giovedì 20 novembre 2014

La felicità: fine ultimo dell'azione umana


Come sostiene Michael Konrad, «tutti gli uomini tendono per natura alla felicità»[1]. È quindi proprio della natura dell’essere umano il desiderare di essere felice e il trovare in questo la realizzazione di tutta la vita ed il fine a cui tendere le proprie azioni. Percorrendo la storia della filosofia ci si accorge come il tema della felicità abbia interrogato ed interessato lungo i tempi la gran parte dei filosofi e di come questi abbiano offerto delle risposte assai diverse. Basti pensare a quanto ci dice Agostino d’Ippona nel De civitate Dei,  ossia di come l’erudito Varrone nella sua opera Sulla filosofia riconosca l’esistenza di duecentottanta dottrine filosofiche intorno alla felicità (XIX, i, 1). Non potendo ovviamente esporle tutte, abbiamo scelto di porre la nostra attenzione solo su alcune di esse, che ci sembrano particolarmente interessanti. Il problema che viene evidenziato, come  mostreremo, riguarda un fatto paradossale: il desiderio di felicità genera solitamente un’attesa che supera di gran lunga le reali possibilità dell’essere umano, per cui l’uomo si mostra non in grado di raggiungere e di colmare il suo desiderio di felicità. Questa questione filosofica ci introduce, dunque, all’interno di un grande paradosso che Konrad sintetizza in questo modo: l’uomo compie delle azioni in quanto mosso dal desiderio di essere felice; l’uomo può essere felice nella misura che i suoi desideri vengano realizzati; l’uomo non è capace di soddisfare con le sue azioni i propri desideri[2].

Secondo Aristotele la felicità è da considerarsi come quel bene supremo verso cui tendono tutti gli uomini e che coincide con l’esplicazione della più alta attività umana, la ragione. Così sembra che, per lo Stagirita, solo la vita spirituale possa essere considerata come l’autentica destinazione dell’essere umano, in quanto solo essa può assicurargli la felicità. In questo modo, però, sembra che Aristotele segua la via percorsa anche da Socrate e Platone senza apportare nessuna diversità. Invece non è così, in quanto, a differenza degli altri due filosofi, per lo Stagirita a contribuire al raggiungimento della felicità, anche se in maniera marginale, devono essere ricordati pure i beni materiali. Questo non offusca o devia quello che è la base del pensiero aristotelico, ossia il fatto che l’uomo, per essere felice, deve sviluppare e coltivare la sua parte migliore, che è l’intelletto. Il suo valore è da considerarsi inestimabile e l’uomo possiede il compito di potenziarlo al massimo, scegliendo di porre al primo posto i valori della vita, della mente, la sapienza, la contemplazione e la teoresi. Per questo motivo, per raggiungere la felicità, l’essere umano deve esercitarsi più nelle virtù dianoetiche, legate alla ragione e alla contemplazione, piuttosto che in quelle etiche, legate agli impulsi, i quali sono appartenenti alla parte irrazionale dell’anima e soggetti al dominio della saggezza. In questa chiave Aristotele rilegge la valutazione dei piaceri in rapporto al raggiungimento della felicità. Essi sono autentici e profondi nella misura in cui sono il frutto dell’attività teoretico-contemplativa. Secondo lo Stagirita, allora, felice è quell’uomo «che comprende il primato della vita intellettuale e attua la sua più intima natura, che è quella di un essere dotato di intelligenza e razionalità»[3]. Infatti per Aristotele solo il possesso di un bene sommo può essere la causa della felicità dell’uomo, in quanto esso è un bene che non è ricercato in vista di un altro bene, ma per se stesso (cfr. Etica Nicomachea, I,4,1095a16-19). Una vita totalmente dedita alla attività teoretico-contemplativa, però, secondo il filosofo, difficilmente può essere considerata propria delle capacità tipiche dell’essere umano, mentre sembra più verosimilmente affina alla divinità (cfr. Ivi, X,7,1177a15-18). L’uomo, quindi, da una parte è chiamato, per essere veramente felice, a comportarsi da immortale e a far fruttificare la sua parte più nobile (cfr. Ivi, 1178a), mentre dall’altra parte deve accontentarsi di una felicità di second’ordine, consistente nell’applicarsi ad esercitare le virtù etiche all’interno della società. All’essere umano, così, è preclusa la felicità piena[4].

Con Tommaso d’Aquino la questione della felicità viene affrontata con un atteggiamento in parte  diverso rispetto allo Stagirita, poiché l’Aquinate, secondo Schoepflin, non ha solamente fatto propria quella tradizione classica che prevedeva un forte legame tra la virtù e la felicità, ma ha manifestato una certezza tipicamente cristiana per la quale solo in Dio e con Dio è possibile all’uomo essere pienamente felice[5]. La strada percorsa da Tommaso è in gran parte la stessa già battuta da Aristotele. Come quest’ultimo, infatti, anche il filosofo medievale ritiene che la felicità possa essere ritenuta la perfezione più alta a cui l’uomo deve puntare come coronamento del suo agire e che essa non possa essere il frutto di ricchezze, sia esse naturali sia artificiali, di potenza, dei beni del corpo, di un bene creato e ribadisce che la strada che conduce ad essa è quella della virtù, ossia del dominio delle passioni e del rispetto sia della legge naturale come di quella divina. Ritroviamo allora nel filosofo della scolastica la distinzione aristotelica delle virtù in dianoetiche ed etiche, con la preminenza della contemplazione tra le prime e della prudenza tra le seconde. Per Tommaso l’essere umano possiede in sé, nel suo animo, un desiderio di infinito che non può essere appagato se non da Dio. Ecco spiegato il motivo per cui la felicità in pienezza non può essere raggiunta nella vita terrena, ma solamente in una vita ultraterrena dove l’uomo non appare più limitato e fragile. Ma non solo. Secondo Konrad è doveroso notare come Tommaso presenti un contributo assai originale allo sviluppo di una dottrina della felicità, per la quale è opportuno riconoscere come non sia possibile pensare ad essa o solo come un qualcosa legato alla attività umana, come nella speculazione aristotelica, o come un qualcosa che rimanda ad un mero oggetto esterno, come in Agostino. Quando si tratta della felicità si ha, invece, a che fare con due aspetti essenziali, che sono in realtà due fini, uno oggettivo (finis cuius) ed uno soggettivo (finis quo). L’essere felici non è dato da uno dei due aspetti, bensì dalla loro sintesi. Infatti l’uomo è felice quando contempla ed ama Dio[6]. In questo modo possiamo comprendere come per l’Aquinate l’essere umano abbisogni della grazia divina per il raggiungimento della vera e piena beatitudine, in quanto «meritoria non è infatti l’azione umana in quanto tale, bensì l’azione umana in quanto mossa dalla grazia divina, ossia in quanto opera collaborativa tra uomo e Dio»[7]. All’azione umana spetta comunque il ruolo di essere una causa secondaria indispensabile per l’essere veramente felici.

Dopo l’epoca classica e medievale giungiamo alla modernità, dove troviamo  fra le tante figure filosofiche quella di Immanuel Kant, che, accettando la definizione classica di felicità come compimento totale dei desideri umani, altro non fa che sposare l’ipotesi luterana, secondo la quale l’uomo non può contribuire alla propria salvezza, possedendo una natura inficiata totalmente di peccato. Per il filosofo di Königsberg, come per il fondatore del Luteranesimo, la felicità perfetta non può avere come causa l’azione dell’uomo, ma è totalmente un dono divino. Infatti, come evidenzia Konrad, per Kant «l’uomo sarà felice solo quando, da un lato, tutti i suoi desideri saranno appagati e, dall’altro, avrà la certezza che tale appagamento rimarrà per sempre»[8]. Seguendo questa pista il filosofo tedesco apporta una novità all’interno della dottrina concernente la felicità: la virtù non può essere ritenuta la causa della felicità. Questa è un dono di Dio, che ricompensa l’uomo con il premio della felicità in una vita ultraterrena come paga del suo atteggiamento. Dio diviene allora un postulato della ragion pratica, mentre il rispetto della legge morale è motivato solamente dal rispetto per il dovere, il quale non rende l’essere umano felice, ma degno di esserlo in una vita che, però, oltrepassa la morte (cfr. Critica della ragion pratica, I, ii, 2, 5). Sostiene a questo proposito Kant che «la morale non va mai trattata in sé come dottrina della felicità, cioè come un’indicazione del modo per diventar felici, perché essa non ha a che fare con i mezzi per ottenere la felicità, ma con la sua condizione razionale» (ivi). Un’azione finalizzata al conseguimento della felicità per il filosofo di Königsberg è addirittura da considerarsi immorale, in quanto mossa da un fine egoistico. Solo un’azione che persegua come fine il rispetto del dovere contro ogni inclinazione naturale può essere definita morale. In questo modo, però, Kant separa la felicità dalla moralità, inaugurando una mentalità ancora viva ai giorni nostri.




[1] Michael Konrad, Dalla felicità all’amicizia. Percorso di etica filosofica, Lateran University Press, Città del Vaticano 2007, 31.
[2] Cfr. Ivi, 33.
[3] Maurizio Schoepflin, La felicità secondo i filosofi, Città Nuova, Roma 2003, 31.
[4] Cfr. Michael Konrad, cit., 35-36.
[5] Cfr. Maurizio Schoepflin, cit., 82-83.
[6] Cfr. Michael Konrad, cit., 57-58.
[7] Ivi, 58.
[8] Ivi, 51.

5 commenti:

  1. l'agire dell'uomo si regge per il principio del piacere ma quando matura lo fa secondo il principio del bene.

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    1. Secondo me è importante che l'azione dell'essere umano non sia guidata dalla autofilia, ma dalla ricerca del bene comune, che non è però il bene della maggioranza, bensì quel bene assoluto che appartiene alla natura dell'essere umano in quanto tale. Mettere il piacere come metro dell'azione morale del soggetto fa sì, come nella filosofia humiana, che sia esso giudice di cosa debba essere considerato come virtù e cosa come vizio. Ma questo porta solo ad un grande relativismo, in quanto ciò che è piacere per me potrebbe non esserlo per te!!!

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    2. la ricerca della felicità costituisce la strada maestra per diventare infelici come condizione strutturale......

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    3. Secondo me quello che affermi è vero nella misura in cui la nostra felicità è riposta in dei beni futili, il cui possesso produce in noi solo un senso di vuoto. Ma se la felicità è riposta nel raggiungimento del Sommo Bene, nella difesa dei valori, nel rispetto e nel servizio della persona umana, nella ricerca della Verità sono convinto che non potrà mai essere considerata come la via che conduce alla infelicità!!!

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    4. Non penso alla difesa dei valori, al rispetto, al servizio ma neppure alla persona umana...queste sono spesso cose troppo abstratte ma all'essere con gli altri direbbe HEID, a dare la vita per gli amici direbbe un'altro... Tuttavia penso che tutto questo non conduce alla felicità ma semplicemente a VIVERE molto diverso del vegetare...

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