La fede e la religione
trovano un’ampia trattazione all’interno del pensiero dell’Aquinate ed occupano
un ampio spazio anche all’interno della stessa Summa theologiae. Sono molte, infatti, le questiones dedicate da Tommaso sia alla fede (II-II, qq.1-16) che
alla religione (II-II, qq.81-100), nelle quali il filosofo mostra come entrambe
debbano essere annoverate tra le virtù, teologali per la fede e morali per la
religione.
La fede è la prima
delle virtù teologali (cfr. q.1) ed è una virtù ordinata totalmente a Dio, in
quanto da Lui procede come dal suo principio, su di Lui poggia come suo unico
oggetto, e a Lui è indirizzata come suo fine. Come nell’oggetto di qualsiasi
abito conoscitivo, anche in seno alla fede si deve distinguere un oggetto
materiale, ossia la cosa che materialmente viene conosciuta, dalla ragione
formale dell’oggetto, cioè la cosa mediante cui si conosce. Nella fede, secondo
Tommaso, considerando la ragione formale dell’oggetto, non si ha altro oggetto
che la prima verità, in quanto, come abbiamo già detto, la fede accetta solo
quella verità che è rivelata da Dio. La fede poi accetta anche altre cose oltre
a Dio, ma solo nella misura in cui sono a Lui ordinate (cfr. q.1, a.1). Per questo motivo si comprende il perché
secondo l’Aquinate nella fede non vi possano essere contenute delle falsità
(cfr. q.1, a.3). La fede è, quindi, un dono soprannaturale infuso da Dio
nell’anima della persona ed implicante l’assenso dell’intelletto rispetto a ciò
che si viene a credere. L’assenso dell’intelletto secondo Tommaso avviene
secondo due modalità, ossia mosso dall’oggetto, il quale può essere conosciuto
direttamente o indirettamente, oppure per scelta volontaria. Se quest’ultima è
compiuta dal dubbio o dal timore genera l’opinione, mentre se è fatta con
certezza provoca la fede. In entrambi i casi esse non riguardano cose evidenti
ai sensi o all’intelletto (cfr. q.1, a.4). La fede, quindi, è un habitus conoscitivo dell’uomo, tanto
quanto la scienza, con la differenza però che la scienza «dipende da alcuni
principi per se noti, e quindi evidenti. Quindi tutto ciò che è oggetto di
scienza in qualche modo è oggetto di visione» (q.1, a.5) e per questo motivo
fede e scienza per Tommaso non possono possedere lo stesso oggetto.
Esaminando l’atto
interno della fede, possiamo evidenziare che nel pensiero dell’Aquinate il
credere sia un atto dell’intelletto sotto la spinta della volontà che lo
conduce ad assentire. A partire da ciò Tommaso distingue nell’atto di fede il
credere a Dio dal credere Dio e dal credere in Dio (cfr. q.2, a.2). Il credere a Dio corrisponde alla ragione
formale dell’oggetto, ossia al motivo per cui si dà assenso ad una verità di
fede; il credere Dio, invece,
all’oggetto materiale della fede, dato che solo quello che appartiene a Dio è
ciò che viene proposto alla fede da credere; il credere in Dio, infine, è la fede come atto dell’intelletto
sottoposto alla spinta della volontà. In questo modo, ovviamente, Tommaso non
intende indicare tre diversi atti di fede, ma l’unico atto di fede analizzato
nel suo triplice rapporto con l’oggetto della fede. Per l’Aquinate l’accettare
una proposizione per fede significa soprattutto l’accettarla in quanto essa
poggia sulla autorità divina, dato che ciò che supera la ragione umana viene
creduto per rivelazione divina (cfr. Summa
contra Gentiles, I, 9). La fede è, quindi, principalmente una questione
relativa al credere Dio, poiché,
anche se è vero che gli uomini possono avere una conoscenza scientifica
dell’esistenza di Dio, come mostrano le ‘cinque vie’, la gran parte di essi
crede in Dio per fede.
La conoscenza data
dalla fede non è una conoscenza scientifica, poiché non procede attraverso
l’evidenza e la visione, in quanto essa «è una virtù con la quale sono credute
cose che non si vedono» (q.4, a.1). Nonostante questo Tommaso sostiene nel Commento alle Sentenze che «l’assenso
alle cose della fede è più fermo e fiducioso persino dei primi principi della
ragione» (q.1, a.3, qc.1, ad.1) così come nel De veritate afferma che «la fede è più certa di ogni intuizione e
di ogni ragionamento» (q.14, a.1, ad.7). A questo punto, però, è bene fare una
precisazione. Per l’Aquinate la certezza deve essere considerata sotto due
aspetti, rispetto alle cause che la determinano e dal lato del soggetto.
Rispetto alle cause, logicamente è più certo ciò che possiede una causa più
sicura ed in questo caso è più certa la fede che si fonda su delle verità
divine che ciò che si fonda sulla ragione umana; rispetto al soggetto, invece,
è più certo ciò che viene raggiunto intellettivamente con maggiore pienezza e,
quindi, la fede è meno certa dato che trascende l’intelletto umano (cfr. S. Th., q.4, a.8).
Per l’Aquinate l’essere
umano riesce grazie alla fede a percepire le perfezioni invisibili di Dio in un
modo molto più elevato di quanto potrebbe fare con la semplice ragione
naturale. L’uomo può raggiungere, quindi, la visione perfetta della
beatitudine, ma per farlo non può appellarsi alla sua sola natura ma deve
dapprima credere a Dio ed aprirsi a quella fede che è un dono soprannaturale
della bontà divina (cfr. S. Th., q.2,
a.3). Questo perché, secondo Tommaso, per conoscere le verità di fede è
necessaria la rivelazione di Dio, in quanto esse trascendono la ragione
naturale (cfr. q.2, a. 6), la quale si mostra insufficiente per fare in modo
che l’uomo possa avere la conoscenza delle verità divine (cfr. q.2, a.4).
Secondo Plantinga, leggendo Tommaso la questione non è tanto il chiedersi se
sia folle credere un qualcosa spinti dall’autorità di Dio, ma se sia folle
credere che Dio abbia proposto effettivamente una data informazione perché
fosse divenuta una mia credenza. Secondo l’Aquinate, se Dio ha veramente fatto
ciò l’essere umano non dovrebbe fare altro che crederci[1].
Il credere nei misteri della fede non mostra, infatti, la stupidità del
credente o la sua leggerezza, in quanto il suo atto di fede è mosso
dall’evidenza che viene fornita a supporto del fatto che è stato lo stesso Dio
ad invitarlo a credere a quelle cose. Vi sono delle opere visibili che possono
essere considerate superiori alle capacità di tutta la natura, come la
guarigione dalle malattie o la resurrezione dei morti e, non meno, la
straordinaria velocità con cui si è diffusa la religione cristiana nel mondo,
le quali ci offrono un’evidenza tale che non sembra irrazionale l’accoglierle[2].
Per questo motivo secondo Tommaso non solo le argomentazioni metafisiche di
teologia filosofica portano a dire che
Dio esiste, ma anche la testimonianza delle persone o i miracoli ed i prodigi
(cfr. q.6, a.1). Da tutto ciò il credente cristiano conclude che Dio ha
compiuto delle rivelazioni nella storia, la cui essenza è contenuta in quelle
proposizioni del Credo che l’Aquinate chiama articoli di fede e verso i quali
il credente manifesta il suo assenso[3].
Questi articoli di fede «stanno alla dottrina della fede come i principi per se noti stanno alle scienze acquisite
dalla ragione umana» (q.1, a.7).
Il legame tra fede e
volontà ricorre spessissimo nel pensiero tommasiano, in quanto l’intelletto dà
il proprio assenso aderendo alle verità di fede non mosso da una loro visione
chiara e distinta, da una loro evidenza, bensì per un comando della volontà
(cfr. q.5, a.2). Ma quali effetti provoca la fede nel credente? Secondo Tommaso
la fede può essere causa di un duplice tipo di timore, servile e filiale. Una
fede informe, infatti, può causare un timore servile dovuto alla conoscenza che
la fede dà di quei mali con i quali vengono puniti i peccatori nel giudizio
divino. Una fede formata, invece, per l’Aquinate può essere la causa di un
timore filiale, ossia della paura espressa dal credente di essere separato da
Dio o di mancargli di rispetto, visto che la fede fornisce la convinzione che
Dio sia un bene immenso e privarsi di esso sia il peggiore dei mali (cfr. q.7,
a.1).
Giovanni Paolo II nella
Fides et ratio riprende la dottrina
di Tommaso nel cercare di delineare il rapporto che deve intercorrere tra gli
abiti conoscitivi della fede e della ragione. Essi, infatti, trovano in Dio la
loro origine e in Lui il loro fine, per cui devono vivere una reciproca
armonia. Se, infatti, la grazia suppone la natura portandola a compimento, la
fede deve supporre e perfezionare la ragione (cfr. n. 43). La fede può fare ciò
solo riuscendo a condurre l’intelletto ad aderire a delle verità che non
potrebbe conoscere naturalmente. Alla ragione spetterebbe la dimostrazione di
quei preambula fidei, che sono
antecedenti alla fede, nonché il cercare di rispondere alle molteplici
obiezioni che si sollevano contro la fede stessa.
La religione è per Tommaso la virtù morale che offre
a Dio il culto che gli è dovuto. Questa definizione fa riferimento all’etimologia
ciceroniana di religione come relegere,
ma è presente anche il riferimento a religare,
ossia a legare strettamente insieme, come anche la prospettiva agostiniana di
un rieleggere Dio nella nostra vita dopo averlo per negligenza messo da parte
(cfr. S. Th., II-II, q.81, a.5). Secondo l’Aquinate queste tre accezioni
di religione ci possono portare alla conclusione che la religione sia una virtù
che ci dice di ordinare tutto a Dio, in quanto «Egli infatti è colui al quale principalmente dobbiamo
legarci come a un principio indefettibile e verso cui dobbiamo dirigere di
continuo la nostra scelta, quale ultimo fine, e ancora è colui che perdiamo con
la negligenza del peccato, e che dobbiamo ricuperare credendo e prestando la
nostra fede» (ivi). Secondo Battista
Mondin si può comprendere il senso profondo della virtù della religione solo
inserendola all’interno del dinamismo dell’exitus
e reditus che sta alla base
dell’edificio metafisico e teologico dell’Aquinate[4].
Il creato è originariamente legato a Dio come alla fonte da cui scaturisce,
avendo la sua origine nell’Intelletto e nella Volontà creatrici; al tempo
stesso il creato è anche separato da Dio una volta che viene ad esso dato il
suo essere. Comunque Dio non abbandona il creato ma continua a sorreggerlo in
maniera provvidenziale, indirizzandolo al ricongiungimento con Lui. Anche
l’essere umano, facendo parte del creato, è chiamato a ricongiungersi con Dio,
a colui che è il suo principio ed il suo fine ultimo. Per questo motivo la
religione non può essere considerata una virtù teologale come la fede, dato che
non ha Dio come oggetto ma come fine dei suoi atti. È, allora, una virtù morale
avente per oggetto i mezzi che sono ordinati al fine. Ma non solo. La religione
è una virtù morale facente capo alla giustizia, poiché si deve dare a Dio
quanto gli è dovuto, anche se non in maniera assoluta, ma sempre rapportato
alle capacità dell’uomo (cfr. S. Th.,
II-II, q.81, a.5).
Alla religione, secondo Tommaso, spettano degli atti
propri che possono essere interni o esterni. Gli atti interni sono quelli che
legano l’uomo a Dio soltanto, come la devozione e la preghiera, che sono
appunto atti interni della religione (cfr. q.82). Con devozione l’Aquinate
intende «una certa
volontà di dedicarsi prontamente alle cose attinenti al servizio di Dio» (q.82,
a.1) mentre con preghiera ciò che permette all’essere umano di rendere onore a
Dio, in quanto egli «si sottomette a lui e confessa col pregare di aver bisogno
di lui, quale causa dei suoi beni» (q.83, a.3). Vi sono poi gli atti esterni
propri della religione, come per esempio l’adorazione e i sacrifici. Secondo
Tommaso con l’adorazione l’uomo è chiamato in nome della sua duplice natura,
sensitiva ed intellettiva, ad offrire a Dio una duplice adorazione, spirituale,
come interna devozione dell’anima, e corporale, come esterna umiliazione del
corpo. Quest’ultima, comunque, viene fatta in funzione di quella spirituale,
dato che in tutti gli atti di religione ciò che è esterno si riallaccia a ciò
che è interno (cfr. q.84, a.2). I sacrifici nascono dal fatto che l’essere
umano ha il bisogno di esprimere la sua sottomissione a Dio, esigita dalla
ragione naturale in quanto essere a lui superiore, attraverso dei segni sensibili,
proprio come si comportano i servi quando fanno dei doni ai loro padroni,
riconoscendo così il loro dominio su di essi (cfr. q.85, a.1).
[1] Cfr. Alvin Plantinga, Dio esiste. Perché affermarlo anche senza prove, Rubbettino,
Soveria Mannelli 2011, 47.
[2] Cfr. Ivi, 47-48.
[3] Cfr. John Jenkins, “La fede e la rivelazione”, in Aquinas 3 (2011) 415.
[4] Cfr. Battista Mondin, Dizionario enciclopedico del pensiero di san Tommaso d’Aquino, ESD,
Bologna 2000, 581.
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