Il tratto di storia che
interessa alla filosofia medievale copre un arco di oltre mille anni tra Boezio
e il Rinascimento. Il passaggio dalla filosofia greca a quella medievale non è
stato affatto semplice, in quanto la cultura cristiana ha nutrito verso quella
ellenica un sentimento contrastante di amore e di odio. Alla radice del
cristianesimo, infatti, vi è la matrice giudaica, la quale avversava in molti
aspetti la cultura greca. Basti pensare alle novità che apportava il testo
sacro della Bibbia all’interno della cultura umana: la credenza in un unico Dio
e in una vita oltre la morte, nonché la promozione di un regno celeste che era
destinato ad arrivare in maniera più o meno imminente.
Gli studiosi cristiani
hanno, quindi, riletto la filosofia ellenica secondo una chiave di lettura
prettamente cristiana. Legato a ciò vi è il fiorire della Scolastica
all’interno delle università di Parigi, di Bologna e in molte altre ancora. La
lingua usata era generalmente il latino e gli studenti provenivano per lo più
dall’ambito clericale. All’interno della Scolastica nella filosofia si fa
strada la questione del rapporto tra fede e ragione, ossia la relazione tra la
filosofia stessa con la teologia. Anche se Marie Dominique Chenu annovera tra i
filosofi più importanti di questo periodo Anselmo, Bonaventura e Tommaso,
sicuramente non dovremmo dimenticare Boezio, il quale, anche se vissuto
precedentemente, può essere considerato per le sue idee e il suo metodo di
ricerca, un vero scolastico. Tutti questi autori hanno saputo portare la fede e
la ragione ad una vera conciliazione, considerando la teologia una vera e
propria scienza a partire dalla sua considerazione con la Parola di Dio.
Giulio D’Onofrio, nella
sua Storia del pensiero medievale, definisce
la vera philosophia come la sintesi
tra fede e ragione, a partire dalla rilettura allegorica, compiuta dal
carolingio Giovanni Scoto Eriugena nella Omelia
sul Prologo del quarto vangelo, di Gv 20, 1-10. In questo passo evangelico
si racconta di come gli apostoli Pietro e Giovanni corrano verso il luogo dove
era stato sepolto Gesù dopo il racconto delle donne, che annunciavano la
risurrezione del loro Rabbi. In questa corsa l’Eriugena rivede il combinarsi
insieme della fede, simboleggiata da Pietro, con la ragione, Giovanni[1].
Secondo Scoto Eriugena non vi può essere mai contraddizione tra la verità
perseguita dalla religione e la verità ricercata dalla filosofia, dato che la
vera filosofia è la vera religione e viceversa. La verità, infatti, non può
essere considerata contraddittoria, in quanto proviene dalla rivelazione di
Dio, da cui, nell’ottica anselmiana del Monologion,
proviene l’intelligenza e la fede al tempo stesso. La verità, proprio per
questo motivo, non può mai essere contraria alla fede, anzi, come sostiene
Pietro Abelardo nella sua Dialectica,
è la stessa conoscenza, che, quando è vera, ci conduce vicino alla fede.
Questo è quanto rilegge
Scoto Eriugena nell’icona giovannea: Giovanni, ossia colui che durante l’ultima
cena ha posto il suo capo sul petto di Cristo, simbolo della capacità umana di
accostarsi alla verità tramite la sola indagine naturale, porta Pietro, simbolo
della fede vacillante dinanzi al mistero ma anche della garanzia della verità,
alla contemplazione del sepolcro vuoto. Quindi, sostiene D’Onofrio, «la fede e
la religione corrono insieme verso la pagina sacra, nell’intento di penetrare
all’interno del suo significato letterale e accostarsi all’unione di divino e
umano in Cristo»[2].
Il credere e il comprendere si intrecciano vicendevolmente, tanto che Anselmo
tratta di una intelligenza della fede (intellectus
fidei) che riprende il circolo
ermeneutico agostiniano del credo ut
intelligam, intelligo ut credam,
sostenuto dall’Ipponate nel 410 in una Epistola
a Consenzio. Agostino evidenzia, nell’anno del saccheggio di Roma da parte dei
Visigoti, come «la ragione naturale deve essere attivata dal credente sia prima
dell’atto di fede, per giustificarlo, sia successivamente, per consolidarne i
contenuti»[3].
In questo modo la relazione tra fides e
ratio diviene una habitudo, una relazione naturale tramite
la quale è possibile attingere all’unica verità. Nella complementarità di fede
e ragione, fin dagli inizi della speculazione cristiana, è vista la condizione
essenziale per la sopravvivenza della stessa filosofia, che non viene così
ridotta ad un mero supporto metodologico per l’orientamento pratico della vita.
Si viene formando in
questo modo una christiana doctrina,
che grazie all’apporto dei Padri della Chiesa, è in grado di far fronte sia ai
dubbi dei credenti che alle insidie poste dagli eretici. La dottrina cristiana
è rinforzata, infatti, sia dalla stabilità razionale che dall’origine rivelata
delle sue tesi. Il Logos, termine
filosofico, penetra all’interno della tradizione cristiana ed i primi
predicatori del Vangelo possono, grazie alla terminologia filosofica, intessere
dialoghi con le scuole pagane del tempo. Viene riconosciuta allora l’esistenza
di due biblioteche, quella facente capo alla letteratura umana e quella propria
della letteratura divina, che devono camminare insieme fino al raggiungimento
di una sana doctrina, che sia una ed
indiscutibile. Boezio, nel saggio scaturito durante la sua carcerazione prima
della morte, De Consolatio Philosophiae,
afferma che solo il bene supremo a cui porta la filosofia può dare la vera
felicità. Egli stesso ci dice che la filosofia è ‘amore della sapienza’.
L’amore della sapienza è l’amore di Dio e «la philosophia christiana può effettivamente aspirare a proporsi come
una doctrina compiutamente
sistematica, comprensiva, dall’inizio alla fine dei tempi, della verità intera
del reale scaturita dall’atto creatore di Dio»[4].
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