La questione
concernente la coscienza morale è divenuta in epoca moderna di fondamentale
importanza, soprattutto in relazione alla centralità che è andato pian piano
assumendo il soggetto dopo la filosofia cartesiana del cogito. Il soggetto vuole acquisire una sempre maggiore
indipendenza nei riguardi dell’oggetto, così come la libertà in relazione alla
verità. Per questo motivo si assiste alla formazione di alcuni sistemi etici,
come il lassismo, il tuziorismo, il probabilismo, l’equiprobabilismo e il probabiliorismo,
i quali evidenziano delle questioni concernenti proprio il rapporto tra la
coscienza e la verità.
Per superare le aporie
moderne è bene, quindi, ritornare al pensiero di Agostino, di Tommaso e di
Newman. Prendendo spunto dall’Aquinate possiamo ritenere fondamentale il
distinguere, in seno alla coscienza, due livelli: quello della sinderesi da
quello del giudizio di coscienza. La sinderesi può essere definita in vari
modi. Essa è, per Tommaso, un habitus,
un criterio infallibile, che offre all’essere umano la capacità di saper
discernere il bene e il vero dal male e dal falso; per Ratzinger essa deve
essere sostituita dal termine platonico ‘anamnesi’, in quanto con essa si deve
intendere più un criterio formale che materiale della moralità, ossia nella
capacità di compiere un discernimento piuttosto che in un elenco di atti buoni
o cattivi; per Agostino, essa va intesa come ‘cuore’, a partire dal quale
l’essere umano deve sentirsi spronato a non fermarsi al mero discernimento ma a
percepire il dovere di attuare il comportamento più giusto.
Il giudizio di
coscienza, cioè il secondo livello presente nella coscienza, consiste
principalmente nell’attuazione di questo discernimento ad una situazione
particolare. Secondo la tradizione classica mentre la sinderesi è infallibile,
il giudizio di coscienza è fallibile. Per Tommaso d’Aquino, però, questa
distinzione non è del tutto esatta, poiché dovrebbe essere maggiormente legata
al caso concreto, poiché il ritenere che sia sempre un errore l’andare contro coscienza
non vuole dire allo stesso tempo che si compia sempre del bene
nell’assecondarla. Si può incorrere, infatti, in un errore di coscienza, dovuto
ad un giudizio di coscienza incerto, il quale non dovrebbe mai motivare le
azioni del soggetto, oppure ad una negligenza pregressa che conduce il soggetto
a cadere nell’errore. A seconda del fatto che il soggetto potrebbe disfarsi o
meno dell’errore o che esso sia responsabile o meno della sua negligenza, gli
errori di coscienza sono classificabili in quattro tipi: errori vincibili
colpevoli e non colpevoli; errori invincibili colpevoli e non colpevoli.
Secondo molti autori moderni come Kant o Fichte, i quali trovano in Abelardo il
padre di questa dottrina, la coscienza non può mai trarre in errore, dato che è
proprio essa ad essere la misura della moralità. Lo studioso Michael Konrad
critica, però, questa tesi affermando che «la fallibilità del giudizio della
coscienza non è solo possibile, ma che essa è un indice della sua pretesa di
oggettività […]. La persona umana non crea la verità pratica, ma la riconosce
come qualcosa di oggettivo, come qualcosa che non dipende da sé, come una voce
che viene dall’alto»[1].
Per questo motivo
risulta essere fondamentale favorire una concezione della coscienza che venga
fondata sulla verità come fa Newman. Secondo questo autore, riprendendo la
tradizione agostiniana, la coscienza non è altro che la voce di Dio che risuona
nel cuore dell’uomo, apportando dignità, diritti ma anche molti doveri. In
questo modo si comprende che anche la libertà di coscienza possiede un limite e
questo limite è proprio il diritto, oltre l’osservanza del quale nessuno
dovrebbe andare.
Un’altra interessante
problematica che la coscienza pone è quella relativa alla sua relazione con una
qualsivoglia autorità. Dinanzi a questa questione, nella storia della
filosofia, vediamo lo snodarsi di tre differenti sentieri. Il primo è quello
che si richiama a Rousseau, per il quale alla coscienza non basta il possedere
la sinderesi come facoltà di discernimento del bene dal male, ma deve essere
educata pur rimanendo sempre fallibile. Oltretutto ogni influenza esterna
potrebbe alienare il giudizio di coscienza. Quest’ultimo punto viene ripreso
anche da Nietzsche e da Freud, nonostante che questi due filosofi riducano la
coscienza ad una cieca obbedienza all’autorità. Tra questi due percorsi
dell’intelletto se ne apre però anche un terzo, quella inerente alla filosofia
classica, secondo la quale la coscienza è una voce individuale che però deve
trovare un sostegno in altre persone nella sua ricerca della verità. In questa
linea interpretativa l’autorità assume su di sé la parte dell’oggettivamente
buono. La qualità morale di un azione non può dipendere principalmente da
quello che si compie, ma dal modo con
cui si compie e dal per chi si
compie. L’agire secondo coscienza rimanda allora ad una responsabilità
personale sui propri atti, la quale non può essere demandata a nessun altro.
Come sostiene Agostino agire con coscienza significa agire con la
consapevolezza di dover rispondere a qualcuno (Dio) un domani dei propri atti e
questo principio è da sempre stato molto utile nell’educazione della propria
coscienza fino a Grozio, il quale ha apportato, invece, un declino del senso
morale dell’uomo.
Intorno al tema della
coscienza morale si delinea il nucleo ontologico della persona umana e la
misura della sua grandezza in relazione alla sua autenticità. Negli atti che
l’uomo compie si trova espressa la personalità dell’essere umano e la sua
autenticità, contro cui si scagliano una società sempre più tecnologica e
de-personalizzata, tipica di una cultura di massa (Heidegger) e una società
ipocrita e in malafede, dove gli uomini sono capaci non solo di ingannare gli
altri, ma anche se stessi (Sartre). Nel cammino dell’uomo verso l’autenticità
non possiamo non sottolineare l’operato intellettuale di due grandi filosofi
come Karol Wojtila e Thomas Moore. Secondo il filosofo polacco l’uomo si
realizza ontologicamente attraverso i suoi atti mentre moralmente mediante i
suoi atti buoni, poiché solo colui che cerca con sincerità il bene può essere
considerato padrone dei suoi atti e non schiavo dei suoi istinti. Anche il gran
cancelliere d’Inghilterra evidenziava l’importanza di formare seriamente la
propria coscienza con l’aiuto della Scrittura, del Magistero, della propria
riflessione personale come di quella altrui, poiché la coscienza deve essere
seguita per non condannarsi da soli. Per il Moro la consapevolezza di esser
posti dinanzi al giudizio divino conferisce all’uomo la forza di resistere alle
pressioni della società.
Oggigiorno la
coscienza, secondo Konrad, sembra dirigersi sempre più verso il suo
disfacimento essendo stata resa dall’uomo sempre più fragile e compromessa col
peccato. L’uomo molto spesso va consapevolmente contro la sua coscienza o
accetta il rischio di peccare, per cui l’unica medicina per un sano sviluppo
della persona umana può essere solo il perdono[2].
Infatti, «solo se l’uomo sperimenta il perdono, egli non si vede costretto ad
autogiustificarsi, ma può trovare la forza e il coraggio di ascoltare e
accettare la voce della propria coscienza che accusa il peccato e può infine
tornare ad affrontare la vita con uno slancio rinnovato»[3].
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