A mio giudizio è stata un’occasione propizia per fare esperienza, grazie a
dei testimoni che hanno dipinto la storia di questa antichissima diocesi, della
santità di una vita che pone il suo fondamento su Cristo. Una vita santa in
quanto santificata dal Cristo persona. L’itinerario che ho oggi compiuto mi
ricorda che non posso accontentarmi «di una vita mediocre, vissuta all’insegna
di un’etica minimalistica e di una religiosità superficiale»[1], come
scriveva Giovanni Paolo II a conclusione dell’Anno Santo, evidenziando
l’importanza di una “pedagogia della santità”, legata al fatto che ognuno di
noi possiede una propria strada e un proprio ritmo di vita, i quali però non
devono tradire la misura alta della vita cristiana ordinaria a cui tutti siamo
chiamati.
Il nostro esser cristiani si deve distinguere soprattutto nell’arte
della preghiera[2]; «Signore, insegnaci a pregare» (Lc 11,1)
imploravano i discepoli a Gesù, poiché nella preghiera si sviluppa quel dialogo
con Cristo che ci rende suoi intimi. La preghiera, infatti, è l’anima della
vita cristiana e ci permette di rimanere in Cristo (cfr. Gv 15,4), ma essa deve
nascere dall’ascolto. Affermava Origene che «non può infatti la nostra mente
pregare, se prima di essa non preghi lo spirito, ed essa stia come in suo
ascolto»[3]e più oltre che «affinché la mente non sia
inquinata da altri pensieri, occorre dimenticare, nel tempo in cui si prega,
tutto quanto è estraneo alla preghiera»[4]. I santi pregavano bene, perché la loro
preghiera nasceva dall’ascolto della Parola di Dio e da un cuore contrito dai
bisogni del prossimo, non erano incurvati sul proprio io, ma avevano gli occhi
pieni di compassione propri di Gesù e per questo venivano da lui ascoltati. In
fin dei conti «come non è possibile generare figli senza la donna […] così uno
non potrebbe ottenere certe cose se non pregando […]. Non si devono pertanto
fare vane ciance, né chiedere le piccole cose, né bisogna pregare per chiedere
le piccole cose, né bisogna pregare per quelle terrene o accostarsi
all’orazione con pensieri agitati dall’ira»[5].
Questi santi che ho incontrato mi insegnano che aprire il cuore alla
preghiera vuole non solo dire implorare l’aiuto, ma anche rendere grazie,
lodare, adorare, contemplare, ascoltare, accrescere quell’ardore di affetti che
genera un vero e proprio “invaghimento” del cuore. Questo tipo di preghiera non
distoglie il cristiano dall’impegnarsi nella storia: aprendo il cuore all’amore
di Dio, lo apre anche all’amore dei fratelli, e rende capaci di costruire la
storia secondo il disegno di Dio[6]. Un pregare, proprio come quello di
Maria, che non badava solo al suo bambino, ma stava attenta alle necessità dei
fratelli, a tal punto che corre da Elisabetta per esserle di aiuto.
1.
La santità: dono di Dio
Siamo santi, perché santificati da Dio nello Spirito Santo (cfr. 1Cor
6,11). La fonte della nostra santità e santificazione è Dio, sorgente
dell’amore vero, che è persona e non energia, è Spirito Santo. La santità in prima
battuta è dono di Dio, di quel Dio che si è manifestato totalmente sulla Croce,
amandoci e dando se stesso per noi (cfr. Ef 5,2). È il Cristo Crocefisso e
Risorto che rende ogni nostra vita umana piena di valore, santa e divinizzata,
capace di amare appassionatamente, fedelmente e senza limiti. Come afferma papa
Francesco, «la santità non è qualcosa che ci
procuriamo noi, che otteniamo noi con le nostre qualità e le nostre capacità.
La santità è un dono, è il dono che ci fa il Signore Gesù, quando ci prende con
sé e ci riveste di se stesso, ci rende come Lui»[7].
Racconta Agostino nelle Confessiones che non appena era rientrato in
se stesso nella ricerca della verità aveva visto una luce e sentito una voce
che gli diceva: «Sono un cibo da adulti; cresci e potrai mangiare di me. Non tu
mi trasformerai in te come il cibo del corpo, ma tu ti trasformerai in me»[8]. Ecco la santificazione è proprio questa
trasformazione che Cristo compie in noi tramite la preghiera e l’Eucarestia, è
Cristo che ci rende sempre più simili a lui.
A me piace parlare più che di santificazione di deificazione,
l’esser resi come dei, un termine proprio del mondo cristiano orientale. La
deificazione consiste «nell’acquisire, non la natura divina, il che è
impossibile, ma il modo di essere divino di persone in comunione. Poiché
questo divino modo di essere è entrato nell’umanità tramite Gesù Cristo, la
deificazione è ottenuta grazie all’unione sacramentale con lui, rafforzata
nell’esicasmo con la preghiera di Gesù»[9].
Noi tutti siamo stati creati ad immagine di Dio (cfr. Gen 1,26), ma questa
immagine deve tendere nell’arco della nostra vita verso la somiglianza con Dio.
Affermava giustamente Bulgakov ne L’Agnello di Dio che
l’immagine
divina è il fondamento ontologico incancellabile, quella forza iniziale
infusa nell’uomo per la sua vita e la sua attività creatrice. Essa in lui può
crescere e diminuire, risplendere e oscurarsi, dipendendo dalla sua libertà. Ma
la somiglianza è l’equivalente, nell’uomo, dell’azione creatrice di Dio e
dell’eterna attualità dello spirito. La somiglianza divina nell’uomo è la
libera realizzazione della propria immagine da parte dell’uomo[10].
San Paolo, quando tratta della divinizzazione dell’uomo (cfr. Gal 3,27),
usa le formule “essere in Cristo” o “essere rivestiti di Cristo”. Per cui la
divinizzazione dell’uomo non è altro che un processo di cristificazione dell’essere
umano. Atanasio stesso affermerà che Dio si è fatto uomo perché gli uomini
fossero fatti dei[11]. Ovviamente la creatura deve collaborare
a questo processo cercando di rimanere in Cristo.
Il fine dell’incarnazione è, quindi, la divinizzazione dell’uomo attraverso
Gesù Cristo, poiché quello che Dio ha assunto lo ha anche salvato. Scrive
Gregorio Nazianzeno, uno dei tre padri cappadoci, che «quello che non è stato
assunto da Cristo non è stato sanato, mentre quello che ha formato un’unione
con Dio, quello è stato salvato»[12]. Noi veniamo salvati o santificato
proprio in quanto veniamo divinizzati. L’uomo, in quanto essere creato, ha una
struttura cristiforme e Cristo ci aiuta a capire come si è fatto l’uomo: Cristo
svela pienamente l’uomo all’uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione[13].
Il vero dono dell’Incarnazione, quindi, non è tanto l’aspetto negativo
della remissione dei peccati, quanto il volerci rendere come Dio, ossia il
permetterci di essere e di esistere. Possiamo a ragione affermare che la venuta
di Cristo non sia provocata dal peccare dell’uomo ma che noi esistiamo a causa
di Cristo. L’uomo senza di Cristo non sarebbe esistito, poiché noi veniamo
creati tramite Cristo, il Verbo di Dio.
Siamo santificati da Dio in Gesù Cristo nello Spirito Santo, nel quale si
manifesta la comunione di Dio come Amore, come Dio con noi. L’uomo santificato
vive nello Spirito Santo, che diventa a sua volta parte integrante dell’uomo e
della sua spiritualità. È infatti lo Spirito l’inconografo di Dio, che
dipinge in noi l’immagine di Dio (cfr. Rm 8,29; 2Cor 3,18). Lo Spirito Santo
permette e realizza l’inabitazione di Dio in noi, come afferma la 1Pt 1,2, e
grazie allo Spirito noi diveniamo da stranieri o ospiti concittadini dei santi
e familiari di Dio (cfr. Ef 2,19).
La divinizzazione dell’uomo nello Spirito Santo ci permette di divenire
figli nel Figlio. Afferma Cirillo di Gerusalemme nelle sue Catechesi:
«Siamo infatti degni di invocarlo come Padre per la sua ineffabile
misericordia. Non per nostra figliolanza secondo la natura dal Padre celeste,
ma per grazia del Padre mediante il Figlio e lo Spirito Santo siamo stati
trasferiti dallo stato di schiavitù a quello di figliolanza»[14].
Concludendo possiamo sostenere che la santità non è solo questione morale,
ma soprattutto questione ontologica, ossia inerente la natura, in quanto siamo
stati formati da Dio per mezzo del Verbo nello Spirito Santo. La nostra natura
umana è frutto dell’opera della Trinità, dalla quale riceviamo la santità o
divinizzazione come puro dono gratuito. A questo dovremmo corrispondere con la
nostra libera sinergia in rendimento di grazie e realizzare il progetto
iconografico stupendo che Dio ha pensato per noi.
2.
La santità: per un mondo migliore
Il Padre Macario così raccontava:
Camminando nel
deserto, trovai il cranio di un morto gettato per terra. Appena lo toccai con
il mio bastone di palma il cranio cominciò a parlare. Gli dico: - Chi sei? Il
cranio mi rispose: - Ero un sacerdote degli idoli dei greci che dimoravano in
questo luogo. E tu sei Macario, il pneumatoforo. Quando tu ti impietosisci e
preghi per quelli che giacciono nel luogo del castigo, essi ne hanno un po’ di
consolazione. – Che consolazione e che castigo?, chiede l’anziano. Gli dice: - Quanto
dista il cielo dalla terra, altrettanto è il fuoco sotto di noi. Siamo
immersi nel fuoco dalla testa ai piedi; e non è possibile guardarsi in faccia,
perché ognuno ha le spalle attaccate alle spalle dell’altro. Ma quando tu
preghi per noi, l’uno vede un po’ la faccia dell’altro: questa è la
consolazione. Piangendo, l’anziano disse: - Guai al giorno in cui l’uomo è
nato! E chiese poi: - C’è un altro tormento peggiore? Il cranio gli dice: - Al
di sotto di noi c’è un tormento più grande. Dice l’anziano: - E chi vi sta? Il
cranio rispose: - Noi che non conoscevamo Dio abbiamo trovato almeno un poco di
misericordia; ma coloro che conoscevano Dio e lo hanno rinnegato e non hanno
compiuto la sua volontà sono sotto di noi. L’anziano prese il cranio e lo
seppellì[15].
Macario l’Egiziano non voleva ascoltare la verità proferita dal cranio, non
voleva assumere su di sé il compito a cui era stato chiamato e aveva preferito
sotterrare il suo “grillo parlante”, la sua coscienza scheletrita. I santi non
hanno fatto altrettanto, in quanto, come degli umili operai del Signore, si
sono messi a lavorare di lena nella sua vigna per renderla feconda e fertile.
Ripartendo dalla contemplazione del volto di Cristo riusciremo a scorgere
la sua presenza in coloro con cui Gesù stesso ha voluto identificarsi, ossia
gli affamati, gli assetati, i malati, i carcerati, gli ignudi, gli
stranieri…(cfr. Mt 25, 35-36), poiché nessuno deve essere escluso dal nostro
amore. Sottolineava Giovanni Paolo II al termine del Giubileo del 2000 che «è
l’ora di una nuova “fantasia della carità”, che si dispieghi non tanto e non
solo nell’efficacia dei soccorsi prestati, ma nella capacità di farsi vicini,
solidali con chi soffre, così che il gesto di aiuto sia sentito non solo come
obolo umiliante, ma come fraterna condivisione»[16]. Il Concilio Vaticano II, con la
Costituzione Pastorale Gaudium et spes, soprattutto nella seconda parte
di questo documento, evidenzia quelli che sono i problemi più urgenti che
dovrebbero occupare l’attività operosa ed amorosa del cristiano: il matrimonio,
la cultura, la vita economica, sociale e politica, la promozione della pace.
Quest’ultima non può essere meramente identificata con l’assenza delle guerre e
delle liti, ma è il frutto del rispetto e della fiducia, «dell’amore, il quale
va oltre quanto è in grado di assicurare la semplice giustizia»[17]. Secondo l’Ipponate, sarà in pace con
gli uomini colui che innanzitutto non fa del male a nessuno e fa il bene a chi
può. E la prima attenzione va ai familiari, a coloro cioè a cui è più facile
provvedere sia per la vicinanza spaziale sia per l’affetto che si nutre[18].
Benedetto XVI nel Messaggio per la XXII Giornata Mondiale della Gioventù
ha invitato tutti i giovani ad
osare l’amore,
a non desiderare cioè niente di meno per la vostra vita che un amore forte e
bello, capace di rendere l’esistenza intera una gioiosa realizzazione del dono
di voi stessi a Dio e ai fratelli […]. L’amore è la sola forza in grado di
cambiare il cuore dell’uomo e l’umanità intera, rendendo proficue le relazioni
tra uomini e donne, tra ricchi e poveri, tra culture e civiltà […]. Soltanto
l’aiuto del Signore ci consente, infatti, di sfuggire alla rassegnazione
davanti all’enormità del compito da svolgere e ci infonde il coraggio di
realizzare quanto è umanamente impensabile[19].
Il Papa emerito esortava, inoltre, di rimettersi alla scuola dei santi, ossia
alla scuola dei veri amici di Dio e citava per questo motivo Madre Teresa «che,
per affrettarsi a rispondere al grido di Cristo “Ho sete”, grido che l’aveva
profondamente toccata, iniziò a raccogliere i moribondi nelle strade di
Calcutta, in India»[20]. Alla scuola dei santi impariamo l’amore
per la preghiera e per l’Eucarestia, come fondamento del nostro agire per la
costruzione di un mondo migliore; seguendo le loro orme veniamo deificati e
cristificati dallo Spirito Santo per rendere sempre più fresco il nostro essere
ad immagine di Dio ed il costruire la nostra somiglianza con Lui. Diveniamo
degli effettivi costruttori di pace all’interno di una società che ora più che
mai ha un disperato bisogno di serenità ed armonia. Infatti,
come sostiene papa Francesco, «ogni
stato di vita porta alla santità, sempre! A casa tua, sulla strada, al lavoro,
in Chiesa, in quel momento e nel tuo stato di vita è stata aperta la strada
verso la santità»[21].
[9] Paul McPartlan, “Santità”, in
Piero Coda (a cura di), Dizionario
critica di Teologia, Borla-Città Nuova, Roma 2005,1208.
[10] Sergej Nicolaevic Bulgakov, L’Agnello
di Dio: il mistero del Verbo incarnato, Città Nuova, Roma 1990, 202.
[12] Gregorio Nazianzeno, “Prima Lettera al presbitero Cledonio”, in Id.,
Cinque discorsi teologici, Città Nuova, Roma 1999, 207.
Nessun commento:
Posta un commento