giovedì 27 novembre 2014

La vera philosophia: fede e ragione, teologia e filosofia nel medioevo

Il tratto di storia che interessa alla filosofia medievale copre un arco di oltre mille anni tra Boezio e il Rinascimento. Il passaggio dalla filosofia greca a quella medievale non è stato affatto semplice, in quanto la cultura cristiana ha nutrito verso quella ellenica un sentimento contrastante di amore e di odio. Alla radice del cristianesimo, infatti, vi è la matrice giudaica, la quale avversava in molti aspetti la cultura greca. Basti pensare alle novità che apportava il testo sacro della Bibbia all’interno della cultura umana: la credenza in un unico Dio e in una vita oltre la morte, nonché la promozione di un regno celeste che era destinato ad arrivare in maniera più o meno imminente.
Gli studiosi cristiani hanno, quindi, riletto la filosofia ellenica secondo una chiave di lettura prettamente cristiana. Legato a ciò vi è il fiorire della Scolastica all’interno delle università di Parigi, di Bologna e in molte altre ancora. La lingua usata era generalmente il latino e gli studenti provenivano per lo più dall’ambito clericale. All’interno della Scolastica nella filosofia si fa strada la questione del rapporto tra fede e ragione, ossia la relazione tra la filosofia stessa con la teologia. Anche se Marie Dominique Chenu annovera tra i filosofi più importanti di questo periodo Anselmo, Bonaventura e Tommaso, sicuramente non dovremmo dimenticare Boezio, il quale, anche se vissuto precedentemente, può essere considerato per le sue idee e il suo metodo di ricerca, un vero scolastico. Tutti questi autori hanno saputo portare la fede e la ragione ad una vera conciliazione, considerando la teologia una vera e propria scienza a partire dalla sua considerazione con la Parola di Dio.
Giulio D’Onofrio, nella sua Storia del pensiero medievale, definisce la vera philosophia come la sintesi tra fede e ragione, a partire dalla rilettura allegorica, compiuta dal carolingio Giovanni Scoto Eriugena nella Omelia sul Prologo del quarto vangelo, di Gv 20, 1-10. In questo passo evangelico si racconta di come gli apostoli Pietro e Giovanni corrano verso il luogo dove era stato sepolto Gesù dopo il racconto delle donne, che annunciavano la risurrezione del loro Rabbi. In questa corsa l’Eriugena rivede il combinarsi insieme della fede, simboleggiata da Pietro, con la ragione, Giovanni[1]. Secondo Scoto Eriugena non vi può essere mai contraddizione tra la verità perseguita dalla religione e la verità ricercata dalla filosofia, dato che la vera filosofia è la vera religione e viceversa. La verità, infatti, non può essere considerata contraddittoria, in quanto proviene dalla rivelazione di Dio, da cui, nell’ottica anselmiana del Monologion, proviene l’intelligenza e la fede al tempo stesso. La verità, proprio per questo motivo, non può mai essere contraria alla fede, anzi, come sostiene Pietro Abelardo nella sua Dialectica, è la stessa conoscenza, che, quando è vera, ci conduce vicino alla fede.
Questo è quanto rilegge Scoto Eriugena nell’icona giovannea: Giovanni, ossia colui che durante l’ultima cena ha posto il suo capo sul petto di Cristo, simbolo della capacità umana di accostarsi alla verità tramite la sola indagine naturale, porta Pietro, simbolo della fede vacillante dinanzi al mistero ma anche della garanzia della verità, alla contemplazione del sepolcro vuoto. Quindi, sostiene D’Onofrio, «la fede e la religione corrono insieme verso la pagina sacra, nell’intento di penetrare all’interno del suo significato letterale e accostarsi all’unione di divino e umano in Cristo»[2]. Il credere e il comprendere si intrecciano vicendevolmente, tanto che Anselmo tratta di una intelligenza della fede (intellectus fidei) che riprende il circolo ermeneutico agostiniano del credo ut intelligam, intelligo ut credam, sostenuto dall’Ipponate nel 410 in una Epistola a Consenzio. Agostino evidenzia, nell’anno del saccheggio di Roma da parte dei Visigoti, come «la ragione naturale deve essere attivata dal credente sia prima dell’atto di fede, per giustificarlo, sia successivamente, per consolidarne i contenuti»[3]. In questo modo la relazione tra fides e ratio diviene una habitudo, una relazione naturale tramite la quale è possibile attingere all’unica verità. Nella complementarità di fede e ragione, fin dagli inizi della speculazione cristiana, è vista la condizione essenziale per la sopravvivenza della stessa filosofia, che non viene così ridotta ad un mero supporto metodologico per l’orientamento pratico della vita.
Si viene formando in questo modo una christiana doctrina, che grazie all’apporto dei Padri della Chiesa, è in grado di far fronte sia ai dubbi dei credenti che alle insidie poste dagli eretici. La dottrina cristiana è rinforzata, infatti, sia dalla stabilità razionale che dall’origine rivelata delle sue tesi. Il Logos, termine filosofico, penetra all’interno della tradizione cristiana ed i primi predicatori del Vangelo possono, grazie alla terminologia filosofica, intessere dialoghi con le scuole pagane del tempo. Viene riconosciuta allora l’esistenza di due biblioteche, quella facente capo alla letteratura umana e quella propria della letteratura divina, che devono camminare insieme fino al raggiungimento di una sana doctrina, che sia una ed indiscutibile. Boezio, nel saggio scaturito durante la sua carcerazione prima della morte, De Consolatio Philosophiae, afferma che solo il bene supremo a cui porta la filosofia può dare la vera felicità. Egli stesso ci dice che la filosofia è ‘amore della sapienza’. L’amore della sapienza è l’amore di Dio e «la philosophia christiana può effettivamente aspirare a proporsi come una doctrina compiutamente sistematica, comprensiva, dall’inizio alla fine dei tempi, della verità intera del reale scaturita dall’atto creatore di Dio»[4].



[1] Cfr. Giulio D’Onofrio, Storia del pensiero medievale, Città Nuova, Roma 2011, 7-8.
[2] Ivi, 8.
[3] Ibidem.
[4] Ivi, 16.

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