con la questione concernente la verità, che tanto aveva infiammato le epoche precedenti. Il filosofo Hobbes dipinge bene quanto è avvenuto quando afferma che la legge è fatta dall’autorità e non dalla verità, senza per questo volere egli stesso pronunciarsi contro il diritto naturale. In questo modo l’Illuminismo ha visto sempre più il formarsi un’idea di morale fondata sulla pura ragione, senza tener affatto conto di quelle radici cristiane che hanno lungo i secoli costituito la fondazione della morale stessa. Si è così pian piano messo in pratica il pensiero sostenuto da Grozio qualche secolo prima alla conclusione della Guerra dei Trent’anni. Secondo questo filosofo, infatti, si sarebbe dovuto vivere come se Dio non esistesse, ossia proponendo una legge naturale priva di Dio e la quale presentasse un diritto minimo accettato da tutte le confessioni religiose. Sicuramente Grozio era rimasto sconvolto da quelle che erano state le atrocità di una lotta compiuta sotto l’insegna della ricerca della vera religione, ma ha causato l’emergere di una linea di pensiero che da lì a poco è riuscita a separare la fede dalla morale. Attualmente, secondo Konrad, la tragedia delle Guerre Mondiali e il relativismo morale degli ultimi decenni, dovrebbero condurre ad un capovolgimento dell’affermazione di Grozio, cioè a vivere come se Dio esistesse[3]. È di questa idea Ratzinger, per il quale il far riferimento a Dio nella morale permette all’uomo di prendere maggiormente coscienza della propria responsabilità in quello che compie.




[1] Cfr. Michael Konrad, Dalla felicità all’amicizia. Percorso di etica filosofica, Lateran University Press, Città del Vaticano 2007, 144.
[2] Ivi, 145.
[3] Cfr. Ivi, 147.

giovedì 20 novembre 2014

La felicità: fine ultimo dell'azione umana


Come sostiene Michael Konrad, «tutti gli uomini tendono per natura alla felicità»[1]. È quindi proprio della natura dell’essere umano il desiderare di essere felice e il trovare in questo la realizzazione di tutta la vita ed il fine a cui tendere le proprie azioni. Percorrendo la storia della filosofia ci si accorge come il tema della felicità abbia interrogato ed interessato lungo i tempi la gran parte dei filosofi e di come questi abbiano offerto delle risposte assai diverse. Basti pensare a quanto ci dice Agostino d’Ippona nel De civitate Dei,  ossia di come l’erudito Varrone nella sua opera Sulla filosofia riconosca l’esistenza di duecentottanta dottrine filosofiche intorno alla felicità (XIX, i, 1). Non potendo ovviamente esporle tutte, abbiamo scelto di porre la nostra attenzione solo su alcune di esse, che ci sembrano particolarmente interessanti. Il problema che viene evidenziato, come  mostreremo, riguarda un fatto paradossale: il desiderio di felicità genera solitamente un’attesa che supera di gran lunga le reali possibilità dell’essere umano, per cui l’uomo si mostra non in grado di raggiungere e di colmare il suo desiderio di felicità. Questa questione filosofica ci introduce, dunque, all’interno di un grande paradosso che Konrad sintetizza in questo modo: l’uomo compie delle azioni in quanto mosso dal desiderio di essere felice; l’uomo può essere felice nella misura che i suoi desideri vengano realizzati; l’uomo non è capace di soddisfare con le sue azioni i propri desideri[2].

Secondo Aristotele la felicità è da considerarsi come quel bene supremo verso cui tendono tutti gli uomini e che coincide con l’esplicazione della più alta attività umana, la ragione. Così sembra che, per lo Stagirita, solo la vita spirituale possa essere considerata come l’autentica destinazione dell’essere umano, in quanto solo essa può assicurargli la felicità. In questo modo, però, sembra che Aristotele segua la via percorsa anche da Socrate e Platone senza apportare nessuna diversità. Invece non è così, in quanto, a differenza degli altri due filosofi, per lo Stagirita a contribuire al raggiungimento della felicità, anche se in maniera marginale, devono essere ricordati pure i beni materiali. Questo non offusca o devia quello che è la base del pensiero aristotelico, ossia il fatto che l’uomo, per essere felice, deve sviluppare e coltivare la sua parte migliore, che è l’intelletto. Il suo valore è da considerarsi inestimabile e l’uomo possiede il compito di potenziarlo al massimo, scegliendo di porre al primo posto i valori della vita, della mente, la sapienza, la contemplazione e la teoresi. Per questo motivo, per raggiungere la felicità, l’essere umano deve esercitarsi più nelle virtù dianoetiche, legate alla ragione e alla contemplazione, piuttosto che in quelle etiche, legate agli impulsi, i quali sono appartenenti alla parte irrazionale dell’anima e soggetti al dominio della saggezza. In questa chiave Aristotele rilegge la valutazione dei piaceri in rapporto al raggiungimento della felicità. Essi sono autentici e profondi nella misura in cui sono il frutto dell’attività teoretico-contemplativa. Secondo lo Stagirita, allora, felice è quell’uomo «che comprende il primato della vita intellettuale e attua la sua più intima natura, che è quella di un essere dotato di intelligenza e razionalità»[3]. Infatti per Aristotele solo il possesso di un bene sommo può essere la causa della felicità dell’uomo, in quanto esso è un bene che non è ricercato in vista di un altro bene, ma per se stesso (cfr. Etica Nicomachea, I,4,1095a16-19). Una vita totalmente dedita alla attività teoretico-contemplativa, però, secondo il filosofo, difficilmente può essere considerata propria delle capacità tipiche dell’essere umano, mentre sembra più verosimilmente affina alla divinità (cfr. Ivi, X,7,1177a15-18). L’uomo, quindi, da una parte è chiamato, per essere veramente felice, a comportarsi da immortale e a far fruttificare la sua parte più nobile (cfr. Ivi, 1178a), mentre dall’altra parte deve accontentarsi di una felicità di second’ordine, consistente nell’applicarsi ad esercitare le virtù etiche all’interno della società. All’essere umano, così, è preclusa la felicità piena[4].

Con Tommaso d’Aquino la questione della felicità viene affrontata con un atteggiamento in parte  diverso rispetto allo Stagirita, poiché l’Aquinate, secondo Schoepflin, non ha solamente fatto propria quella tradizione classica che prevedeva un forte legame tra la virtù e la felicità, ma ha manifestato una certezza tipicamente cristiana per la quale solo in Dio e con Dio è possibile all’uomo essere pienamente felice[5]. La strada percorsa da Tommaso è in gran parte la stessa già battuta da Aristotele. Come quest’ultimo, infatti, anche il filosofo medievale ritiene che la felicità possa essere ritenuta la perfezione più alta a cui l’uomo deve puntare come coronamento del suo agire e che essa non possa essere il frutto di ricchezze, sia esse naturali sia artificiali, di potenza, dei beni del corpo, di un bene creato e ribadisce che la strada che conduce ad essa è quella della virtù, ossia del dominio delle passioni e del rispetto sia della legge naturale come di quella divina. Ritroviamo allora nel filosofo della scolastica la distinzione aristotelica delle virtù in dianoetiche ed etiche, con la preminenza della contemplazione tra le prime e della prudenza tra le seconde. Per Tommaso l’essere umano possiede in sé, nel suo animo, un desiderio di infinito che non può essere appagato se non da Dio. Ecco spiegato il motivo per cui la felicità in pienezza non può essere raggiunta nella vita terrena, ma solamente in una vita ultraterrena dove l’uomo non appare più limitato e fragile. Ma non solo. Secondo Konrad è doveroso notare come Tommaso presenti un contributo assai originale allo sviluppo di una dottrina della felicità, per la quale è opportuno riconoscere come non sia possibile pensare ad essa o solo come un qualcosa legato alla attività umana, come nella speculazione aristotelica, o come un qualcosa che rimanda ad un mero oggetto esterno, come in Agostino. Quando si tratta della felicità si ha, invece, a che fare con due aspetti essenziali, che sono in realtà due fini, uno oggettivo (finis cuius) ed uno soggettivo (finis quo). L’essere felici non è dato da uno dei due aspetti, bensì dalla loro sintesi. Infatti l’uomo è felice quando contempla ed ama Dio[6]. In questo modo possiamo comprendere come per l’Aquinate l’essere umano abbisogni della grazia divina per il raggiungimento della vera e piena beatitudine, in quanto «meritoria non è infatti l’azione umana in quanto tale, bensì l’azione umana in quanto mossa dalla grazia divina, ossia in quanto opera collaborativa tra uomo e Dio»[7]. All’azione umana spetta comunque il ruolo di essere una causa secondaria indispensabile per l’essere veramente felici.

Dopo l’epoca classica e medievale giungiamo alla modernità, dove troviamo  fra le tante figure filosofiche quella di Immanuel Kant, che, accettando la definizione classica di felicità come compimento totale dei desideri umani, altro non fa che sposare l’ipotesi luterana, secondo la quale l’uomo non può contribuire alla propria salvezza, possedendo una natura inficiata totalmente di peccato. Per il filosofo di Königsberg, come per il fondatore del Luteranesimo, la felicità perfetta non può avere come causa l’azione dell’uomo, ma è totalmente un dono divino. Infatti, come evidenzia Konrad, per Kant «l’uomo sarà felice solo quando, da un lato, tutti i suoi desideri saranno appagati e, dall’altro, avrà la certezza che tale appagamento rimarrà per sempre»[8]. Seguendo questa pista il filosofo tedesco apporta una novità all’interno della dottrina concernente la felicità: la virtù non può essere ritenuta la causa della felicità. Questa è un dono di Dio, che ricompensa l’uomo con il premio della felicità in una vita ultraterrena come paga del suo atteggiamento. Dio diviene allora un postulato della ragion pratica, mentre il rispetto della legge morale è motivato solamente dal rispetto per il dovere, il quale non rende l’essere umano felice, ma degno di esserlo in una vita che, però, oltrepassa la morte (cfr. Critica della ragion pratica, I, ii, 2, 5). Sostiene a questo proposito Kant che «la morale non va mai trattata in sé come dottrina della felicità, cioè come un’indicazione del modo per diventar felici, perché essa non ha a che fare con i mezzi per ottenere la felicità, ma con la sua condizione razionale» (ivi). Un’azione finalizzata al conseguimento della felicità per il filosofo di Königsberg è addirittura da considerarsi immorale, in quanto mossa da un fine egoistico. Solo un’azione che persegua come fine il rispetto del dovere contro ogni inclinazione naturale può essere definita morale. In questo modo, però, Kant separa la felicità dalla moralità, inaugurando una mentalità ancora viva ai giorni nostri.




[1] Michael Konrad, Dalla felicità all’amicizia. Percorso di etica filosofica, Lateran University Press, Città del Vaticano 2007, 31.
[2] Cfr. Ivi, 33.
[3] Maurizio Schoepflin, La felicità secondo i filosofi, Città Nuova, Roma 2003, 31.
[4] Cfr. Michael Konrad, cit., 35-36.
[5] Cfr. Maurizio Schoepflin, cit., 82-83.
[6] Cfr. Michael Konrad, cit., 57-58.
[7] Ivi, 58.
[8] Ivi, 51.