lunedì 24 novembre 2014

La coscienza


La questione concernente la coscienza morale è divenuta in epoca moderna di fondamentale importanza, soprattutto in relazione alla centralità che è andato pian piano assumendo il soggetto dopo la filosofia cartesiana del cogito. Il soggetto vuole acquisire una sempre maggiore indipendenza nei riguardi dell’oggetto, così come la libertà in relazione alla verità. Per questo motivo si assiste alla formazione di alcuni sistemi etici, come il lassismo, il tuziorismo, il probabilismo, l’equiprobabilismo e il probabiliorismo, i quali evidenziano delle questioni concernenti proprio il rapporto tra la coscienza e la verità.

Per superare le aporie moderne è bene, quindi, ritornare al pensiero di Agostino, di Tommaso e di Newman. Prendendo spunto dall’Aquinate possiamo ritenere fondamentale il distinguere, in seno alla coscienza, due livelli: quello della sinderesi da quello del giudizio di coscienza. La sinderesi può essere definita in vari modi. Essa è, per Tommaso, un habitus, un criterio infallibile, che offre all’essere umano la capacità di saper discernere il bene e il vero dal male e dal falso; per Ratzinger essa deve essere sostituita dal termine platonico ‘anamnesi’, in quanto con essa si deve intendere più un criterio formale che materiale della moralità, ossia nella capacità di compiere un discernimento piuttosto che in un elenco di atti buoni o cattivi; per Agostino, essa va intesa come ‘cuore’, a partire dal quale l’essere umano deve sentirsi spronato a non fermarsi al mero discernimento ma a percepire il dovere di attuare il comportamento più giusto.

Il giudizio di coscienza, cioè il secondo livello presente nella coscienza, consiste principalmente nell’attuazione di questo discernimento ad una situazione particolare. Secondo la tradizione classica mentre la sinderesi è infallibile, il giudizio di coscienza è fallibile. Per Tommaso d’Aquino, però, questa distinzione non è del tutto esatta, poiché dovrebbe essere maggiormente legata al caso concreto, poiché il ritenere che sia sempre un errore l’andare contro coscienza non vuole dire allo stesso tempo che si compia sempre del bene nell’assecondarla. Si può incorrere, infatti, in un errore di coscienza, dovuto ad un giudizio di coscienza incerto, il quale non dovrebbe mai motivare le azioni del soggetto, oppure ad una negligenza pregressa che conduce il soggetto a cadere nell’errore. A seconda del fatto che il soggetto potrebbe disfarsi o meno dell’errore o che esso sia responsabile o meno della sua negligenza, gli errori di coscienza sono classificabili in quattro tipi: errori vincibili colpevoli e non colpevoli; errori invincibili colpevoli e non colpevoli. Secondo molti autori moderni come Kant o Fichte, i quali trovano in Abelardo il padre di questa dottrina, la coscienza non può mai trarre in errore, dato che è proprio essa ad essere la misura della moralità. Lo studioso Michael Konrad critica, però, questa tesi affermando che «la fallibilità del giudizio della coscienza non è solo possibile, ma che essa è un indice della sua pretesa di oggettività […]. La persona umana non crea la verità pratica, ma la riconosce come qualcosa di oggettivo, come qualcosa che non dipende da sé, come una voce che viene dall’alto»[1].

Per questo motivo risulta essere fondamentale favorire una concezione della coscienza che venga fondata sulla verità come fa Newman. Secondo questo autore, riprendendo la tradizione agostiniana, la coscienza non è altro che la voce di Dio che risuona nel cuore dell’uomo, apportando dignità, diritti ma anche molti doveri. In questo modo si comprende che anche la libertà di coscienza possiede un limite e questo limite è proprio il diritto, oltre l’osservanza del quale nessuno dovrebbe andare.

Un’altra interessante problematica che la coscienza pone è quella relativa alla sua relazione con una qualsivoglia autorità. Dinanzi a questa questione, nella storia della filosofia, vediamo lo snodarsi di tre differenti sentieri. Il primo è quello che si richiama a Rousseau, per il quale alla coscienza non basta il possedere la sinderesi come facoltà di discernimento del bene dal male, ma deve essere educata pur rimanendo sempre fallibile. Oltretutto ogni influenza esterna potrebbe alienare il giudizio di coscienza. Quest’ultimo punto viene ripreso anche da Nietzsche e da Freud, nonostante che questi due filosofi riducano la coscienza ad una cieca obbedienza all’autorità. Tra questi due percorsi dell’intelletto se ne apre però anche un terzo, quella inerente alla filosofia classica, secondo la quale la coscienza è una voce individuale che però deve trovare un sostegno in altre persone nella sua ricerca della verità. In questa linea interpretativa l’autorità assume su di sé la parte dell’oggettivamente buono. La qualità morale di un azione non può dipendere principalmente da quello che si compie, ma dal modo con cui si compie e dal per chi si compie. L’agire secondo coscienza rimanda allora ad una responsabilità personale sui propri atti, la quale non può essere demandata a nessun altro. Come sostiene Agostino agire con coscienza significa agire con la consapevolezza di dover rispondere a qualcuno (Dio) un domani dei propri atti e questo principio è da sempre stato molto utile nell’educazione della propria coscienza fino a Grozio, il quale ha apportato, invece, un declino del senso morale dell’uomo.

Intorno al tema della coscienza morale si delinea il nucleo ontologico della persona umana e la misura della sua grandezza in relazione alla sua autenticità. Negli atti che l’uomo compie si trova espressa la personalità dell’essere umano e la sua autenticità, contro cui si scagliano una società sempre più tecnologica e de-personalizzata, tipica di una cultura di massa (Heidegger) e una società ipocrita e in malafede, dove gli uomini sono capaci non solo di ingannare gli altri, ma anche se stessi (Sartre). Nel cammino dell’uomo verso l’autenticità non possiamo non sottolineare l’operato intellettuale di due grandi filosofi come Karol Wojtila e Thomas Moore. Secondo il filosofo polacco l’uomo si realizza ontologicamente attraverso i suoi atti mentre moralmente mediante i suoi atti buoni, poiché solo colui che cerca con sincerità il bene può essere considerato padrone dei suoi atti e non schiavo dei suoi istinti. Anche il gran cancelliere d’Inghilterra evidenziava l’importanza di formare seriamente la propria coscienza con l’aiuto della Scrittura, del Magistero, della propria riflessione personale come di quella altrui, poiché la coscienza deve essere seguita per non condannarsi da soli. Per il Moro la consapevolezza di esser posti dinanzi al giudizio divino conferisce all’uomo la forza di resistere alle pressioni della società.

Oggigiorno la coscienza, secondo Konrad, sembra dirigersi sempre più verso il suo disfacimento essendo stata resa dall’uomo sempre più fragile e compromessa col peccato. L’uomo molto spesso va consapevolmente contro la sua coscienza o accetta il rischio di peccare, per cui l’unica medicina per un sano sviluppo della persona umana può essere solo il perdono[2]. Infatti, «solo se l’uomo sperimenta il perdono, egli non si vede costretto ad autogiustificarsi, ma può trovare la forza e il coraggio di ascoltare e accettare la voce della propria coscienza che accusa il peccato e può infine tornare ad affrontare la vita con uno slancio rinnovato»[3].




[1] Michael Konrad, Dalla felicità all’amicizia. Percorso di etica filosofica, Lateran University Press, Città del Vaticano 2007, 200.
[2] Cfr. Ivi, 214.
[3] Ibidem.

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