venerdì 14 novembre 2014

La fede e la religione secondo Tommaso d'Aquino


La fede e la religione trovano un’ampia trattazione all’interno del pensiero dell’Aquinate ed occupano un ampio spazio anche all’interno della stessa Summa theologiae. Sono molte, infatti, le questiones dedicate da Tommaso sia alla fede (II-II, qq.1-16) che alla religione (II-II, qq.81-100), nelle quali il filosofo mostra come entrambe debbano essere annoverate tra le virtù, teologali per la fede e morali per la religione.

La fede è la prima delle virtù teologali (cfr. q.1) ed è una virtù ordinata totalmente a Dio, in quanto da Lui procede come dal suo principio, su di Lui poggia come suo unico oggetto, e a Lui è indirizzata come suo fine. Come nell’oggetto di qualsiasi abito conoscitivo, anche in seno alla fede si deve distinguere un oggetto materiale, ossia la cosa che materialmente viene conosciuta, dalla ragione formale dell’oggetto, cioè la cosa mediante cui si conosce. Nella fede, secondo Tommaso, considerando la ragione formale dell’oggetto, non si ha altro oggetto che la prima verità, in quanto, come abbiamo già detto, la fede accetta solo quella verità che è rivelata da Dio. La fede poi accetta anche altre cose oltre a Dio, ma solo nella misura in cui sono a Lui ordinate (cfr. q.1, a.1).  Per questo motivo si comprende il perché secondo l’Aquinate nella fede non vi possano essere contenute delle falsità (cfr. q.1, a.3). La fede è, quindi, un dono soprannaturale infuso da Dio nell’anima della persona ed implicante l’assenso dell’intelletto rispetto a ciò che si viene a credere. L’assenso dell’intelletto secondo Tommaso avviene secondo due modalità, ossia mosso dall’oggetto, il quale può essere conosciuto direttamente o indirettamente, oppure per scelta volontaria. Se quest’ultima è compiuta dal dubbio o dal timore genera l’opinione, mentre se è fatta con certezza provoca la fede. In entrambi i casi esse non riguardano cose evidenti ai sensi o all’intelletto (cfr. q.1, a.4). La fede, quindi, è un habitus conoscitivo dell’uomo, tanto quanto la scienza, con la differenza però che la scienza «dipende da alcuni principi per se noti, e quindi evidenti. Quindi tutto ciò che è oggetto di scienza in qualche modo è oggetto di visione» (q.1, a.5) e per questo motivo fede e scienza per Tommaso non possono possedere lo stesso oggetto.

Esaminando l’atto interno della fede, possiamo evidenziare che nel pensiero dell’Aquinate il credere sia un atto dell’intelletto sotto la spinta della volontà che lo conduce ad assentire. A partire da ciò Tommaso distingue nell’atto di fede il credere a Dio dal credere Dio e dal credere in Dio (cfr. q.2, a.2). Il credere a Dio corrisponde alla ragione formale dell’oggetto, ossia al motivo per cui si dà assenso ad una verità di fede; il credere Dio, invece, all’oggetto materiale della fede, dato che solo quello che appartiene a Dio è ciò che viene proposto alla fede da credere; il credere in Dio, infine, è la fede come atto dell’intelletto sottoposto alla spinta della volontà. In questo modo, ovviamente, Tommaso non intende indicare tre diversi atti di fede, ma l’unico atto di fede analizzato nel suo triplice rapporto con l’oggetto della fede. Per l’Aquinate l’accettare una proposizione per fede significa soprattutto l’accettarla in quanto essa poggia sulla autorità divina, dato che ciò che supera la ragione umana viene creduto per rivelazione divina (cfr. Summa contra Gentiles, I, 9). La fede è, quindi, principalmente una questione relativa al credere Dio, poiché, anche se è vero che gli uomini possono avere una conoscenza scientifica dell’esistenza di Dio, come mostrano le ‘cinque vie’, la gran parte di essi crede in Dio per fede.

La conoscenza data dalla fede non è una conoscenza scientifica, poiché non procede attraverso l’evidenza e la visione, in quanto essa «è una virtù con la quale sono credute cose che non si vedono» (q.4, a.1). Nonostante questo Tommaso sostiene nel Commento alle Sentenze che «l’assenso alle cose della fede è più fermo e fiducioso persino dei primi principi della ragione» (q.1, a.3, qc.1, ad.1) così come nel De veritate afferma che «la fede è più certa di ogni intuizione e di ogni ragionamento» (q.14, a.1, ad.7). A questo punto, però, è bene fare una precisazione. Per l’Aquinate la certezza deve essere considerata sotto due aspetti, rispetto alle cause che la determinano e dal lato del soggetto. Rispetto alle cause, logicamente è più certo ciò che possiede una causa più sicura ed in questo caso è più certa la fede che si fonda su delle verità divine che ciò che si fonda sulla ragione umana; rispetto al soggetto, invece, è più certo ciò che viene raggiunto intellettivamente con maggiore pienezza e, quindi, la fede è meno certa dato che trascende l’intelletto umano (cfr. S. Th., q.4, a.8).

Per l’Aquinate l’essere umano riesce grazie alla fede a percepire le perfezioni invisibili di Dio in un modo molto più elevato di quanto potrebbe fare con la semplice ragione naturale. L’uomo può raggiungere, quindi, la visione perfetta della beatitudine, ma per farlo non può appellarsi alla sua sola natura ma deve dapprima credere a Dio ed aprirsi a quella fede che è un dono soprannaturale della bontà divina (cfr. S. Th., q.2, a.3). Questo perché, secondo Tommaso, per conoscere le verità di fede è necessaria la rivelazione di Dio, in quanto esse trascendono la ragione naturale (cfr. q.2, a. 6), la quale si mostra insufficiente per fare in modo che l’uomo possa avere la conoscenza delle verità divine (cfr. q.2, a.4). Secondo Plantinga, leggendo Tommaso la questione non è tanto il chiedersi se sia folle credere un qualcosa spinti dall’autorità di Dio, ma se sia folle credere che Dio abbia proposto effettivamente una data informazione perché fosse divenuta una mia credenza. Secondo l’Aquinate, se Dio ha veramente fatto ciò l’essere umano non dovrebbe fare altro che crederci[1]. Il credere nei misteri della fede non mostra, infatti, la stupidità del credente o la sua leggerezza, in quanto il suo atto di fede è mosso dall’evidenza che viene fornita a supporto del fatto che è stato lo stesso Dio ad invitarlo a credere a quelle cose. Vi sono delle opere visibili che possono essere considerate superiori alle capacità di tutta la natura, come la guarigione dalle malattie o la resurrezione dei morti e, non meno, la straordinaria velocità con cui si è diffusa la religione cristiana nel mondo, le quali ci offrono un’evidenza tale che non sembra irrazionale l’accoglierle[2]. Per questo motivo secondo Tommaso non solo le argomentazioni metafisiche di teologia filosofica  portano a dire che Dio esiste, ma anche la testimonianza delle persone o i miracoli ed i prodigi (cfr. q.6, a.1). Da tutto ciò il credente cristiano conclude che Dio ha compiuto delle rivelazioni nella storia, la cui essenza è contenuta in quelle proposizioni del Credo che l’Aquinate chiama articoli di fede e verso i quali il credente manifesta il suo assenso[3]. Questi articoli di fede «stanno alla dottrina della fede come i principi  per se noti stanno alle scienze acquisite dalla ragione umana» (q.1, a.7).

Il legame tra fede e volontà ricorre spessissimo nel pensiero tommasiano, in quanto l’intelletto dà il proprio assenso aderendo alle verità di fede non mosso da una loro visione chiara e distinta, da una loro evidenza, bensì per un comando della volontà (cfr. q.5, a.2). Ma quali effetti provoca la fede nel credente? Secondo Tommaso la fede può essere causa di un duplice tipo di timore, servile e filiale. Una fede informe, infatti, può causare un timore servile dovuto alla conoscenza che la fede dà di quei mali con i quali vengono puniti i peccatori nel giudizio divino. Una fede formata, invece, per l’Aquinate può essere la causa di un timore filiale, ossia della paura espressa dal credente di essere separato da Dio o di mancargli di rispetto, visto che la fede fornisce la convinzione che Dio sia un bene immenso e privarsi di esso sia il peggiore dei mali (cfr. q.7, a.1).

Giovanni Paolo II nella Fides et ratio riprende la dottrina di Tommaso nel cercare di delineare il rapporto che deve intercorrere tra gli abiti conoscitivi della fede e della ragione. Essi, infatti, trovano in Dio la loro origine e in Lui il loro fine, per cui devono vivere una reciproca armonia. Se, infatti, la grazia suppone la natura portandola a compimento, la fede deve supporre e perfezionare la ragione (cfr. n. 43). La fede può fare ciò solo riuscendo a condurre l’intelletto ad aderire a delle verità che non potrebbe conoscere naturalmente. Alla ragione spetterebbe la dimostrazione di quei preambula fidei, che sono antecedenti alla fede, nonché il cercare di rispondere alle molteplici obiezioni che si sollevano contro la fede stessa.

La religione è per Tommaso la virtù morale che offre a Dio il culto che gli è dovuto. Questa definizione fa riferimento all’etimologia ciceroniana di religione come relegere, ma è presente anche il riferimento a religare, ossia a legare strettamente insieme, come anche la prospettiva agostiniana di un rieleggere Dio nella nostra vita dopo averlo per negligenza messo da parte (cfr. S. Th., II-II, q.81, a.5). Secondo l’Aquinate queste tre accezioni di religione ci possono portare alla conclusione che la religione sia una virtù che ci dice di ordinare tutto a Dio, in quanto «Egli infatti è colui al quale principalmente dobbiamo legarci come a un principio indefettibile e verso cui dobbiamo dirigere di continuo la nostra scelta, quale ultimo fine, e ancora è colui che perdiamo con la negligenza del peccato, e che dobbiamo ricuperare credendo e prestando la nostra fede» (ivi). Secondo Battista Mondin si può comprendere il senso profondo della virtù della religione solo inserendola all’interno del dinamismo dell’exitus e reditus che sta alla base dell’edificio metafisico e teologico dell’Aquinate[4]. Il creato è originariamente legato a Dio come alla fonte da cui scaturisce, avendo la sua origine nell’Intelletto e nella Volontà creatrici; al tempo stesso il creato è anche separato da Dio una volta che viene ad esso dato il suo essere. Comunque Dio non abbandona il creato ma continua a sorreggerlo in maniera provvidenziale, indirizzandolo al ricongiungimento con Lui. Anche l’essere umano, facendo parte del creato, è chiamato a ricongiungersi con Dio, a colui che è il suo principio ed il suo fine ultimo. Per questo motivo la religione non può essere considerata una virtù teologale come la fede, dato che non ha Dio come oggetto ma come fine dei suoi atti. È, allora, una virtù morale avente per oggetto i mezzi che sono ordinati al fine. Ma non solo. La religione è una virtù morale facente capo alla giustizia, poiché si deve dare a Dio quanto gli è dovuto, anche se non in maniera assoluta, ma sempre rapportato alle capacità dell’uomo (cfr. S. Th., II-II, q.81, a.5).

Alla religione, secondo Tommaso, spettano degli atti propri che possono essere interni o esterni. Gli atti interni sono quelli che legano l’uomo a Dio soltanto, come la devozione e la preghiera, che sono appunto atti interni della religione (cfr. q.82). Con devozione l’Aquinate intende «una certa volontà di dedicarsi prontamente alle cose attinenti al servizio di Dio» (q.82, a.1) mentre con preghiera ciò che permette all’essere umano di rendere onore a Dio, in quanto egli «si sottomette a lui e confessa col pregare di aver bisogno di lui, quale causa dei suoi beni» (q.83, a.3). Vi sono poi gli atti esterni propri della religione, come per esempio l’adorazione e i sacrifici. Secondo Tommaso con l’adorazione l’uomo è chiamato in nome della sua duplice natura, sensitiva ed intellettiva, ad offrire a Dio una duplice adorazione, spirituale, come interna devozione dell’anima, e corporale, come esterna umiliazione del corpo. Quest’ultima, comunque, viene fatta in funzione di quella spirituale, dato che in tutti gli atti di religione ciò che è esterno si riallaccia a ciò che è interno (cfr. q.84, a.2). I sacrifici nascono dal fatto che l’essere umano ha il bisogno di esprimere la sua sottomissione a Dio, esigita dalla ragione naturale in quanto essere a lui superiore, attraverso dei segni sensibili, proprio come si comportano i servi quando fanno dei doni ai loro padroni, riconoscendo così il loro dominio su di essi (cfr. q.85, a.1).




[1] Cfr. Alvin Plantinga, Dio esiste. Perché affermarlo anche senza prove, Rubbettino, Soveria Mannelli 2011, 47.
[2] Cfr. Ivi, 47-48.
[3] Cfr. John Jenkins, “La fede e la rivelazione”, in Aquinas 3 (2011) 415.
[4] Cfr. Battista Mondin, Dizionario enciclopedico del pensiero di san Tommaso d’Aquino, ESD, Bologna 2000, 581.

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